Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

sabato 18 maggio 2019

Festa dei Ceri 2019... i tanti volti, alcuni ancora sconosciuti, dell'attesa

E’ proprio vero che la Festa dei Ceri ha sempre qualcosa da lasciarti addosso. Da insegnarti. Ogni anno è come un nuovo tatuaggio. Meno invasivo dei florilegi che si vedono in giro. Ma più penetrante.

Questo 2019 ha dato un nuovo senso a quella che ormai da molti viene chiamata “attesa”: che è anche il momento più intenso della festa, destinata poi a evaporare in pochi istanti.
Ecco, non tutte le attese sono indimenticabili, qualcuna fa eccezione.
Me ne accorgo mentre scrivo con il solo dito indice della mano destra, come facevo in modo incerto una trentina di anni fa sulla Olivetti del prof. Chiocci nei miei primissimi contributi scritti per il notiziario di Radio Gubbio.

L’attesa ha tanti volti, e questo 2019 me ne ha fatti scoprire di nuovi. Di alcuni ne avrei fatto volentieri a meno. Come una carrellata di flash che tornano a mente e che per la prima volta ho finito anche per immortalare, ogni volta che un dettaglio, un’immagine, uno scorcio mi colpiva. La mano non è quella del fotografo, ovviamente. E oggi, più che mai, menomata com’è, fa difetto. Ma chi avrà la bontà di scorrere queste righe saprà tollerare…

Il senso geometrico dei Ceri disposti in perpendicolare con le lunghe tavolate della sala dell’Arengo: scendendo dalla saletta dei Campanari, era il 13 maggio, dopo aver accompagnato la troupè di RadioRai3 per la trasmissione “Le meraviglie”, sono stato stoppato da questo contrasto: era come se quelle lunghe lame dorate fossero raggi solari dai quali la sala veniva irradiata. Magari il buon Peppe Battistelli (meglio noto come “Peppe torcolo”), autentico regista dell’organizzazione e disposizione dei tavoli per l’enorme banchetto della Tavola bona, non lo avrà fatto apposta. Ma a me l’immagine ha ispirato questo calore. Pensando soprattutto alla temperatura in questa sala due giorni dopo…

Due momenti scandiscono la mia personale attesa il 14 maggio: irrinunciabili. Il pennone dei santantoniari nella piazzetta di S.Antonio, che quest’anno ho rischiato di perdere causa “lungaggini lavorative”. Fortunatamente non è successo e anche se ogni anno, alla fine, il tutto si riduce ad una semplice liturgia ripetitiva, bagnata da uno spumante finale, da santantoniaro non potrei farne a meno. E’ un chupinazo più intimo ma indispensabile.
Che qualche ora dopo lascia il posto ad un altro tassello dell’attesa a cui sono fedele da anni: l’allegra sfilata della banda dopo il “doppio” del Campanone, che da piazza Grande porta al Corso. Quel “fazzoletto puntato davanti” ha un ritmo speciale, un’intensità unica, un suono diverso, tutto suo; sicuramente dovuti al fatto che siano le 19.45 del 14 maggio: ma sarebbe un delitto perderselo, con tutto quel che dentro comincia a muoversi…

C’è anche spazio talvolta per frangenti più intimi. Legati ai ricordi. E a quei brividi che poi tornano, il 15 maggio, anche se in forma indiretta. E così quest’anno, quasi per caso, mi sono ritrovato in cima al corso verso le 6 di sera, il 14 maggio. Quel paesaggio lunare che il giorno dopo sarebbe stato affollato di colori e imprevedibilità, mi ha stregato per qualche istante: tanto da sedermi sul piccolo scalino sotto la statua di S.Ubaldo a osservare quella quiete. Con la nostalgia di chi non potrà più immergersi come un tempo nella tempesta del giorno dopo.

L’attesa serale, poi, è fatta di musica, sbimbocce, allegria e quel senso di impazienza leopardiano. Che fa del sabato il giorno migliore, e del piacere dell’attesa (che è esso stesso piacere) un gradevole slogan pubblicitario. I 3-4 brani della Fausto band nel cortile di casa (foto di Marco Signoretti) sono diventati un sipario immancabile e sempre gradito. Ci si mescola, volti conosciuti con qualche turista capitato per caso. O ci si rivede, dopo 6 anni, come con i due amici veneziani del mio vecchio compare di Barbi, Leo Nafissi, ad assaggiare un impensabile piatto di passatelli in brodo. Fuori stagione, se fosse maggio davvero.

Il mio 15 maggio ceraiolo è un’istantanea che ho voluto rubare alla concentrazione e alla tensione di quel momento, prima di affidare telefono e cianfrusaglie ad un amico accanto: chi sa di cero può capire, cosa passi intorno ad una immagine così, rubata al volo nel frangenti dell'attesa. Cosa ci sia in quelle mattonelle arancio, a quelle scarpe variopinte (che nascondono formicolii di nervosismo irrefrenabile), a quei pantaloni bianchi, con qualche frangia rossa che traspare. Non c’è bisogno di guardare in faccia chi indossa quella divisa, per capire cosa stia passandogli dentro in quel momento. Basta osservare la possanza di quella stanga poggiata sul selciato color aragosta. 
Che sembra quasi silenziosa, illuminata da un faro proveniente da chissà dove. Come se tutti stessimo lì, ad attendere l'apertura di un sipario. 
Sono rimasto avvinghiato a quella stanga parecchi minuti. Speravo andasse tutto per il meglio. Soprattutto l’alzata. Per Sant’Antonio e per Lucio capodieci. E quel contatto prolungato mentre si consumava il cerimoniale dell’investitura e quindi la discesa di ceri, santi e brocche, era come un abbraccio con un amico di sempre. Di quelli che ti danno coraggio ma ti imprimono anche fiducia. Ti trasmettono forza e incoscienza. Ti dimostrano che ogni anno si riparte da zero, conta poco quello che è stato nei 30 anni precedenti. Con quella stessa stanga. Il bello è anche questo: mettersi in gioco, ogni anno con un anno in più, senza sapere cosa ti attenderà di lì a poco.

