Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

mercoledì 30 aprile 2014

Voglia di decadenza?

Cadere ci può stare. La Festa dei Ceri è una splendida metafora, da questo punto di vista, su come sia necessario rialzarsi e ripartire. Diverso quando oltre a cadere, si cominciare a "decadere".
Ecco, l'impressione - strana, ma non nuova - e' che la citta', o meglio una parte di essa, non necessariamente la maggioritaria ma certamente la più rumorosa e visibile, esprima un desiderio intestino quasi inconsapevole. Una voglia di "decadenza".
Non c'entra Baudelaire, men che meno Pirandello. Anche se un contesto di così intensa vocazione autolesionistica ne avrebbe forse ispirato pagine memorabili.


La decadenza e' un riflesso, neanche troppo nascosto, sebbene sottovalutato, di quella forsennata difesa dell'esistente, che insieme all'arroccamento anacronistico sul passato (non solo politico), sono figli (cresciuti male) di un conservatorismo immobilistico travestito da "patriottismo de noaltri" il cui unico risultato e' di emarginare ancor di piu' la citta' da qualsiasi contesto o interlocuzione esterna, di affermare una vanagloriosa autonomia e liberta' (da chi?), di vaneggiare un futuro di prosperità astratta, fatta di orgoglio fine a se stesso, di felice pauperismo o di effimere velleità. Sbandierando qualche luogo comune, sempre buono a catturare consenso nell'immediato: come la storia della "fiera opposizione ai poteri forti" e arti congeneri. Elaborata, a suo tempo, da chi aveva semplicemente programmato di farsi sostenere da uno a scapito dell'altro. E di dividere la citta' per capitalizzare le macerie di quel conflitto sociale.

Quel castello, oggi, e' crollato. Ma le macerie sono tutte li', nessuno le ha scansate.
E quei poteri, presunti forti, sono molto meno forti e molto piu' logorati dalla crisi non meno che da un decennio di contese economiche, e non solo, il cui risultato altro non e' che la nuda fotografia del presente.
Un presente destinato, senza un energico colpo di reni, al declino come l'era del vituperato cemento. Con una città che rischia di risvegliarsi, tra qualche mese, in uno stato di "cassa integrazione vegetativa".

Dunque? Gubbio si trova ad un bivio, sapendo che soprattutto in una fase come questa, le certezze sul futuro appartengono solo agli stolti.
Il bivio non è politico, non è economico, la voglia di decadenza rischia di pervadere ogni schieramento, ma è una scelta quasi esistenziale: affidare il proprio futuro a chi vuol bene alla citta', a chi - pur senza bacchetta magica - puo' darle idee ed entusiasmo per ripartire; e capire chi sia davvero costui o chi siano costoro, rispetto a chi invece afferma di volerglielo, inseguendo utopie, senza accorgersi di essere invischiato nel solco della decadenza.

All'elettore spetterà scegliere. Sperando di non doverlo fare assistendo stancamente ad un nuovo rodeo di divisioni e dispute, fini a se stesse. Redditizio, forse, per qualcuno, a breve termine. Ma fatalmente letale, per tutti, in futuro.
GMA


Da editoriale "Gubbio oggi" - maggio 2014

lunedì 28 aprile 2014

Il calcio con leggerezza ed ironia: il calcio di Vujadin Boskov...

Rigore è quando arbitro fischia”.
Chissà, tra qualche secolo gli appassionati, di quel che resta del calcio, non solo ricorderanno i tempi in cui milioni di persone di accanivano ancora intorno al destino di un pallone di cuoio. Ma anche qualche suo indimenticabile interprete.
E magari ricorderanno frasi come questa. Che ci raccontano non solo di un uomo diventato allenatore, ma che in questa veste ha rappresentato un'icona inconfondibile. Quella di un padre per i giocatori, di uno zio affettuoso per i tifosi, di un irresistibile fonte di aneddoti per un giornalista.

