Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

venerdì 31 agosto 2012

Il potere del tasto OFF. E la fortuna di poterlo premere nel paradiso delle Dolomiti...

Il potere del tasto off. La fortuna di premerlo in un paradiso naturale come le Dolomiti.
Sono bastati 4 giorni, non uno in più, per assaporare l'atmosfera di un'esperienza che, nonostante le 41 primavere, era del tutto nuova: una vacanza estiva in montagna.
"Prima o poi bisogna provarle tutte", si dice in gergo. Ma qui parliamo di un altro mondo. Non si tratta di assaggiare sushi o salire sulle montagne russe. O magari - tempo qualche giorno - arrampicarsi sul bungee jumping in piazza 40 Martiri, per la "Notte bianca dello sport" (cosa che, rassicuro i miei gufi, non ho intenzione di provare...).
Il tasto off è una scelta. Consapevole, difficile, ma straordinariamente liberatoria. Off significa chiudere. Nel mio caso, spegnere telefonino, pc, tv, e perfino quotidiani. Alla vigilia di un impatto del tutto nuovo - e spero non troppo devastante - come potrebbe rivelarsi l'I-Pad. Chiudere i ponti con quel mondo - la comunicazione - di cui ormai è difficile fare a meno. Ma da cui è salutare riuscire ad estranearsi per pochi (ma essenziali) giorni all'anno.
Al tempo stesso premere il tasto off significa aprire una porta ed entrare in una dimensione diversa.
Per quattro giorni, ma che in realtà sono parsi almeno qualche settimana. Rilassante, appagante, intensa.
Non è stato semplice - avendo comunque pressioni e dovendo respingere la tentazione di informarsi, telefonare, approfondire. Le beghe, si sa, non vanno mai in vacanza. E a loro poco importa che tu ti stia godendo uno scorcio della Valle Fiscalina piuttosto che una piazzetta di un borgo tipicamente tirolese come Lienz. Quelle arrivano, irrompono sulla scena, si prendono il palcoscenico e ti rovinano anche la giornata.

Stavolta no. Non ci sono riuscite. No perchè a darmi una mano è stato anche il panorama che mi circondava. Non mi ero creato aspettative da questa piccola incursione in Val Pusteria: curiosità sì, quella tanta. Ma non avevo posto obiettivi, nè limiti, nel termometro emozionale di questo weekend lungo. Potevo esaltarmi come sbadigliare. O tutte e due.
Ed è stato ancor più piacevole scoprire, giorno dopo giorno, angoli e pertugi naturali impensabili, in una porzione di Trentino al confine con il Veneto forse meno turistica e commerciale di altre, ma probabilmente anche per questo, più autentica e ammaliante.

Ci sono suoni, istantanee e profumi che mi porto dentro e che ho cercato di cristallizzare fermandomi per qualche istante a decifrarli. Lo scorrere delle acque del fiume Drava, che affianca per tutto il suo percorso i 45 km della pista ciclabile da San Candido a Lienz, in terra d'Austria, è un gradevole sottofondo che invita a rilassarsi. Lui finirà nel Danubio (e col fratello maggiore, nel Mar Nero). Tu sei in bici, farai meno strada ma ti troverai ad attraversare placido e ammirato una valle fiabesca, con colline verdi costellate di casette in legno, ognuna con il suo balcone, il suo carosello floreale, qualcuna arrampicata su dei cigli che ti chiedi come possa raggiungersi con un automezzo che non sia un carroccio. Ti fermi, e ascolti: quell'acqua, la cui temperatura non supera i 5 gradi, sembra parlarti. Anzi, sussurrarti. Un po' come le sirene con Ulisse, ma è inutile mettersi tappi alle orecchie, finisci comunque per esserne stregato. Tanto che i 45 km volano via che è un piacere. E ti chiedi se tutto quello che ti circonda, quelle cime, quel cielo di un azzurro compatto e ruvido, quell'aria fresca e al tempo stesso avvolgente, quel verde mescolato a pagliuzze di rosa, fucsia e giallo che dipingono i balconi, sia il risultato di una scenografia sapientemente costruita (da un professionista senza pari...). O sia tutto semplicemente naturale. Perchè non vedi un fronzolo, non un difetto, non una smagliatura. Ma neanche un artifizio. Vedi la natura, e la capacità di esaltarne i pregi. Accarezzi la staccionata che guida la pista ed è levigata, come se un artigiano si fosse divertito a forgiarla per l'intero percorso. Apprezzi la pulizia dei luoghi, la compostezza e la sobrietà delle persone. L'indistinta cura di ciò che è pubblico da ciò che è privato. Semplicemente perchè non fa differenza avere conto dell'uno o dell'altro.

