Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

venerdì 30 marzo 2018

Un 19 marzo che sa di festa speciale: dedicata a mio padre... e all'azienda di famiglia

Avrei potuto festeggiare la "festa del papà" con una foto. Ne ricordo una che mi ha fatto sempre sorridere. Avrò avuto 7-8 anni e insieme a mio fratello, di 3 anni più piccolo, ero accartocciato su mio padre, credo nel divano del salotto. L'ironia nasceva dai volti, da quel bianco e nero consumato, da quello sguardo un po' ombroso, che non ho mai riconosciuto in mio padre. Con un look da boss della Magliana che offriva appena un accenno di sorriso ai suoi pargoli.
Invece preferisco sceglierne un'altra di foto. Molto più recente.
E' di lunedì 19 marzo. Quando sono capitato alla nuova stazione di servizio dell'azienda di famiglia, la SEP. Nel primo giorno di apertura,
Una sortita veloce, sotto un cielo un po' grigio, di una giornata che invece sapeva di "ossigeno puro": quasi una liberazione da un'attesa burocratica di mesi, una maratona ai limiti dell'assurdo, finalmente conclusa.
Ecco, la foto che voglio regalarmi per la "festa del papà" è un pezzo della sua vita. E di quella di suo padre, il nonno Stefano, che con la moglie Anna, fondò esattamente 50 anni fa questa azienda.
Che oggi, giunta alla sua terza generazione, compie un altro passo avanti. Un investimento importante, che in parte è un ritorno alle origini.

Per la verità in mezzo ai carburanti mio nonno ha cominciato a starci quasi un secolo fa, quando tornato poco più che ventenne dalla Prima Guerra Mondiale, con i soldi della liquidazione, si comprò un autocarro per i primi trasporti, e poi aprì un distributore di benzina niente meno che al centro di Corso Garibaldi, nella piazzetta di S.Antonio (quando il destino...).
Per la verità in quegli anni (Venti-Trenta) fare il pieno ad una delle poche vetture in circolazione (forse non si arrivava alla dozzina in tutta Gubbio) era un vero avvenimento: roba da radunare i curiosi intorno all'auto di passaggio quando la pompa entrava in azione. Oggi a ricordarla una gigantografia che campeggia proprio su un angolo della nuova stazione di servizio, sovrastando la colonnina elettrica: quasi che il passato che ancora riesca a vegliare sul futuro.

Poi la storia imprenditoriale del nonno, trasferita a mio padre, è passata attraverso altre stazioni di servizio, come quella Shell di fronte all'Hotel San Marco, e quindi dopo la nascita della SEP nella zona del Pinolo, che fu anche una delle primissime stazioni di servizio (non solo carburante ma anche assistenza e officina) in tutta l'Umbria. Quella che ho conosciuto nei miei anni infantili e adolescenziali, assaggiando quell'odore di benzina che ho sempre adorato, con quella fragranza acre e aggressiva capace di avvolgere l'olfatto come un'iniezione di energia.

Ricordo i pomeriggi d'estate trascorsi all'API di via Porta Romana, nell'ufficio presidiato proprio dal nonno Stefano, che siedeva all'ingresso, camicia arrotolata sulle maniche, pantaloni vita alta, e occhi  verde azzurro limpido (che purtroppo, quello no, non sono riuscito a ereditare). Squadrava silenziosamente ogni cliente sapendo dentro di sè il grado di affidabilità di ognuno: un parametro da Basilea 2 incentrato sullo sguardo, gettato da cima a piedi, e sulla stretta di mano che, a quei tempi, valeva come un contratto attestato in uno studio notarile. Altro secolo, verrebbe da dire...
Ricordo quando tredicenne mi divertivo a scarabocchiare qualche documento che mio padre o mia madre mi avevano insegnato a compilare.
E iniziavo a prender confidenza anche con qualche computer: di quelli che si rivedono solo nei documentari commemorativi di Steve Jobs, pesanti come marmo, con quello schermo grigio ornato da sottili crittografie verdi o arancio. Che diventarono più familiari qualche anno dopo, quando su quegli stessi arnesi cominciai a digitare i miei primi articoli. Senza sapere che da lì, da quel pezzo di vita di mio padre, sarebbe iniziata l'altro pezzo di vita. Quello che poi mi è appartenuto in questi ultimi 30 anni. Scrivere.

Ecco dunque il regalo (e l'immagine) che più si addice a questo 19 marzo.
La prima pagina di un nuovo capitolo nel cammino dell'azienda di famiglia: dove in fondo il mio babbo - l'ho chiamato sempre così (altro che papà) - ha trascorso la gran parte della sua esistenza. E lo fa ancora oggi. Costruendo qualcosa di importante. E voltando pagina dopo aver lasciato le redini a mio fratello Stefano. In un certo senso, perchè, proprio come l'altro Stefano (suo padre), non riuscirà mai a staccarsi davvero da quel piccolo tempio. Di lavoro, di professionalità, ma anche di dedizione e sacrificio.