Vujadin Boskov se ne è andato a quasi 83 anni. In punta di piedi, perchè non era solito alzare la voce. E certamente con quel sorriso ironico e quella leggerezza con cui aveva interpretato lo schizofrenico mondo pallonaro. Una mosca bianca in una giungla fatta di arrivismo e risultati a tutti i costi, logiche che spesso anche lui ha finito per pagare. Ma certamente lo ha fatto ridendoci su. "Perchè l'allenatore è padre ma anche poliziotto".

Il tecnico di Novi Sad – che oggi viene pianto soprattutto a Genova, sponda Samp - è legato anche al calcio di casa nostra, per i 5 mesi trascorsi sulla panchina del Perugia nella stagione 1998-99, in piena era Gaucci. Dopo aver vinto lo scudetto alla guida dei blucerchiati guidati dalla coppia d'attacco Vialli - Mancini, dopo aver guidato anche Napoli e Roma, Boskov viene chiamato alla guida del grifo nel marzo del 99 al posto del dimissionario Castagner, dopo una delle tante liti con il vulcanico patron biancorosso. Boskov non riuscirà a invertire la rotta di una stagione anonima, ma si toglierà qualche bella soddisfazione, come battere l'Inter di Moratti – che appena qualche mese prima aveva liquidato Gigi Simoni, fresco vincitore sul Real Madrid – come lanciare qualche giovane promessa, come Cristian Bucchi e come quella di portare in salvo il Perugia, vincendo nella penultima di campionato a Udine.
Poi nell'ultima gara gli mancò il colpo memorabile, ai danni del Milan di Zaccheroni, che invece vinse al Curi, con un Abbiati strepitoso proprio nel finale su Bucchi, e si cucì addosso lo scudetto numero 16.
Fu un passaggio veloce, repentino, quello di Boskov in Umbria, ma che lasciò traccia, perchè ancora oggi quei giocatori, i Giovanni Tedesco, i Cristian Bucchi, gli Ze Maria, ne ricordano il carisma, la simpatia irresistibile, le gag, come le frasi indimenticabili.

 
Pallone entra quando Dio vuole” ripeteva dopo le azioni più sfortunate. Arrivò due volte in finale di Coppa Campioni, con Real Madrid e Sampdoria, ma perse in entrambe. Ora forse lassù qualcuno starà sorridendo. Certo che non solo le vittorie, o almeno non solo quelle, a rendere indimenticabili gli uomini.
A rendere memorabile uno come Vujaidin Boskov.

sabato 26 aprile 2014

Il senso di questo 25 aprile? Si chiama Carol Wojtyla...

Per anni è stata una bandiera da sventolare, una data "di parte".
C'è voluto del tempo perchè il 25 aprile diventasse davvero la Festa della Liberazione. E non solo la festa di alcuni a scapito di altri. Un po' come le ferite che ci mettono a cicatrizzarsi, anche questa ricorrenza ha avuto bisogno di qualche decennio di rodaggio, perchè non fosse solo a tinta rossa. Non appartenesse solo a quella parte del Paese che, pur nella legittima rivendicazione delle proprie idee - al netto di quanto la Storia ha poi decretato - non rappresentava tutto il Paese. E neanche tutti coloro che quella Liberazione avevano contribuito a costruirla e soprattutto a mantenerla nei decenni successivi.

Ma lasciamo stare la storia, almeno stavolta.
Sì perchè questo 25 aprile 2014 ha un nome e un cognome: Carol Wojtyla. Qualcuno dirà, ma chi? Giovanni Paolo II?
Sì, proprio lui. Che domani, in data 26 aprile, sarà proclamato Santo da Papa Francesco, insieme a Papa Roncalli, il Pontefice del Concilio Vaticano II.
Wojtyla però è anche un'icona di libertà. Lo è per il suo popolo, lo è per la Polonia, che non a caso vive questi giorni come una sorta di festa nazionale. Una delle aree più martoriate dell'Europa, costretta a subire gli "ismi" peggiori del XX secolo - dopo averne viste di tutti i colori anche in quelli precedenti - ed essere trasformata in "merce di scambio" proprio alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, dal famigerato patto Moltov-Von Ribbentrop (ebbene sì, nazisti e stalinisti scesero a patti, prima di darsele in guerra).