L'unico segnale di un mondo che non è rimasto ancorato al clichè Dolomitico è l'impianto produttivo - con annesso museo - della Loacker, che a metà strada accoglie i viandanti col più dolce degli inviti e con una tentazione irresistibile che finisce per contagiare tutti: una sosta per gustarsi un wafer, ma conoscere da vicino anche la storia di un'azienda che ha fatto della tradizione (e dell'intuizione del suo mentore) un brand inconfondibile. Per piccini e non solo.
L'emozione è anche ammirare l'originario forno per cialde utilizzato da Loacker, con tanto di marchio primordiale, risalente ai primi del '900 e una frase che campeggia all'ingresso del piccolo museo: "Non pensiate che sia stato tutto facile. Anche per noi l'ascesa è costata sacrifici e difficoltà, ma come alla ricerca di una vetta, il cammino e la costanza ci hanno portato lontano". Un pensiero eccezionalmente attuale.

Il forno originario di Rainer Loacker
Il fascino di queste lande, lo si sarà capito, è anche e soprattutto nei dettagli. Perchè la montagna sa contagiarti: vivendola, però, capisci che è solo l'aspetto più esteriore e appariscente di una galassia diversa e distante. Che impieghi poche ore a sentire tua.
I sapori, ad esempio: forti e aggressivi come può esserlo l'aroma di un speck, delicati e abbondanti come un piatto di canederli (alle rape rosse, su un letto di fonduta al formaggio... da gourmet).
La laboriosità e anche l'inventiva che da queste parti non fa difetto: perchè non basta un bel panorama per fare turismo. Non basta un po' di neve d'inverno e un bel prato d'estate per far lavorare tutti.
E allora rimani colpito non solo dall'organizzazione (svizzera più che austriaca) della logistica legata alle piste ciclabili (non solo San Candido-Lienz, con rientro in treno, ma anche Dobbiaco-Cortina D'Ampezzo).

Contro sole, ma in totale relax, lungo le rocce
del torrente in Val Fiscalina...
Ma ti lasci trascinare, con l'innocenza di un bambino ma anche la razionalità di chi cerca di catturare idee originali, anche dagli impianti di fun bob (una pista a rotaia che dall'altopiano di Baranci a bordo di un bob fa scendere migliaia di persone ogni giorno a velocità sostenuta fino all'abitato di San Candido) o dal Parco Natura Avventura di Dobbiaco, dove è possibile arrampicarsi su percorsi di corde e passerelle di legni, imparando ad usare imbracature, carrucole e bocchettoni e vivendo l'esperienza degli scalatori, in formato ridotto (ma non meno emozionante).
Esperienze divertenti, ma anche un corollario intelligente di offerta turistica: che non richiede sforzi sovrumani (qualche risorsa economica, sì) ma idee e capacità propositiva.

Perchè il tasto off è una grande conquista. Purchè si sappia riattivare anche il tasto on, quando la vacanza è finita...

venerdì 24 agosto 2012

Questione di Giustizia. Sportiva e non... purchè non sia ad orologeria...