L’alzata è stata perfetta ma di lì a poco la Festa dei Ceri mi avrebbe dato l’ennesima conferma di come tutto sia imprevedibile, incalcolabile e fatalmente nuovo. L’attesa doveva essere finita, ed invece ne è iniziata un’altra. Fastidiosa e insostenibile: con il volto di uno schermo della sala d’aspetto del pronto soccorso. Dove sono stato per un’ora prima di entrare, e un’altra ora prima di una radiografia.

Su quello schermo, quasi ironicamente, c’era scritto “In attesa”. Quell’unico numero uno, in codice verde, ero io.
Morale, sono tornato a Gubbio alle 16. Perdendomi in fondo quella che in realtà è la fase più appagante, intensa e direi sostanziale del 15 maggio: la mostra. Oggi posso dirlo con cognizione di causa: mi sono mancate le decine di tappe, molte le stesse, alcune nuove, dove sorrisi, abbracci, brindisi e un assaggio di quel che si passa al volo, scandiscono le ore successive all’alzata. Nello stomaco si mescola di tutto, dolce, salato, croccante, vini di ogni tipo e gradazione, bollicine dentro e bollori fuori. Ma soprattutto si assaggia il calore di chi ti attende per una girata, un ricordo, e qualche volta una lacrima. O semplicemente per il gusto di stare insieme. Ecco, senza tutto questo, è una Festa dei Ceri a metà. O forse anche meno. Ora lo posso dire.

Un unico momento, di questa menomazione, sono riuscito a salvare: l’omaggio in piazza Bosone, S.Lorenzo nella toponomastica ceraiola, dove oggi abita mio fratello e dove storicamente ha vissuto mio nonno Pompeo: la sua tromba, che ha scandito i ritmi di una trentina di Feste dei Ceri tra gli anni 20 e gli anni 50, oggi riecheggia negli squilli di mio cugino Ettore – trombettiere per un decennio a sua volta. E il cero di Sant’Antonio rende omaggio al nonno Pompeo con me e mio fratello di punta e mio padre a capodieci.
Tutto questo non avrei potuto perderlo, fossi anche con una gamba sola.

L’attesa oggi dovrebbe essere finita. Invece ha i contorni di una stecca in estensione che dovrò tenermi per 2 mesi: sperando che quel piccolo minuscolo tendine, che ha deciso di andarsene per conto suo - non so come, in che modo, se cadendo o aggrappandomi alla stanga, oppure per la foga di rientrare sotto e completare quella girata a cui tenevo morbosamente per tanti motivi – torni al suo posto.
La falange se ne farà una ragione. E io con lei.

domenica 12 maggio 2019

Puoi perdere una partita. Puoi perdere all'ultimo minuto un campionato - come accadde 19 anni fa a pochi chilometri da qui sotto un diluvio e in una partita durata 2 ore e mezza. Puoi perdere una finale di Champions - ed è accaduto anche spesso.
Ma non puoi perdere l'identità della tua maglia.
Nell'era della bulimia cromatica scatenatasi ormai da tempo sulle seconde divise calcistiche - all'appello manca solo di giocare a torso nudo con le bretelle - l'ultimo baluardo del senso di appartenenza che un tifoso poteva ancora vantare, era rappresentato dalla prima maglia della propria squadra.
Anche qui la fantasia e prima ancora l'esigenza di marketing, avevano intaccato da tempo crismi e coordinate cartesiane, in diverse squadre.
La Juventus, finora, si era quasi del tutto salvata. E' vero, l'alternanza tra bande larghe o strettissime, era ormai cervellotica. Specie per chi nostalgicamente ha ancora in testa e nel cuore la t-shirt stretta con la scritta Ariston, il quadrante nero alle spalle, di inizio anni 80. Ma tra tante soluzioni grafiche più o meno condivisibili, aveva mantenuto un principio basilare e inconfutabile: la maglia a strisce bianconere.
Ora con la divisa 2019-2020 è caduta anche l'ultima retrovia della dignità.
Conciarsi come un Siena qualsiasi, con una maglia che fa pensare più che ad un calciatore, ad uno sbandieratore di Sansepolcro - con tutto il rispetto per la loro storia - è inadeguato, inconcepibile e addirittura offensivo nei confronti della storia ultra120ennale di questa squadra.
Nessuna contropartita economica, nessuna opportunità commerciale, nessun business nel far East di tifosi che in modo sincopato ripetono canzoni e slogan di cui non sanno neppure il significato, può giustificare questa scelta.
Chi ha pensato a questa foggia, non solo non ha idea di cosa sia la Juventus, ma prima di tutto non ha idea di cosa sia lo spirito dei tifosi juventini. Almeno quelli veri.
Sono sempre stato contrario allo sciopero dei tifosi, per qualsiasi motivo - specie quando magari si protesta contro una società che stringe i cordoni della borsa e lascia meno spazio ai bagarini.
Stavolta capirei. Stavolta vien voglia di dire: Non tiferò questa squadra travestita da giocoliere di un corteo medioevale in costume, da pedone di Marostica, da fromboliere di una sagra di paese. Vincete quel che volete - con questa maglia spero davvero il meno possibile - ma fate passare alla svelta questo 2019-2020.
Sembrerà stupido, puerile e incomprensibile, ma con quella roba addosso non è più la mia squadra.
La Juve è solo a strisce bianconere...
Ad maiora...