Con Lech Walesa, leader di Solidarnosc, il sindacato
che si oppose al regime comunista polacco
Cosa c'entra con tutto questo Papa Giovanni Paolo II? C'entra eccome. Perchè fu proprio lui, insediato alla fine degli anni Settanta, a ergersi non solo come Vescovo di Roma e capo della Chiesa cattolica. Ma anche come simbolo di libertà. Di una libertà che nessuno, in quegli anni, aveva il coraggio di invocare. Che sebbene con i distinguo sopraggiunti dopo Budapest e Praga, anche in Italia si faticava ancora a focalizzare. Mosca non era più il sole, ma i problemi di Varsavia e delle altre capitali dell'Est Europa apparivano lontani. E forse pure pretestuosi.
Wojtyla fu il primo a parlare di libertà. Una libertà inseguita e conquistata negli anni, attraverso le parole, l'esempio, le esortazioni.


13 maggio 1981, Papa Wojtyla è stato appena colpito
dal colpo di pistola di Ali Agcà
Attraverso la fermezza con cui affermava quei principi in cui credeva. Sapendo di doverci mettere non solo la "faccia" - tanto per dirla alla moda di oggi - ma se necessario anche la vita, che rischiò di perdere in un pomeriggio di maggio del 1981, proprio in piazza San Pietro. Saperlo proclamato santo, per la mia generazione, significa tanto: non solo perchè è un santo che abbiano visto, sentito parlare, conosciuto, con il quale siamo cresciuti. Ma perchè ha saputo dare speranza a chi non l'aveva. Dare forza a chi cercava un appiglio su cui reggersi: anche in quelle battaglie nascoste per la libertà.

Oggi quell'uomo è proclamato santo. In Polonia è venerato fin da quegli anni.
Perchè riuscì, senza sparare un colpo, ma con la forza della fede e l'illuminazione della sapienza, laddove guerre, milizie, eserciti in passato avevano fallito.
Per l'Europa - dilaniata dalla crisi e dal giogo dei patti di stabilità - oggi le libertà da cercare sono altre, apparentemente meno cruente ma non meno inquietanti per il futuro. Servirebbe un altro Wojtyla, anche senza la veste papale, per iniettare quella stessa energia che vedevamo scorrere nei milioni di persone che lo invocavano, in ogni piazza della terra.

La folla oceanica di Varsavia lo osanna
Non so se la Polonia oggi festeggi, magari in un'altra data, la propria liberazione dall'impero sovietico e dalla cortina di ferro: forse da quest'anno il suo 25 aprile diventerà il 26.
E tra qualche anno sui libri di storia leggeremo di questo Papa diventato santo: magari anche per la sua straordinaria capacità di unire i popoli, di sostenere gli ultimi, di parlare ai giovani, di richiamare l'irresistibile forza evocativa della fede. E perchè, capace anche di liberare la sua nazione. Senza aprire il fuoco. Se non quello delle anime...

mercoledì 23 aprile 2014

Dalla Fontana di Trevi da "tutto esaurito"... all'autista che "no speak english": Roma, e in fondo l'Italia, è anche questo


Se guardiamo questa foto, sembra quella di un pubblico da stadio. In attesa del concerto di una rock star o di una partita di calcio tipo finale Champions.
Il sole cocente, di un aprile da estate precoce, non riusciva a tenere lontana la calca di persone - per lo più straniere - attratte da quell'angolo così accattivante e magnetico. Giusto il tempo di un flash, o di un più pratico "selfie", giusto per immortalare la propria presenza accanto a quello spettacolo.
La foto ci propone uno spaccato di un lunedì di Pasquetta nel cuore della nostra Capitale. Per qualcuno non sarà nulla di nuovo, o nulla di eccezionale. Per me - forse un po' meno abituato a scene da "assalto alla diligenza" così oceaniche - l'instantanea qualche pensiero l'ha suscitato.