Stasera parliamo di giustizia. Oddio, la frase si addice all'incipit di un sermone alla Martin Luther King.
E non ne ho proprio le basi... nè l'autorevolezza.
Più che un'orazione, qualche pensiero al volo. Senza grosse pretese. Ma con parecchi punti interrogativi (chissà se qualcuno dei miei 25 lettori saprà dirimerne qualcuno...).
Strano mondo, quello della Giustizia. Stranissimo quello della Giustizia sportiva.

Cominciamo dalla prima. Leggo poc'anzi, da un'agenzia una dichiarazione di Ada Spadoni Urbani - parlamentare spoletino di cui per altro si era sentito poco parlare negli ultimi anni (anzi, ricordo solo il face to face con la Modena andato in scena proprio a Gubbio): il Tribunale di Spoleto è "salvo", proclama la bionda senatrice di Scheggino. Nel senso che il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto taglia-tribunali - quello che per capirci ha decespugliato tutte le sedi distaccate del nostro Paese (e in Umbria significa anche Gubbio, Assisi, Todi, Città di Castello) - ma con qualche immancabile eccezione.

Una di queste è proprio la sede della Città del Festival dei Due Mondi, che evidentemente grazie ai buoni uffici dei propri rappresentanti a Montecitorio, ha propiziato il lancio della ciambella (di salvataggio) per il proprio Tribunale. Con Perugia e Terni, dunque, ci sarà anche Spoleto, mentre il resto dell'Umbria dovrà "viaggiare" e consumare chilometri per arrivare davanti ad un giudice. Senza contare i mesi e gli anni che poi dovranno passare prima di avere uno straccio di sentenza. Figli e figliastri? A Spoleto non la penseranno di sicuro così. E in fondo neanche noi, Umbri del Nord, Umbri dalle origini, ci sentiamo di biasimare questo risultato. Ma magari c'è spazio per farsi qualche domanda sul peso specifico dei rappresentanti, a Roma come a Perugia, che le altre lande umbre possono vantare ma non altrettanto applaudire, e non solo in questo caso.

Capitolo Giustizia sportiva. Mi sono bastati 5' ieri sera ad un torneo di pallavolo cittadino - il mitico "Flushing Meadows" S.Agostino - per capire che aria tirava dopo la conferenza stampa pirotecnica di Antonio Conte.

L'ho sentita solo in tarda serata, poi, su Sportitalia, dopo essermi imbattuto nell'unica intervista fatta a Salvatore Mastronunzio - ex Siena, Spezia ma anche ex mai rimpianto del Gubbio - che il buon Michele Criscitiello ha sollecitato per capire quanto ci fosse di concreto alla base della condanna inflitta all'allenatore della Juventus (Mastronunzio sarebbe stato, secondo l'accusa, accantonato dal tecnico, proprio per le vicende delle presunte e mai dimostrate combine in maglia Siena).
Oltre a smentire qualsiasi possibile collegamento tra le esclusioni di Mastronunzio decise da Conte e i risultati poi maturati sul campo, l'ex mai rimpianto attaccante rossoblù (cui toccherà scontare 4 anni per un'accusa da cui non si è neppure potuto difendere) ha pronunciato una frase semplice quanto immortale: "Per condannare una persona ci vogliono le prove". E questo, in teoria, dovrebbe valere in ogni campo.
Alla Giustizia Sportiva evidentemente basta molto meno.

Mastronunzio in Gubbio-Samp del gennaio scorso
Sia per mettere in galera una persona (ad es: Stefano Mauri, finito in gattabuia a giugno, e ieri sera regolarmente in campo in Europa League con la maglia della Lazio) sia per macchiarla indelebilmente nell'immagine e nella carriera.
Antonio Conte - i cui epiteti e la cui rabbia è esplosa con toni senza precedenti nella conferenza stampa di ieri - non ha fatto granchè per accattivarsi le simpatie dei suoi critici. Anche se, con l'orazione accorata e ben poco british che lo ha visto protagonista, ha praticamente sottoscritto un vitalizio con il tifo bianconero (caso mai non l'avesse già fatto).
A mio modesto avviso, rischia di somigliare maledettamente ad un novello Paolo Rossi, condannato per due anni quando eravamo agli albori degli Ottanta, per essere poi "scagionato" nel 1985, quando aveva già scontato la pena, si era redento sia fuori che soprattutto dentro il campo (avendo regalato 3 anni prima dello scagionamento, il Mondiale agli Azzurri, più 2 scudetti alla Juve, una Coppa delle Coppe e una Coppa Campioni). Quei due anni di stop però - sebbene cancellati dagli allori successivi - non gliel'ha restituiti nessuno.

