Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

sabato 21 giugno 2014

Azzurri e... la sindrome della "seconda" (partita). Tra corsi e ricorsi pensando all'Uruguay

Ormai e' dimostrato, la "sindrome della seconda" e' tipicamente italiana.
Capiamoci subito. Parliamo di calcio, parliamo di partite a gironi nelle competizioni internazionali piu' importanti. 
La seconda partita e' diventata un incubo, a prescindere dal nome dell'avversario. Anzi piu' e' esotico e improbabile, più e' facile che gli Azzurri siano in vena di prestazioni memorabili. Memorabili alla rovescia.

Che cosa accadrà ora martedì, alla solita ora di pranzo (in Brasile) contro l'Uruguay?
Ci giochiamo il futuro del Mondiale 2014 con quella che in fondo e' la squadra piu' italiana dopo l'Italia, non solo perché 1/3 dei suoi 3 Milioni e mezzo di abitanti (poco piu di Roma) ha cognome o sangue italico; non solo perché quasi tutti i componenti della Celeste sono calcisticamente maturati nei nostri club; ma soprattutto perché da sempre l'Uruguay e' la piu europea delle sudamericane, nel gioco, nell'agonismo, nella forza di non mollare mai. E di non tradire le attese. Di solito.
"Se l'Inghilterra e' la madre del calcio, l'Uruguay e' il padre", si diceva un tempo. Mentre i presuntuosi sudditi di Sua maestà rifiutarono di giocare il Campionato del Mondo fino al secondo dopoguerra (perché da ideatori del gioco del calcio si consideravano il dream team planetario che non poteva sporcarsi i parastinchi con italiani e austriaci), proprio Italia e Uruguay - quasi come sorella e fratello - vincevano i primi 4 Mondiali (2 a testa) tra il 1934 e il 1950 compreso il celebre Maracanazo, ovvero l'imprevedibile 2-1 uruguagio firmato Ghiggia e Schiaffino (poi naturalizzati italiani, guarda un po'...) inflitto al Brasile niente meno che nel tempo del calcio carioca davanti 200 mila persone.
Tutto questo conterà qualcosa martedì sotto il sole cocente di Natal, e all'umidità tropicale così invisa ai giocatori di Prandelli? Forse.
Perché in certe partite non conta solo come ti metti, chi gioca, che schema adotterai. In certe gare, da dentro o fuori, conta soprattutto CHI SEI. Chi sei davvero, chi senti di essere e rappresentare. 
E anche quale storia porti alle spalle e quale storia intendi onorare. E magari continuare a scrivere.
Un peso, tutto questo, quando davanti hai Costarica, Corea (Nord o Sud e' indifferente) Slovacchia, Croazia, tanto per citare qualche nome a caso delle "Caporetto" calcistiche degli ultimi anni (spesso alla seconda giornata). Uno straordinario stimolo, invece, quando davanti ti ritrovi un altro monumento ideale della storia del football. Che conosci a memoria (anche per averci giocato non piu tardi di 12 mesi fa per il terzo posto della Confederation) e che in fondo ti somiglia parecchio.

Certo e' che la seconda giornata di un torneo di quelli pesanti, comincia a diventare indigesta alla maglia azzurra. L'ultima volta che l'Italia ha vinto una "seconda giornata" Mondiale comincia ad avvicinarsi alla maggiore età: era il 1998 e la Nazionale di un altro Cesare (Maldini), trascinata da un'altra ariete ex interista (Vieri) travolgeva il Camerun 3-0, dopo aver sudato non poco per rabberciare un prezioso 2-2 al debutto contro il Cile di un emergente Salas.
L'ultima volta in assoluto - a parte il 4-3 dell'anno scorso alla Confederation rifilato al Giappone di Zac - e' in realtà a cavallo tra i due secoli: risale al 2000 quando un Belgio anni luce lontano da quello attuale (che senza timore di smentita potrei pronosticare come probabile semifinalista) cedette di schianto all'Italia di Dino Zoff, forse la Nazionale piu' qualitativa dell'ultimo decennio, non a caso il gruppo base che poi trionfo a Berlino: Totti prima e Fiore poi infilarono i fiamminghi. Fu anche l'ultima Italia che chiuse la prima fase a punteggio pieno (9 punti in 3 gare) andando a battere ed eliminare anche la Svezia nella terza ininfluente partita in barba a qualsiasi sospetto di "biscotto". Gli scandinavi ci "ringraziarono" 4 anni dopo rifilandosi il piu clamoroso dei frollini in coppia coi danesi, unico caso nella storia del calcio in cui una squadra con 5 punti (Italia del Trap) fu eliminata al primo turno. Tra arbitri corrotti (2002 Byron Moreno) e vichinghi felloni il povero Trap dovette ingurgitare due supposte beffarde e colossali.