Anche perchè dall'altra parte, non c'era nè la rock star, nè la partita di Champions.
Ma c'era quello che appare nella seconda foto: la Fontana di Trevi.
In una Roma stracolma di forestieri, dove ogni pertugio del centro, tra piazza di Spagna e piazza del Popolo, tra San Pietro e i fori imperiali, tra Colosseo e Villa Borghese, era la folla, lo sciame, anzi lo tsunami di flussi turistici, a fare da filo conduttore, quasi senza soluzione di continuità.
Non ci sarebbe da sorprendersi più di tanto, considerando l'enorme giacimento di tesori artistici, culturali e architettonici del Belpaese, e in particolare della sua Capitale. Città eterna, secondo la tradizionale definizione. Sperando non lo sia anche per i suoi difetti.

Già, perchè se è vero che la Fontana di Trevi è tra gli esemplari più "cliccati" dei nostri giacimenti, il nostro petrolio, dice qualcuno con una definizione calzante, è altrettanto vero che girando in una qualsiasi giornata primaverile per Roma, ci si accorge come ancora le "raffinerie" non siano esattamente le migliori. Pér non parlare poi di taluni benzinai.
Un paio di esempi per capirci:

1) salgo sul pullman per raggiungere Piazza San Pietro - dopo aver constatato che per qualche oscuro motivo la metro è bloccata, e una folla da naufragio del Titanic, mi spinge fuori dai bassifondi della stazione Termini. Noto un paio di turisti anglosassoni che tentano inutilmente di conferire con l'autista del pullman: la loro richiesta è banale ("where is the center?"), domanda quasi comica trattandosi di Roma. Non abbastanza per il tizio, dalla faccia svogliata, con immancabile auricolare (che avrà ascoltato? I dieci comandamenti dell'Atac?) che braccia al volante, ha risposto secco: "I no speak english", senza neanche curarsi di aggiungerci un "sorry" educato e opportuno (vista la figura che inconsapevolmente ha fatto fare a se stesso, all'azienda per cui lavora e a tutto il suo Paese).
A Berlino, l'estate scorsa, tanto per fare un paragone, l'autista di un pullman ci aveva spiegato, in un inglese più che commestibile, come e dove andare, senza problemi...

2) salgo su uno dei pullman turistici scoperti, di quelli che ti fanno fare il giro di Roma in un'ora, anche qui con auricolare. Disorganizzazione totale, con un tizio cingalese che ha tentato di appiopparci un pacchetto convenienza per famiglia (ma valido solo per quattro e noi eravamo in 5), con un altro tizio che ci ha fatto scendere dal pullman dopo appena 2 fermate per cambiare mezzo, e con un'illustrazione turistica, via auricolare, approssimativa, spezzettata e in perfetto... dialetto romanesco.

Ecco, ho pensato. Sono orgoglioso di appartenere ad un Paese che ha gioielli come la Fontana di Trevi, presi d'assalto da migliaia di persone ogni giorno.
Mi vergogno, al tempo stesso, che il mio Paese butti nel cesso questi tesori, affidando la propria immagine a soggetti che non sanno minimamente cosa sia il marketing e la promozione turistica.

Mi auguro che il nostro premier - così attento al "prodotto Italia" e al petrolio di cui ancora oggi dispone (fonte inesauribile finchè non faremo deperire pure questo) - mandi qualcuno a dare un'occhiata a quanto succede nei luoghi di alto respiro della nostra Italia.
Pompei ha bisogno di restauri importanti. Ma è l'Italia tutta che necessita di un profondo restyling: soprattutto quando si parla di "raffinare" il greggio che fortunatamente ci ritroviamo. E di istruire gli incauti benzinai cui è affidato il delicato compito di non rovinarne la preziosa distribuzione...

Detto questo un'ultima riflessione spassionata: un lunedì di Pasquetta in una Roma primaverile e quasi estiva, non ha prezzo. Per tutto il resto... Aspettiamo fiduciosi...

mercoledì 16 aprile 2014

"S.Francesco in estasi": un Caravaggio come ennesima occasione persa?