Il problema è che sono passati 30 anni dal caso Pablito senza che nessuno abbia avuto la malsana intuizione di pensare ad una riforma della Giustizia sportiva.
Che viaggia a velocità schizofreniche, passando da sentenza a scoppio immediato (la Juventus in serie B nel giro di due settimane, salvo poi scoprire tabulati telefonici a reato prescritto che avrebbero inguaiato altre squadra in maglia nerazzurra), ad altre a passo di lumaca. Dove forse anche la lumaca riesce a tagliare il traguardo per prima. "Non bisogna essere tifosi" sentenzia il presidente della Figc Abete. Noi invece continuiamo ad esserlo: perchè non c'è nulla di male ad essere di parte, quando si tratta di sport, o di principi a cui si crede. E soprattutto continuiamo a tifare per una Giustizia che faccia semplicemente il suo dovere. E nei tempi opportuni.

A proposito di lungaggini: oggi si viene a sapere che il ciclista americano Lance Armstrong rischia di vedersi polverizzati tutti i trionfi per doping. Sette Tour de France, qualche altro record, datati fine anni '90 fino al 2005. Non intende difendersi da un'accusa che latente o no, lo perseguita da allora senza che però nessun organismo preposto sia mai intervenuto.
A distanza di quasi 10 anni arriva questa disposizione tardiva e poco comprensibile: l'Uvada, organismo controllo antidoping a stelle e strisce, gli azzera i trionfi e lo squalifica a vita.

Ecco, l'ultimo interrogativo di questa oziosa riflessione, è forse il più banale: ma dov'era l'Uvada fino a sette anni fa quando ancora Armstrong saliva sul gradino più alto del podio ai Campi Elisi? Dov'era l'Uci, unione ciclistica internazionale, quando si trattava di controllare che le massime competizioni mondiali sulle due ruote fossero regolari? Ricordo che un Marco Pantani fu prelevato nel cuore delle Alpi per essere portato in caserma (e la sua storia meriterebbe capitoli a parte per come fu maltrattato da chi lo idolatrava fino a qualche minuto prima...).
Per me Armstrong resta un'icona sportiva. Se non altro per come ha vinto la sua vera battaglia (contro il cancro) dimostrando di poter tornare a vivere - che è molto più di saper tornare a vincere. E mettendo in campo una forza di volontà che nessuna sostanza chimica, nessuno sciamano della ricerca scientifica ti può iniettare.
Se poi l'americano dei record ha barato, esistono sanzioni, ammende e squalifiche - anche se l'ombra più pesante resta questo gap temporale. Nessuno però potrà mai risarcire i suoi avversari - sconfitti ingiustamente (ma sarà davvero così?) e soprattutto i tifosi, credo ormai pochi, che ancora credono, si appassionano e spasimano per questo straordinario sport senza età...

Ecco. Quello che continua a spaventarmi, nello sport come nella vita di tutti i giorni, è questo tipo di Giustizia: quella ad orologeria.
Che non si sa quando arriva. Ma quando lo fa, probabilmente, non arriva mai a caso...

mercoledì 22 agosto 2012

L'addio dei frati a S.Ubaldo: anche padre Igino, a suo modo, si "ribella"... in una lettera agli Eugubini