Spesso, molto spesso, insomma, e' accaduto che gli Azzurri si siano giocati il tutto per tutto alla terza gara. Quasi sempre.
Quando sarebbe stato necessario vincere, qualche volta siamo tornati a casa (come agli Europei inglesi, con il rigore di Zola abortito coi tedeschi; o come 4 anni fa con i carneadi slovacchi), altre volte e' bastato un pari - proprio come contro l'Uruguay. Uno di questi mi costo' una corda vocale, sull'incornata di Del Piero alle spalle di un portiere messicano con la faccia da pusher (2002) in una gara surreale vissuta da solo in un'abitazione che non era mia, mentre i figli giocavano nel giardino con alcuni amichetti ignorando che il loro papà stava friggendo.
Qualche volta il pari e' bastato. E qualche volta, come nell'82 o nel '94 da un pari anonimo, e quasi discusso, c'e' scappato il Mondiale memorabile...

sabato 14 giugno 2014

Comincia l'era Stirati: obiettivo, voltare pagina. A cominciare dalla Giunta...



Gli Eugubini non hanno avuto dubbi. Il 73% di Filippo Mario Stirati al ballottaggio – dove ha partecipato poco più della metà degli aventi diritto, comunque ben al di sopra delle medie partecipative di città come Foligno o Perugia – parla chiaro.
Ora, forte della legittimazione delle urne, il Professore dovrà cominciare a tessere la sua tela. Con un vincolo non da poco: l'approvazione del Bilancio in tempi record e prim'ancora l'individuazione della Giunta, di cui per il momento è stato fatto un solo nome, quello del prof. Augusto Ancillotti (destinazione Cultura).
A Filippo Stirati, dopo la lunga ed estenuante campagna elettorale, tocca ora l'onore ma soprattutto l'onere di capitalizzare la fiducia della gente in interventi immediati. Per dimostrare risolutezza nel voler cambiare pagina.
 
La definizione della Giunta sarà di per sé già un primo banco di prova e una cartina al tornasole, per capire dove esattamente si collochi il confine tra la volontà di “dare discontinuità” alla politica eugubina e la necessità di far quadrare gli equilibri in una coalizione eterogenea come forse nessun'altra in passato (se si eccettua la sola tacita alleanza Prc-Forza Italia del 2001, che aprì il decennio Goracci).
Tra le anime della coalizione Stirati si condensa la giovanile energia civica di “Scelgo Gubbio” (i fautori della prim'ora nella candidatura del Prof.), con la militanza di non pochi veterani che nella lista “Liberi e Democratici” hanno ottenuto il ritorno sugli scranni di Palazzo Pretorio. Senza contare Psi e Sel che pur con risultati elettorali minori, qualcosa vorranno pur contare nella partita.

Una delle "patate bollenti" per Stirati: l'ex ospedale
Gubbio ha bisogno di competenza e di affidabilità” ha ribadito anche dopo l'elezione il neosindaco, assicurando che su questi principi sarà disegnato il nuovo governo cittadino. E' quello di cui la città ha assolutamente bisogno.
Insieme ad un clima di ritrovata serenità – pur nelle differenti posizioni – che sarebbe, questo sì, già un enorme punto di distacco dal quindicennio lasciato alle spalle.

Chi esce malconcio dalle urne eugubine, oltre al centrodestra praticamente liofilizzato, è il Pd. Che, dopo la scoppola nei 90', ai calci di rigore del ballottaggio non si è neanche presentato, se è vero che al candidato Palazzari sono mancati ben 1.000 voti (su quasi 5.000) tra il 25 maggio e l'8 giugno. Difficile pensare siano rimasti arenati sulle rive dell'Adriatico.
Quanto al futuro politico del Pd eugubino, ci vorrebbe una sfera di cristallo di quelle buone. Di sicuro non è una priorità per il Pd regionale, che ha altri problemi cui pensare dopo il ribaltone perugino targato Romizi e alla vigilia di un'altra stagione elettorale (quella per le Regionali 2015) che adesso fa venire i brividi anche nelle menti più soporifere del primo partito regionale.
GMA

Da editoriale "Gubbio oggi" - giugno 2014
 

mercoledì 11 giugno 2014

Quel rito esoterico chiamato... Mondiali


Il Mondiale di calcio. Un rito esoterico che ogni quattro anni contagia milioni di persone.
Non vedo l'ora che arrivi. Non solo perché per un 2/3 settimane funziona da splendido anestetico della monotonia estivo- quotidiana. Quanto piuttosto perché i Mondiali di calcio rappresentano una sorta di pellicola della memoria che vedi correre lungo il cammino della tua vita.
Può apparire esagerato, ma in realta' la frase del libro di Paolo Rossi (Pablito, non il comico), ovvero che puoi non ricordare che poche date della tua vita, ma non dimenticherai mai dove e con chi ti trovavi il giorno in cui l'Italia vinse i Mondiali, e' sacrosanta.