Si chiama “San Francesco in estasi”, è il capolavoro di Caravaggio datato 1594 e conservato al museo Wadsworth Atheneum di Hartford (Connecticut).
Una tela preziosa sia per la suggestione estetica e il valore plastico dell'opera, che racchiude le caratteristiche d'eccellenza della pittura del Caravaggio, sia perchè si tratta del primo esempio di pittura sacra realizzata dal genio di Michelangelo Merisi.

L'opera è stata citata nella conferenza stampa del presidente della Fondazione Cassa Risparmio di Perugia, Carlo Colaiacovo, che ha rivelato di aver effettuato con l'istituto una richiesta formale alla Sumner Collection Fund, la fondazione statunitense che gestisce le opere del museo – una sorta di prenotazione necessaria per poter organizzare nei prossimi mesi in Umbria un'esposizione evento dedicata al celebre dipinto, che sarebbe in mostra per un periodo piuttosto ampio e potrebbe rappresentare un'occasione di grande richiamo e attrattiva turistica nella regione.

L'intenzione della Fondazione era di organizzare l'evento a Gubbio, magari proprio per inaugurare il nuovo spazio all'interno delle Logge dei Tiratoi, di proprietà della Fondazione. Progetto che al momento è invece destinato a restare in frigo, in attesa di sapere se tramonterà definitivamente: ieri il Commissario prefettizio ha di fatto ufficializzato che non procederà all'ultima firma richiesta nonostante le autorizzazioni di Soprintendenza e Ministero, a seguito delle rimostranze di alcuni eugubini e nonostante il sostegno espresso dalla Diocesi, dalle associazioni di categoria, dai sindacati e dalle istituzioni ceraiole. 
Se le Logge resteranno dunque un progetto fermo e ingessato – almeno fino all'insediamento della prossima amministrazione - il destino dell'evento Caravaggio potrebbe trovare sbocco proprio ad Assisi dove l'amministrazione si è già fatta avanti per ospitare l'esposizione che ha tutte le credenziali per ripetere il successo dell'evento della Madonna di Foligno del dicembre scorso.

Un epilogo che rappresenterebbe, insieme ai 2,7 milioni di euro stanziati per l'intervento e probabilmente dirottati su altro immobile della Fondazione a Perugia – l'ennesima occasione persa per la città di Gubbio, in una fase di crisi economica e difficoltà occupazionale senza precedenti. Il tutto sulla scia del “no” di poche decine di persone supportate da associazioni (come Terra Mater) sulla cui formale operatività non si era più avuta notizia da almeno un decennio.  


Negli stessi giorni in cui, ad esempio, la chiesa di S.Croce della Foce – splendido esempio del Barocco a Gubbio - mostra a pieno le proprie ferite, testimoniate dalle immagini del tg di TRG, nel silenzio di quelle stesse associazioni che si proclamano a tutela dei beni culturali cittadini.
Morale. Tra un mese e mezzo ci sarà una nuova amministrazione comunale che potrebbe recuperare il progetto o quanto fare in modo che non si perda in un cestino.
In caso contrario, a gioire di tutto questo sarebbero gli assisani, che già hanno messo il mirino sull'evento Caravaggio; i perugini, che vedrebbero investiti i 2,7 milioni su Palazzo Baldeschi; e forse a Gubbio, i volatili delle Logge.

martedì 15 aprile 2014

Il gol di Mazzeo... come quello di Daud. Che sia premonitore?

La corsa di Mazzeo sotto la Nord - foto Umbria24
Ci sono partite che cambiano una stagione. Che danno il senso della svolta, della certezza che il vento è cambiato. Ci sono vittorie che seppur non definitive si rivelano poi la spinta determinante per spostare l'ago della bilancia.
Il gol di Mazzeo, al 17' di un Perugia-Pontedera che a guardare gli spalti pareva Perugia-Reggina o Perugia-Livorno, rischia di rivelarsi, a posteriori quella goccia destinata a fare la differenza, nella corsa alla serie B.
Perchè è vero che mancano 180' – con il Lecce che ne ha solo 90' a disposizione – e che c'è uno scontro diretto negli ultimi 90' da far rabbrividire.
Ma è pure vero che il Perugia torna in testa alla classifica da solo dopo mesi, e pur senza far calcoli, si pone in una condizione per cui il destino non dipende più dagli altri.
Chissà come andrà a finire, e chissà nella memoria collettiva quale posto saprà ritagliarsi il guizzo di Conti, il suo assist e la giocata vincente di un Mazzeo che nelle ultime settimane ha vestito i panni del Fabinho bianco, dimostrando come nelle fasi cruciali di ogni campionato alla fine è l'esperienza, sono le ore di volo, a dare quel quid in più. Anche per cambiare una stagione.