Nel giorno in cui viene presentata a Rimini una nuova guida turistica sui Sentieri Francescani (ufficialmente "La via di Francesco") con un doppio itinerario da Greccio ad Assisi e da La Verna ad Assisi - lasciando accuratamente nell'ombra il nome e il ruolo storico, oltre al valore mistico, di Gubbio, nel giorno in cui viene annunciata la nuova iniziativa del percorso francescano che in 3 giorni vedrà ai primi di settembre le massime autorità religiose locali ritrovarsi e percorrere quelle che furono le orme del Poverello; ebbene, in questo giorno, le righe che più mi colpiscono e che più di altre, magari scritte meglio ma certamente meno "vissute", sono quelle di padre Igino Gagliardoni, già Rettore della Basilica di S.Ubaldo per 13 anni, a cavallo tra il 1989 e il 2002.
Per la prima volta scrive e commenta la notizia dell'addio dei Francescani dalla Basilica. Una dipartita, formalmente fissata a gennaio ma già da ora vissuta dalla comunità come atto consumato, che continua a lasciare perplessi. Motivata come conseguenza della carenza di vocazioni - motivazione debole se si pensa l'importanza che un centro come Gubbio riveste nella parabola e nella vocazione di Francesco - la futura assenza dei Francescani da S.Ubaldo non è stata ancora risolta con un subingresso che garantisca la continuità nella gestione della Basilica, del convento e delle tante attività ad esso legate.
E che grazie anche allo spirito d'iniziativa di un frate come padre Igino, hanno trovato risveglio e dinamicità proprio a cavallo del quindicennio che lo ha visto indiscusso "protagonista" in cima al Colle Eletto.
La presentazione della nuova guida "La via di Francesco"
a Rimini, al Meeting di CL
Senza indugiare oltre, preferisco stavolta lasciare alle parole, sentite e spontanee, del frate - oggi operante nella comunità della Porziuncola di S.Maria degli Angeli - ogni commento.
Il suo è un grido accorato e addolorato, ma è tanto più rilevante perchè proviene da un frate che appartiene proprio all'Ordine che ha deciso di abbandonare la Basilica di S.Ubaldo.
L'ennesima conferma, purtroppo, di come Gubbio non faccia parte - se non in misura irrilevante - della geografia "devozionale" legata a San Francesco. Anche questo dovrebbe essere un motivo di riflessione forte di istituzioni religiose e civili.

"Cari EUGUBINI,

Vi scrive il Francescano, Igino Gagliardoni, che per ben tredici anni è vissuto tra voi, 1989-2002 con la responsabilità di Rettore del Santuario-Basilica di S. Ubaldo.
Sono a conoscenza del vostro stupore e della vostra sofferenza alla notizia che noi, Francescani dell’Umbria, abbandoneremo quel luogo del Santuario-Basilica di S. Ubaldo nel giorno festoso dell’Epifania… ma sarà invece per voi e per tanti di noi francescani un giorno di tristezza soprattutto per me.

Ho nella memoria e nel cuore le tante attività svolte in quegli anni per il culto e il decoro di questo singolare Santuario. Circa 700 erano ogni anno i pellegrinaggi, le gite turistiche, le scuole. Ad ogni gruppo offrivo informazioni sulla vita di S. Ubaldo, che il Signore ci conserva integro nel suo corpo, e per ogni gruppo momenti di preghiera: Ricordo l’impegno profuso per il restauro delle “8 grandi tele” che ornano le pareti della Basilica; il restauro della “5 grandi VETRATE dell’ Abside…con illuminazione esterna perché la Basilica fosse godibile anche di notte.