In questi giorni mi diverto alla sera a fare un po' di zapping (per carità, pochi minuti, roba di mezz'ora al massimo) nei canali tematici che si divertono a riproporre dai propri archivi le immagini dei Mondiali del passato. A parte i capolavori narrativi di Federico Buffa su Skysport e SkyArte (un nuovo genere di linguaggio per raccontare lo sport oltre lo sport, andando anche oltre le emozioni capaci di essere evocate da un format come "Sfide"), ogni tanto spunta un filmato in bianco e nero, qualche spruzzata di amarcord, qualche gol da far scappare le corde vocali, qualche rigore a groppo in gola impossibile da digerire.

Tra le analogie di questo Mondiale con i primi ricordi infantili, c'e il fuso orario. Il mio primo Campionato da telespettatore/tifoso cosciente fu quello di Argentina 78: avevo solo 7 anni ma già il calcio era un bel diverticulum, soprattutto perché in quell'occasione - con le partite che si giocavano da mezzanotte in poi senza che il calcio fosse legato a doppio filo alle esigenze tv - significava andare a letto a notte fonda. Roba da grandi!
E se le palpebre non reggevano, la mattina ci si svegliava precipitosamente per andare a chiedere risultato e marcatori al babbo in camera da letto. Non esisteva nè Sky active, nè le finestre tematiche che se vuoi, ti rimpinzano di gol per 24 ore al giorno.

I vaghi flash che porto ancora nelle meningi mi accendono qualche fioca luce (ovviamente in bianco e nero) sulla partita degli Azzurri di Bearzot con l'Argentina, vista a casa dei nonni materni a San Martino, sul gol di Bettega (un nome quasi mitologico per me bambino, sentendolo nominare almeno ogni domenica, come fosse il prete sull'altare), sull'inevitabile mio crollo tra le braccia di Morfeo (non quello dell'Atalanta).
O qualche rimembranza nella quasi semifinale con l'Olanda (allora c'erano i gironcini di semifinale, studiati ad hoc per catapultare l'Albiceleste di Menotti in cima al mondo) vissuta a cavallo tra l'autogol iniziale degli Orange che sembrava spianare la strada e una partita giocata per strada con mio cugino Ettore interrotta dalle notizie che arrivavano dal terrazzo di casa (prima il pareggio e poi il vantaggio della squadra dei mitici gemelli VandeKerkof, con questo nome che ricordava le scatole di cioccolatini di una vecchia zia).

Tasselli di un passato che non può tornare: con le sintesi di telecronaca di Nando Martellini, le cravatte gigantesche degli inviati con basette improponibili, quei numeri sulle maglie fino al 21 che sembravano trasformare il calcio in qualcosa di diverso, quelle maniche lunghe e quel freddo così inusuale di giugno (ma in Argentina era inverno pieno) che sembravano trasmettere emozioni davvero dall'altro mondo (espressione banale, ma che un Papa, guarda caso proprio argentino, 35 anni dopo, avrebbe trasformato in un'epigrafe indimenticabile).
Chissà dov'era nel '78 Bergoglio. Io, nel mio piccolo, ero in casa a sognare che gli Azzurri vincessero. Non accadde, almeno per quel '78, anche se resto dell'idea che quella Nazionale fosse più forte di quella che 4 anni dopo avrebbe alzato la Coppa, rendendo indimenticabile il 1982 e forse un intero decennio.
Ma si sa... le grandi vittorie nascono anche da qualche sconfitta. E nella fattispecie, dalla testardaggine di un signore friulano che puntò su un blocco (quello Juventus) e alla fine ebbe ragione...

Tasselli di un passato che non può tornare. Ma che ogni 4 anni alimenta l'album dei ricordi. E un altro capitolo della vita. Parrà banale, parrà retorico. Ma per milioni di persone, non solo in Italia, l'esoterismo del Mundial, sta proprio in questo...

martedì 3 giugno 2014

Dalla magìa dei piccoli, alle spigolature dei grandi: cosa resta di questa Festa dei Ceri 2014...

E' stato un trionfo della spontaneità l'ultimo atto delle feste ceraiole 2014 con i piu' piccoli protagonisti. I Ceri piccoli condensano i significati piu innocenti e autentici della Festa.

E in questa "pellicola della verità" ci stanno pure le sconcezze, quelle che invece, nella stessa giornata, davanti agli occhi di quegli stessi bambini, vedono protagonista qualche adulto.
In genere dissennato o sotto effetto di sostanze alteranti - prevalentemente alcool ma non escludiamo anche dell'altro. In genere con la sola conseguenza di spaventare i poveri ceraioli in erba capitati da spettatori per caso. La speranza e' che capiscano, fin dalla tenera eta', quali esempi seguire e quali evitare.