Daud scarica il destro vincente contro il Lumezzane
Un po' come accadde 3 anni fa in un altro confronto, rimasto fuori dall'album della storia del calcio umbro, ma che per quella storia si è rivelato decisivo: è il 25 aprile ma al Barbetti le celebrazioni arrivano solo al fischio finale di Gubbio-Lumezzane. Finisce 1-0, un successo che sa di liberazione, perchè arrivato al termine di 90' da brivido, sudati come non mai, contro un avversario apparentemente senza pressioni di classifica ma proprio per questo insidioso e minaccioso fino al cardiopalma. Ci vuole l'aiuto di due legni e la prontezza di un Lamanna formato super per neutralizzare le punizioni bomba di Emerson, oggi centrale difensivo livornese, e le
Alla fine la differenza la fa un guizzo, è Juanito Gomez che raccoglie palla quasi dalla linea laterale, si porta a spasso mezza difesa lombarda e scarica sull'accorrente Daud che infila la porta avversaria: una rete che, a 15' dalla fine, significa tanto, quasi tutto, anche se non certifica la serie B. La pesantezza di quel gol si vedrà nelle due settimane successive, quando il Gubbio arriverà a giocarsi ancora in casa il match point per la B. Proprio contro la Paganese. E quell'8 maggio 2011 è e rimarrà nella storia del calcio rossoblù e di quello umbro.

Di analogie non mancano con la prodezza di Mazzeo. E sono sempre 180' i minuti che restano dalla fine del torneo. La speranza per i tifosi perugini è che altri gol soppiantino nella pellicola della memoria quello di Mazzeo: vorrebbe dire che sono stati più importanti. Vorrebbe dire che la prodezza contro il Pontedera è stata decisiva.
Proprio come la stoccata di Daud...
 
 
Da "Il Rosso e il Blu" nella trasmissione "Fuorigioco" di lunedì 14.4.14

lunedì 7 aprile 2014

Gubbio-L'Aquila... Il meglio ancor prima del fischio d'inizio

Quando il gesto esemplare arriva dalle curve. E la follia di cui vergognarsi si consuma in campo.
Gubbio-L'Aquila e' stata anche questo.
Una partita di calcio che non poteva restare come le altre. Nel giorno del quinto anniversario del drammatico sisma del 2009, costato la vita a 309 persone, e di cui il capoluogo abruzzese porta ancora oggi profonde ferite. Non poteva restare indifferente Gubbio e gli eugubini: che da agosto devono fare i conti con uno sciame sismico carico di enigmi e tensioni. Che il terremoto conoscono bene perché ciclicamente viene a bussare in queste lande, figlio di una faglia Appenninica costantemente turbolenta.
Per di più quest'anno e' il 30mo anniversario dell'ultimo grande sisma con epicentro a Gubbio: 29 aprile 1984, una domenica mattina poco dopo le 7. Tanti danni, molte macerie, per fortuna nessuna vittima.

Insomma non poteva passare inosservata una partita così, in una data così. E allora il meglio della domenica per una volta e' arrivato prima del fischio d'inizio e fuori dal rettangolo verde.
Con l'applauso corale dello stadio, con la curva ospiti che esponeva il suo primo struggente striscione: “9 aprile 2009: L’anima è ferita e il cuore infranto”. E con le squadre a regalare le magliette appositamente stampate per la ricorrenza e indossate all'ingresso in campo dai 22. Fischio d'inizio e dalla curva eugubina spunta uno striscione di solidarieta' vera e di comprensione profonda: "Il sisma non si può prevedere ma la vergogna è non ricostruire". L'applauso e' di nuovo generale, con molti tifosi che si alzano in piedi.
E dalla curva aquilana un nuovo sussulto: "L'Aquila risorgerà con la sua gente accanto”. Da li' si quieta la commemorazione e inizia la festa, con un tifo scatenato e colorito che accompagna la squadra di Pagliari fino al 90', fino alla sua nona vittoria esterna stagionale, preludio di playoff nei quali questa squadra potrebbe essere la grande sorpresa.