Ricordo in particolare la pubblicazione, 3-4 volte all’anno, del Periodico “SANTUARIO di S. UBALDO, che ogni volta, con 12mila copie, raggiungeva anche le più lontane terre; AUSTRALIA, GIAPPONE, CANADA, ARGENTINA… Tutti i numeri del Periodico sono raccolti in “6 grandi Volumi” che conservo nella mia camera e continuamente li consulto.
Una serie di questi volumi sono stati consegnati all’ora dal Vescovo di Gubbio, Mons. Pietro Bottaccioli… una serie presso la Biblioteca comunale Sperelliana di Gubbio.. presso i Frati Confratelli Conventuali di Gubbio ecc…
Mi permetto ancora, sempre per “ l’ amore della storia” di avere riportato il luogo più sacro del Santuario di S. Ubaldo, che era utilizzato come cantina, a luogo di preghiera, dove continuamente i gruppi di preghiera svolgono le loro attività. Questo luogo, il più sacro del Santuario perché per secoli ha custodito il Corpo del Santo.
Negli anni vissuti a S. Ubaldo, ho parlato anche di S. Francesco, perché i due Santi ai loro tempi e con stile personale, sono stati veri riformatori della Chiesa. Su tale argomento devo essere grato a due amici eugubini Professori, marito e moglie: Maria Vittoria Ambrogi e Giambaldo Belardi, con i quali ho pubblicato, nel novembre 1994, presso la Tipolotigrafia Porziuncola, un libro dal titolo: “UBALDO e FRANCESCO, Santi Riformatori, Santi della pace.”

Termino unendomi a voi nella sofferenza, per l’abbandono di Gubbio e di S. Ubaldo, pregando anzi CON VOI, CHE I Responsabili del Francescani dell’Umbria, abbiano un doveroso e quanto mai augurabile ripensamento per la nostra permanenza a S. Ubaldo.
Da Gubbio l’ideale della pace con l’ammansimento del “famoso lupo”. Ricordo un incontro a S. Ubaldo con un gruppo di Insegnanti giapponesi, che mi assicurarono che anche loro raccontano agli alunni il fatto del “lupo di Gubbio”.
Eugubini… vi porto tutti nel cuore! E che S. Ubaldo entri nella MENTE E NEL CUORE DEI RESPONSABILI dei Frati dell’Umbria perché rivedano la triste decisione.

“Pace e bene” a tutti".

P. Igino Gagliardoni



lunedì 20 agosto 2012

"Accanto alla tigre": una fertile conversazione con Pavolini e Raniero Regni... e una riflessione sul passato che ancora c'è...

"La tigre da cavalcare è la storia. Quella storia che nel primo Novecento è stata scritta da una generazione di rivoluzionari, intellettuali, uomini d'azione. Che hanno deciso di sacrificare la propria vita e quella di tanti altri per la Storia. Oggi tutto questo può non avere senso, ma allora fu così. E uno storico come De Felice ha definito - nel dissenso quasi generale - il fascismo come una "rivoluzione"".
E' uno dei passaggi salienti, firmati Raniero Regni, della chiacchierata storico-intellettuale piacevolissima andata in scena ieri sera per "Gubbio no Borders", ospite Lorenzo Pavolini, giornalista e scrittore, nipote diretto di quell'Alessandro Pavolini che fu braccio destro del Duce, ministro della Cultura Popolare, fedelissimo di Mussolini fino all'ultim'ora, tanto da finire fucilato a Dongo e il cui cadavere andò penzolante insieme agli altri in piazzale Loreto. "Acccanto alla tigre" è il titolo del suo libro, dedicato solo indirettamente alla figura di questo nonno "ingombrante", un personaggio di cui l'autore è in realtà venuto a conoscenza solo in età adolescenziale. "Fino ai 12-13 anni, a casa, mi dicevano che il nonno era morto in guerra, cosa abbastanza comune a tanti altri ragazzi della mia generazione. Solo leggendo i libri di storia ho capito davvero chi fosse Alessandro Pavolini, e ho sentito la necessità, caldeggiata per altro da altre persone di mia conoscenza, di approfondire studi e informazioni sulla sua figura e sul suo operato".