PS. In fondo queste righe sono anche un timido tentativo di farmi perdonare. Per non essere mai riuscito a far parte fino in fondo di quel mondo. Nonostante ne sia straordinariamente orgoglioso...
Come deve esserlo stato il nonno Stefano: nell'osservare la semplice ma significativa inaugurazione di qualche giorno fa, alla quale hanno partecipato anche Sindaco e Vescovo.































Racconto fotografico, immagini by Giampaolo Pauselli

martedì 13 marzo 2018

Dal reportage di Purgatori alle parole del generale Cornacchia: quanto pesa il caso Moro ancora oggi

La storia si può raccontare in tanti modi. Preferibilmente dando voce ai testimoni. Quando non addirittura ai protagonisti. Anche se questi hanno avuto un ruolo negativo. L'importante è tenere ben visibile il confine che la storia indelebilmente ha tracciato: ad esempio, tra carnefici e vittime.
Ci ripensavo ieri sera, guardando la prima parte dello speciale di La7 "Atlantide", curato da Andrea Purgatori, giornalista e scrittore che ebbi la ventura di conoscere a Fiuggi nell'autunno 2006 - durante la settimana di conclave che generalmente organizza l'Ordine Giornalisti con tutti gli "aspiranti" professionisti, prima di sostenere l'esame di Stato a Roma. Personaggio stimolante, anche se talvolta non condivisibile nei modi e nelle opinioni. Ma questo non ne scalfisce la grande caratura professionale, l'indubbia capacità comunicativa e l'abilità esplorativa di un vero maestro d'inchiesta.

Il suo speciale sulle "Verità nascoste sulla morte di Aldo Moro" - andato ieri con la prima parte (la seconda sarà domani sera, lo dico perchè tanto non ha bisogno della mia pubblicità) - regala uno spaccato decisamente interessante sugli anni di piombo. Perchè a raccontarli sono coloro che li resero cruenti, tragici e, speriamo, irripetibili.

Degli anni '70 potremmo rimpiangere tante cose. Io ero un infante, ma il sound di certe "creazioni" musicali dell'epoca ancora lo ricordo, a bordo della Opel Record di mio padre, grazie ad un mangianastri che divorava enormi mattoni chiamati cassette musicali TDK. Roba che oggi non entrerebbe neppure in un cartongesso.
Quel che di certo sarà difficile rimpiangere è proprio quell'atmosfera "di piombo" che gravava, soprattutto nelle grandi città, lasciando spettri e incertezze sul futuro. Sintetizzabile in un dato: 428 morti, oltre 1.000 feriti in circa 14.000 attentati. Praticamente ogni giorno si sparava da qualche parte.

L'apice però fu il caso "Moro", col rapimento e poi l'uccisione del presidente della DC, nel giorno stesso in cui il Parlamento avrebbe dovuto dare la fiducia al Governo DC sostenuto dal PCI, voluto fortemente dallo stesso Moro. Un giorno che invece sarebbe stato vissuto in modo angosciato da tutti. Almeno da tutti quelli che temevano che non solo la Democrazia Cristiana, ma la stessa democrazia fosse in pericolo.
Quella Renault 4 rossa, ritrovata poi due mesi dopo sempre a Roma, e preannunciata da una telefonata anonima, fu come un macigno che sbarrava la strada al futuro della libertà stessa della nostra Repubblica.

Tanto si è scritto e detto sui retroscena di questa parentesi di storia modena (e domani sera Purgatori ne traccerà sicuramente un profilo interessante ma che c'è da crederci, farà discutere).
Una pagina relativamente recente. Appena 40 anni fa. Che in quanto tale, nelle scuole difficilmente diventa materia di discussione e tanto meno testo di esame.
Per quelli della mia generazione Aldo Moro non fu solo colui al quale fu intitolata la propria scuola elementare, ma la prima vera tragedia di cronaca vissuta davanti al piccolo schermo. Ad rimbalzare il proprio sguardo un po' incredulo, un po' inconsapevole, tra i collegamenti in bianco e nero di un Paolo Frajese ansimante, e i volti esterrefatti e stranamente ansiosi in famiglia, da chi di solito seguiva un tg più per commentare, e magari apostrofare il politico di turno (come faceva mio nonno ad esempio, con Pannella) che per seguire davvero le notizie di cronaca.
Il generale Antonio Cornacchia
Sarà per questo che mi sono appassionato a quel decennio, dedicandoci attenzione, qualche approfondimento, diverse interviste.
Una in particolare. Quella con il generale Antonio Cornacchia: un signore distinto, dall'accento meridionale ma umbro d'adozione, tutto d'un pezzo, come si addice ad un generale dei Carabinieri. Che in vita sua ne deve aver viste tante.
Se è vero che è colui che aprì il bagagliaio della Renault 4 rossa di via Caetani, svelando il plaid sotto al quale giaceva il corpo di Moro; se è vero che è colui che catturò il bandito Renato Vallazasca, intavolandoci un dialogo a distanza con cui lo convinse ad arrendersi; se è vero che è colui che fu tra i più acerrimi oppositori della banda della Magliana.
BR, Vallanzasca, Magliana. Tutte pagine di storia e di cronaca che forse i più giovani conoscono grazie ai moderni strumenti di divulgazione storiografica: la fiction. Bella, accattivante, coinvolgente, ma forse poco propensa a quel ruolo didattico che si addice invece ad un libro di storia.

