Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

domenica 8 novembre 2020

Quella scalinata scesa con Don Angelo. E la sua voglia di "osare", di cui dovremmo ritrovare le radici...


L'importante, don Angelo, è che non facciamo la fine “de la muta dei Colonnelli”...”. 

“Grazie, Giacomo. Ma ho già dato...”.

E' il ricordo che mi resta dell'ultima volta che ho visto don Angelo Fanucci, qualche settimana fa: scendevamo dalla scalinata della chiesa di San Giovanni (quella che ancora per i turisti, resta la chiesa di “Don Matteo”), dopo il battesimo di Bernardo, mio nipote e anche suo pronipote.

Il distanziamento non c'era ma a metà settembre eravamo ancora felicemente inconsapevoli della nuova ondata pandemica che di lì ad un mese ci avrebbe ancora traviato. Mascherine sì, igiene delle mani quanta ne volete, ma quando don Angelo si è affacciato sul ciglio della chiesa per scendere, abbandonando il deambulatore con cui aveva anche celebrato la cerimonia battesimale, mi è venuto spontaneo offrirmi al volo per sostenerlo sotto braccio lungo le scale. Il suo sorriso era naturale, si vedeva che faticava a muoversi ma l'atmosfera di quella giornata di sole tiepido, ancora animata da reflussi estivi, tra il familiare vocio di amici e parenti, a salutare una giovane vita che imboccava anche la strada del “credo”, non poteva che appagarlo.

E allora non ho perso l'occasione per qualche battuta, con quella confidenza che da anni caratterizzava le nostre chiacchierate, condita di una complicità di ironie e di comuni sensibilità. 


E così, in quell'incerta discesa, facendo attenzione scalino per scalino a non appoggiare i piedi in qualche insidioso pertugio, ho rivangato la memorabile (e poco fortunata) esperienza ceraiola di quel maggio 1971, che spesso don Angelo mi aveva rimembrato in interviste e aneddoti: il celebre “botto” del cero di Sant'Antonio sulle girate in piazza Grande, che vide protagonista la cosiddetta “muta dei Colonnelli” (così denominata perchè composta da un ristretto gruppo di ceraioli di sicura esperienza, affidabilità, praticamente una buona fetta dell'elite santantoniara). “E' stata tutta colpa de 'n prete che c'avea a braccere 'na ragazza” fu la vulgata divampata nei minuti successivi alla disavventura ceraiola: per la cronaca, il prete era don Angelo, giovane e aitante santantoniaro che in barba ai doveri di tonaca non disdegnava la spallata, anche in pezzi molto impegnativi, come le girate; e la “ragazza” era l'amico, oggi apprezzato fotografo, Pietro Biraschi, che al tempo sfoggiava una chioma ora improbabile e che proprio qualche giorno fa, dopo la dipartita di don Angelo, mi ha confidato di averlo dovuto trattenere da sicura reazione rissosa, a chi lo apostrofava ingiustamente per il malcapitato inciampo: “Forse è l'unica volta in vita mia che ho visto don Angelo furioso di rabbia e pronto a mettere le mani addosso a qualcuno”, ha rivelato il buon Pietro.

Il bello dei Ceri: che ti fanno tirare fuori il meglio e il peggio di te. Magari nel giro di pochi secondi.

Lo sapeva bene, don Angelo, che quando parlava di questa straordinaria “vita parallela” che condiziona ogni eugubino, sapeva disegnare metafore e parafrasi di straordinaria intensità. O coniava frasi celebri come quella che bollava il “Sessantotto a Gubbio”, come fenomeno praticamente assente e mai percepito, tanto da essere ricordato “unicamente per la caduta di Sant'Ubaldo su la Callata”.

I Ceri come metafora della vita, come “festa dell'appartenenza”, altra definizione che mi è rimasta tatuata, e che nasceva dalla felice commistione di un bagaglio culturale poderoso accanto ad una formidabile carica di umanità. Che ne ha fatto per decenni personaggio di carisma e spessore unici.

In altra epoca, in altre vesti, in altro ruolo, uno come don Angelo avrebbe potuto assurgere a riconoscimenti di eccellente valenza: coerenti con la statura del suo sapere e del suo sentire. Ma è la straordinaria umiltà, che ne ha contraddistinto scelte di vita e qualche volta anche alcuni errori nel cammino, a definire la cifra gigantesca del suo essere.


Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di condividerne riflessioni e approfondimenti culturali, decine e decine di interviste sempre prolifiche di uno spunto di meditazione mai scontato, mai banale, magari anche non condivisibile, ma sempre preziosa chiave utile ad aprire lo scrigno della mente. A non dare per scontata la scelta più facile e banale.

E' stato anche il sacerdote che ha celebrato il mio matrimonio: ci tenevo e comunque era destino che sarebbe accaduto. In quel 20 agosto 2000, giornata del Giubileo mondiale dei Giovani, finì per restare l'unico prete fisicamente presente a Gubbio in una domenica semplicemente torrida. Dove gli invitati non uscivano mai dalla Cattedrale, non perchè impazienti di salutare gli sposi, ma perchè l'interno di quelle spesse mura duecentesche appariva molto più refrigerante che l'apnea monsonica esterna. E quella sua frase, pronunciata durante l'omelia, che mi sarebbe rimasta dentro: “Ricordate che non basta dirsi “ti voglio bene”. Ma tra qualche anno, la frase che dovrete sapervi dire è “Io voglio volerti bene”".


Una cultura sconfinata, che ne ha fatto un maestro per centinaia di studenti ai quali ha saputo trasmettere il piacere della conoscenza, il gusto del navigare tra storia e filosofia, la tendenza ad interrogarsi su quanto ci circonda, senza mai dare nulla per scontato, senza doversi per forza fermare alla superficie, senza accettare pedissequamente la versione ufficiale. In questa veste ne assaggiai per qualche lezione "rafforzativa" la forza trascinante, poche settimane prima degli esami di maturità: qualche breve ripasso di letteratura italiana, utile a colmare lacune ragguardevoli, che avevo lenito con uno studio appassionato e incessante di storia. "A me, don Angelo, piace solo storia" gli ripetevo.

Un uomo, prima ancora che un sacerdote, portato a non abbassare mai l'asticella; ma se possibile, capace di alzarla continuamente, anche quando il buonsenso non lo avrebbe suggerito, in una vita votata alla rincorsa dell'obiettivo successivo, fosse una nuova campagna di solidarietà, una missione umanitaria in Sudamerica o magari la riscoperta  dei canti gregoriani a S.Maria.


Non ho vissuto, per motivi anagrafici, la sua epopea che dagli anni Settanta lo ha visto formidabile interprete della scelta nel Sociale: in fondo ero nato un paio di settimane dopo quel “botto” in piazza Grande.

Ma ho sempre potuto apprezzare l'inconfondibile sigillo che don Angelo ha impresso sulle sue innumerevoli iniziative: la voglia di osare, di guardare oltre al muro della convenienza e dei convenevoli, di non adagiarsi in quella che oggi chiameremmo “confort zone” (e che lui meglio avrebbe definito come “otium”) fatta di celebrazioni, liturgie e qualche paternostro. 

Una lezione di vita vissuta, di filosofia reale, di indirizzo evocativo di una Gubbio instancabile e sognatrice, che oggi si fatica a intravedere.


Per una comunità, e una città, che deve molto a quella generazione, al clima anche di confronti accesi, ma sempre fertile di proposte e ricerca innovativa. E dunque, mai doma né rassegnata all'incedere stanco del tempo.

Con l'uscita di scena di don Angelo – fatico persino a parlare di morte – se ne va un indiscusso protagonista di un'epoca inimitabile.Che rischia di diventare anche irripetibile, se l'apatia di questi anni – condita da tanti “no” spesso di piccole e chiassose minoranze  – continuerà a prevalere sul buonsenso e il silenzio dei più. Impedendo alla città di evolversi. 


Un giorno, parlando dell'ennesima polemica su un progetto che molto ha fatto discutere e che ora è sopito nel dimenticatoio (la ristrutturazione delle Logge) giungemmo a questa sintesi condivisa: "Se nel Trecento gli Eugubini non avessero pensato in grande al loro futuro, non avessero sfidato persino la forza di gravità, oggi non avremmo Piazza Grande e il Palazzo dei Consoli".

Don Angelo era capace di sognare. E qualche sogno lo ha pure realizzato. 

La sua impronta è destinata a restare nella memoria. Anche se la sua eredità andrebbe raccolta. Nello spirito e soprattutto in quella voglia di osare, di cui nella Gubbio di oggi, sembrano essersi perse purtroppo le tracce.