E' un Lorenzo Pavolini sereno e sorridente quello che si concede ai microfoni di TRG - l'intervista va in onda stasera su "Trg Plus" - per parlare del suo libro. Che in realtà rappresenta un percorso conoscitivo interiore. Non privo di conflitti, per un giornalista - abituato a occuparsi di radio, comunicazione, cultura, e di estrazione culturale non propriamente di destra - che non può non fare i conti con quel cognome così "pesante" nell'economia del Ventennio. E della storia d'Italia.
Perchè Pavolini non è stato un semplice gerarca fascista: "E' ancora oggi attuale la domanda di come un intellettuale come lui - si è chiesto il prof. Raniero Regni, acuto e brillante animatore della conversazione pubblica con Pavolini - che già a 25 anni si fregiava di due lauree, che fondò il Maggio Musicale Fiorentino, che progettò la stazione di Firenze, tra le creazioni architettoniche più audaci del nostro Paese, finisse per diventare una delle figure più sanguinarie del regime. E scelse di seguire fino all'ultimo, fino all'estremo, Mussolini. Per la verità - ha aggiunto Regni - non è una novità che un regime totalitario abbia figure di intellettuali a tesserne la trama. E bisogna immergersi in quel clima, in quel contesto, non con esercizi puramente storiografici, ma anche emotivamente, per comprenderne le motivazioni essenziali".

"Tanti mi hanno sollecitato un libro su mio nonno. E all'inizio mi chiedevo perchè. Tra i più insistenti - racconta Pavolini - un mio maestro, Enzo Siciliano, studioso distante anni luce dalle idee della destra, che però ripeteva di continuo che avrei dovuto scrivere un libro su mio nonno. Riconoscendogli indirettamente una cifra culturale straordinaria. Non chiedetemi però di mettere su una bilancia il suo operato. Mi è impossibile farlo, sia da storico, che non sono, sia da giornalista ma soprattutto da nipote. Accanto a straordinarie intuizioni e creazioni culturali, Pavolini è legato anche ad altre azioni di cui nessuno può andar fiero, come la fondazione delle Brigate nere. Ed è esercizio inutile andare a conteggiarne il peso per capire se esiste una sorta di parallelismo, se il bilancio è positivo o negativo. Non so e non voglio ridurre questo studio ad un'operazione aritmetica" ha confidato Pavolini.

Indiscutibilmente quella di suo nonno resta una figura controversa del fascismo. Ma proprio perchè a differenza di altre - che hanno lasciato essenzialmente segni negativi - il suo fervore intellettuale ha costituito un riferimento indiscusso per anni, anche all'occhio di chi non la pensava come lui.
Pavolini resta un provocatorio punto interrogativo della nostra storia. Che sembra continuare ad imperversare per sollecitare una lettura (che non è una "rilettura") di un periodo storico troppo sbrigativamente censurato con giudizi lapidari. Ci sono voluti 60 anni e un giornalista-scrittore di sinistra (Giampaolo Pansa) per aprire il capitolo dei "Vinti". Ma forse questo libro di Pavolini va oltre.
Perchè non è carico di rimorsi, non ha rivendicazioni, non trasmette voglia di rivincita.
Fa della reticenza - che nel caso della famiglia Pavolini non è vergogna o pudore, ma desiderio di riservatezza - un "valore aggiunto": quella motivazione, personale e interiore, di scavare, informarsi, documentarsi, che non è propria solo di un nipote - interessato alle gesta o alle nefandezze (a seconda dei punti di vista) ascrivibili a suo nonno. Apre idealmente un armadio di conoscenze che le nuove generazioni è giusto riescano a coltivare. Sapendo sempre discernere ciò che la storia insegna, ma pur nel distinguo opportuno, sapendo anche focalizzare quei personaggi che hanno rappresentato una presenza carica di energia, valori, espressione che è figlia di quel tempo.
Proprio perchè quasi 70 anni se ne sono andati, l'Italia di oggi è anche figlia, nel bene o nel male (o in tutti e due), di quanto seminato nel secondo dopoguerra. E di ciò su cui si è preferito tacere, ma che oggi è comunque pur sempre utile sapere...