Ecco, Purgatori quella storia se l'è fatta raccontare dai brigatisti. Operazione audace, forse discutibile, provocatoria, controcorrente ma anche interessante. Per conoscere anche la voce di chi sta dall'altra parte. E non per ascoltarne le ragioni. In fondo è tutta gente che da anni sta fuori dal carcere. E non per colpa di Purgatori.
Un'unica avvertenza. Le interviste, intese come testimonianze, possono anche starci. Purchè - e sottolineo purchè - ci si ricordi sempre del confine: la linea di demarcazione, magari ideale purchè chiara e indelebile, che c'è e deve restare. Tra vittime e carnefici. Le prime, troppe volte dimenticate, a cominciare dai media. I secondi troppe volte esaltati, e non solo dai media. Ma anche da una intellighenzia da salotto che spesso preferisce affiancarsi qualche "reduce" a cinque stellle (quelle delle BR, per non confonderci con le Cinque Stelle di oggi) in veste di eroe, che magari il figlio o nipote di chi ha dato la vita per servire il propri Paese.
Un po' quel che mi disse proprio Antonio Cornacchia in quell'intervista del 2010 a TRG, che sono andato a ripescare proprio da questo blog, con una frase che mi è rimasta impressa in modo lapidario:

Antonio Cornacchia recentemente ha presentato il libro "Airone 1" (il suo nome in codice): e ho avuto la fortuna di intervistarlo, ancor prima della pubblicazione del libro, per "Link" la scorsa primavera.
Cornacchia mi confidò fuori dal microfono: 

"Non era il rischio della vita o magari uno stipendio misero, le cose che ci rattristavano. Era vedere che spesso la gente ci considerava aguzzini mentre dava degli eroi a persone che non rispettavano la legge, uccidevano e rapinavano. Spesso nei film o nelle ricostruzioni che vengono fatte ancora oggi in tv, si sente ancora questa assurda distinzione, che ribalta completamente i punti cardinali della verità: da una parte c'era la giustizia, il diritto, lo Stato, le regole; dall'altra la sovversione, la delinquenza, l'arbitrio".

Ecco, senza mai perdere di vista queste sue parole, quasi a perimetrare l'alveo dentro al quale una vicenda drammatica come gli Anni di Piombo continua a rappresentare nel difficile cammino del nostro Paese, ho guardato per intero la prima puntata dello speciale di Purgatori. E l'ho trovato inquietante, nel senso letterale del termine: non per lo stile, anzi molto dinamico e autentico, ma per la relativa (e a tratti irritante) naturalezza con cui i brigatisti intervistati (da Moretti a Gallinari, da Fiore a Morucci) raccontavano le proprie azioni criminose, descrivendo con fare meccanico, i movimenti, i preparativi, le strategie messe a punto per tentare l'assalto a quel nemico giurato chiamato Stato.
Mario Moretti, oggi: condannato all'ergastolo, è in semilibertà
Senza un minimo cenno di rimorso, senza pentimenti, senza un pensiero, neanche per un istante, per le loro vittime. E per quelle famiglie letteralmente decapitate in nome di una assurda ideologia.
Una ricostruzione incompleta, si potrà dire. Può essere. Di certo una ricostruzione parziale (cioè di parte), con la sola voce dei brigatisti. Che può disturbare, apparire irriguardosa soprattutto verso i familiari delle vittime. Ma che sul piano della ricostruzione, in una chiave alternativa, può starci.
Purchè - sempre quel purchè - sia completata anche da altre voci. Da chi, oltre quella barricata, ha pagato con i vuoti della propria vita, le loro scellerate e criminali congetture.
Per non rischiare che il telespettatore perda di vista la bussola della storia.
Quella bussola per cui c'erano persone che rischiavano la vita per difendere le Stato. E altre, i protagonisti di questo documentario, che sparavano per abbatterlo.
Oggi che quella guerra è finita, anche se a raccontarcela sono i brigatisti, possiamo ribadirlo: è andata bene.