L'immagine dei tre ceri piccoli insieme nel Chiostro
immortalata dall'arte di Giampietro Rampini
"Per essere grandi bisogna tornare bambini" ha ricordato saggiamente Don Mirko Orsini, Cappellano dei Ceri, nell'omelia di lunedì sera al ritorno dei santi alla chiesetta dei Muratori. Una frase che richiama un principio di S.Agostino ("per diventare grandi bisogna imparare ad essere piccoli") e che si sposa alla perfezione con lo spirito della Festa dei Ceri.
Quello spirito che troppo spesso finisce nel dimenticatoio (per non dire altrove) proprio nel luogo che dovrebbe maggiormente ispirare senso di riconciliazione o quanto meno di responsabilità: la Basilica.
E' quasi inutile ripetere il perché. Chi non l'ha capito ancora, e all'anagrafe magari ha ben oltre i 40 anni, non lo potrà comprendere adesso.
Un plauso e' comunque doveroso per il Cappellano che pur di fronte a scene sconfortanti non si stanca di richiamare i valori veri della Festa. Soprattutto con i più piccoli, cui spetta l'ingrato compito di dare una "sterzata" (servirebbe un capocinque di razza) a certi atteggiamenti. Con più coerenza rispetto a certi "valori" ripetuti a memoria in qualche intervista o nelle frasi di circostanza.

La Festa dei Ceri 2014 finisce definitivamente in un album fotografico. E allora di quest'anno, cosi' strano per il sottoscritto, mi piace rivedere qualche istantanea:

L'arrivo in Basilica -
Inutile sforzarsi. Tra 1000 anni, se esisterà ancora, come credo e spero, la Festa d Ceri, il 2014 sarà ancora ricordato come l'anno in cui il cero di San Giorgio ha "bloccato" il cero di Sant'Ubaldo sulla scalinata della Basilica. Un po' come il '68 (che a Gubbio si rimembra per la caduta sulla "Callata dei Neri"), un po' come il 2004 (caduta sul Corso). Non me ne vogliano i ceraioli santubaldari, ma e' così raro assistere a questi episodi che inevitabilmente quando accadono, lasciano il segno. E' andata bene anche ai noi Santantoniari. Se non altro per lasciare in seconda fila gli smacchi delle cadute messe insieme nel giro di 10' (ma 40 secondi effettivi) tra alzatella e Callata. Anche se, il fatto che se ne parli meno o per nulla, non lenisce le ferite.

Insieme nel chiostro -
Se c'e una foto che sintetizza in modo sublime questo 15 maggio e' l'immagine dei tre ceri nel chiostro. Insieme. Non e' un gesto voluto. Ma e' successo. E questo basta (almeno per quest'anno).

Il drone -
E' stato l'anno del drone. Ne giravano due la mattina del 15, anche se nessuno se n'e' accorto. Ne era rimasto uno la sera, in Basilica, e lo ha intravisto mio figlio che m'ha detto: "Babbo, perchè  sta volando quella playstation con le luci?".
Il video che ne uscito fuori, griffato Giampaolo Pauselli, e' una perla che resta immutabile ad esaltare l'energia, l'effervescenza, l'unicità cromatica e dinamica di una festa che non ha pari. Gli scorci della citta', già valorizzati in altre recenti produzioni video, hanno goduto di un valore aggiunto. E il fatto che tutto aia avvenuto senza minimamente scalfire l'atmosfera del 15 maggio (in passato il precursore Sartori aveva dovuto pagare dazio sul,piano impattante, pur ottenendo un risultato finale sublime) e' il valore aggiunto di un'iniziativa nata dal puro volontariato e dalla passione autentica. Che nessun professionista super pagato saprebbe garantire.

Il San Giorgio a spasso -
Di questa edizione dei Ceri ci resterà anche l'immagine di un anonimo 21 maggio, reso meno anonimo dalla passeggiata goliardica di un Sangiorgiaro... vestito da santo. Qualcuno ha storto la bocca, qualcuno ha parlato di gesto quasi blasfemo. I più hanno sorriso con la giusta leggerezza. Del resto non c'era volgarità e neanche supponenza. Sul piano estetico la ricostruzione era fedelissima. Il San Giorgio itinerante non ha preferito verbo, non ha parlato. Ha attraversato la citta', in silenzio, con il sorriso sotto i baffi (e' il caso di dirlo) gustandosi un "trionfo di corsa" piu' che legittimo. Tra tante manifestazioni di sana"cojonarella" (sopravvive da qualche parte ancora la bietola per fortuna, e a giro tocca a tutti) annoveriamo anche questa.
Ricordandoci che i santi vanno onorati nei modi e nei luoghi opportuni. I nostri, in particolare, il 15 e il 16 maggio.