Quel 30 ottobre avevo 6 anni e mezzo. Ho un pallido ricordo, forse tra i più acerbi che mi restino in memoria, di quella domenica grigia e piovosa allo stadio di Perugia, che si chiamava "Pian di Massiano". Quando mio padre mi portò a vedere la Juventus. Credo sia stata la prima volta per me.
Solo ammirare quelle maglie bianconere, dal vivo, capaci di materializzare le immagini sbiadite della tv di casa, opposte al rosso vivo delle casacche di una squadra che in fondo strappava simpatia e curiosità, suscitò un'emozione sconosciuta. Era tutto vero. Vedevo Zoff guidare la difesa, blindata dall'agonismo di Gentile, l'onnipresenza di Furino, l'eleganza di Scirea. E poi a centrocampo le falcate di Tardelli, la durezza di Benetti, le piroette laterali di Causio. E in attacco il carisma di Bettega e la suggestione di Boninsegna. Nomi quasi mitologici nell'immaginazione di un bambino che quei volti li aveva visti solo in una figurina adesiva: anche quella dalla fragranza e dal profumo inconfondibile.
Mancava solo la sigla di 90' minuto e la voce familiare, abbinata al sorriso come fosse quello di uno zio di fuori porta in visita domenicale, di Paolo Valenti. Sembrava di immergersi in un mondo parallelo, un avatar affollato e chiassoso, distante dalla quiete quotidiana della mia cittadina di periferia, focalizzato più dagli odori e dai fragori degli spalti che dalle immagini. Il fumo di marlboro che in tribuna si mescolava all'aroma delle noccioline, acquistate da goffi omini attempati, con berretto, barba incolta e accento meridionale, condannati a penetrare faticosamente l'intera superficie delle gradinate, gremite come un alveare brulicante. E il brusio delle masse che si trasformava in un boato non appena la palla dagli esagoni neri e il cuoio ruvido, si avvicinava al limite dell'area. Un vero circo fatto di sensazioni infinite.
Doveva essere un pomeriggio gioioso anche se infastidito dalla pioggia torrenziale. Finì con un rientro cupo e silente. Con mio padre che cercava nervosamente di carpire notizie dalla radio in auto, dopo che, solcando la folla in uscita dallo stadio, l'unica frase che scorreva nitida tra gli ombrelli sgocciolanti era: "Dicono alla radio che è morto...". Non sapevo esattamente neanche chi fosse. Non potevo sospettare la tragedia che si era da poco consumata. Non riuscivo a immaginare che da quel giorno in poi il suo nome sarebbe stato anche il nome di quello stadio, oggi così familiare: Renato Curi.
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