E il campo? Quello per una volta passa in secondo piano: con una sola protagonista, L'Aquila, e con il Gubbio, a fare da sparring partner, quasi avesse deciso prioritariamente di lasciare la scena agli ospiti. Purtroppo sappiamo che non è così, purtroppo la follia agonistica di qualche giocatore ha compromesso la partita quando ancora non era finito il primo tempo e la gara era in parte recuperabile.

Con lo 0-4 finale invece scorrono i titoli di coda per il campionato del Gubbio, che ormai non ha più nulla da dire né da chiedere. Titoli deludenti, altalenanti, contraddittori, in cui purtroppo l'unica costante è il cartellino rosso: ben 19 in 27 partite, con 4 incontri terminati in 9 uomini.

Serve tirare una linea, resettare, e ripartire da quel che buono può esserci, con tre punti cardinali: l'accordo con il Parma, per i suoi risvolti economici, l'accordo con le scuole calcio locali per un settore giovanile di grande respiro, e un profilo basso, al limite del silenzio totale, da parte della società nelle dichiarazioni di inizio stagione.
Il risultato che ci auspichiamo? Più che quello che campo, che pure conta, quello sugli spalti: quello offerto ad esempio, dal pubblico dell'Aquila...

 

giovedì 3 aprile 2014

Investire nella cultura: purchè non sia solo uno slogan...

Investire sulla cultura. Il refrain, già piuttosto inflazionato, diventa quasi ossessivo in queste settimane di campagna elettorale che nei vari comuni umbri interessati, batte forte il tasto della valorizzazione del fattore C: ovvero Cultura.
Quella materia prima che secondo qualche ministro non dava da mangiare, ma che in tempi di crisi e riconversione metodica dei sistemi economici anche nostrani, torna ad essere un ingrediente essenziale per il rilancio.

Ed ecco che l'opportunità della candidatura di Perugia 2019 e dei luoghi di Francesco, rappresenta una tappa fondamentale: con Lecce, Cagliari, Matera, Siena e Ravenna, la nostra regione si gioca la possibilità di un riconoscimento non solo formale, ma di sostanza e di immagine irripetibili. Intanto per smacchiare quei luoghi comuni che nell'ultimo decennio hanno dipinto il capoluogo umbro e in generale la nostra regione come una novella Sodoma e Gomorra del traffico stupefacenti, del disagio sociale, dell'invivibilità. I problemi di Perugia sono comuni a tante altre città italiane, dove forse lo zoom di telecamere e l'occhiello di qualche testata giornalistica ha invece indugiato di meno in mancanza delle Amanda Knox e dei Sollecito di turno.

Ma il rilancio culturale della nostra regione – che è anche rilancio sociale ed economico dei nostri centri storici – passa attraverso la valorizzazione dei patrimoni culturali dell'Umbria: tra questi l'Università degli Studi di Perugia, un ateneo che ha pagato più di altri soggetti la decadenza di immagine del capoluogo ma che ora lancia la sfida di un riscatto in termini numerici ma soprattutto di qualità dell'offerta formativa. Che passa attraverso il dialogo tra le tante realtà culturali di Perugia e dell'Umbria: due atenei, un'Accademia Belle Arti, un Conservatorio, musei di arte contemporanea, musei di storia, dell'emigrazione e perfino una scuola di giornalismo radiotelevisivo. Quanto basta per dire che in Umbria fare cultura non è un semplice slogan. Ma bisogna crederci di più. Proprio perchè non sembri e non resti come tale...
 
 
Da "scheda" di "Link" - puntata del 3.4.14