Il conflitto di Lorenzo Pavolini, è lo stesso che milioni di italiani continuano a coltivare per quell'epoca. Che non si riduce ai giudizi sedimentati nei libri di storia, che la recente narrativa ha dimostrato comunque incompleti e approssimativi. E per decenni, motivo di oblìo per centinaia di migliaia di famiglie e di persone.
E' lo stesso conflitto che gli italiani continuano silenziosamente ad avere con il proprio passato. Con cui si fatica a fare i conti. Perchè accanto ai tanti indiscutibili "segni meno", nessuno - o pochi - hanno il coraggio di inserire qualche "segno diverso". Qualche punto di sospensione. Che non sia semplice rimorso o sete di vendetta.
Con quella distanza, giusta, nè manichea, nè convenzionale, nè opportunista, che Lorenzo Pavolini ha cercato di mantenere e soppesare nel suo racconto. E nel suo rapporto, a distanza fisica e temporale, con quel nonno (e quel cognome) così importante.
Quel senso della misura che il nostro Paese dovrebbe riuscire ad indossare, finalmente, per guardare in modo più asettico al proprio vissuto. Senza doverlo celebrare, senza necessariamente doverlo infangare. Un esercizio essenziale per il nostro passato, ma decisivo anche per il presente.
Cercando di "cavalcare la tigre", in questo caso la storia. Che come recita l'antico adagio (e il titolo di questo libro), tutto sommato è pure semplice.
Il difficile è poi riuscire a scendere da quella tigre, senza averla prima domata...

venerdì 17 agosto 2012

Il ritorno sul Rio Freddo: un Ferragosto senza fila, una passeggiata di ricordi... Il senso del tanto che chi circorda...

Dici Ferragosto e pensi ad una fila. Quella di un casello autostradale, di un autogrill, di un ristorante o di una cabina in spiaggia, di un bagno, di un parcheggio, di un museo (più raro) o semplicemente di una bancarella di vu cumprà.
E solo l'idea, coltivata cinicamente per qualche istante, che la sorte di una qualsiasi di queste code tocchi agli altri, rende ancora più stuzzicante l'emozione di un paesaggio e di uno scorcio sperduto come quello di Rio Freddo.

Parco del monte Cucco, sentiero che conduce all'eremo di San Girolamo - noto anche come eremo di monte Cucco. Ho avuto la fortuna di tornarci dopo un'inezia: 25 anni esatti.

Una passeggiata salutare, e non solo per il fisico, vissuta con un gruppo di amici e persone speciali. Un sei-sette ore di cammino (a ritmo tranquillo, non da Dolomiti performer) partendo da Pascelupo - pittoresco borgo a cavallo tra l'Umbria e le Marche che solo a guardarlo ispira un senso di freschezza.
Partenza di buon mattino, direzione Valle delle Prigioni - itinerario Cai - su per la "Scarpa del Diavolo", un pertugio roccioso che ricorda un piccolo canyon, così appagante da perforare in salita che finisci per non accorgerti delle quasi due ore di tragitto. Si sbuca sul percorso di mountain bike che conduce ai prati ventosi di Pian delle Macinare, stranamente deserto il giorno dopo Ferragosto, per poi ridiscendere lungo l'itinerario 4 del Cai fino all'eremo di monte Cucco, un'oasi architettonica che sembra calata da chissà quale pianeta nel cuore del nerbo roccioso appenninico.

In una quiete ombreggiata e intima che suggerisce le note degli Enigma e l'atmosfera di un film come "Il nome della rosa" - quanto al libro, bellissimo, resta forse un macigno ancora più arduo da scalare che non il Cucco stesso...

Quasi al termine di questo anello pedonale di poco meno di 20 km, ecco affacciarsi la gola di Rio Freddo: tornarci è stato semplicemente emozionante.
Perchè anche se per una decina di minuti in tutto, è stato un appassionante flash back di 25 anni: passo dopo passo la temperatura sembra scendere man mano che ci si avvicina alle piccole cascate, il silenzio che ti accompagna in questo angolo di paradiso è scandito solo dal fruscìo costante delle acque, che con il loro ritornello piacevole e familiare suggeriscono una danza di suoni e di ricordi. Il gorgo si avvicina e si alzano gradualmente i decibel di quella musica, che vale una carezza rinfrescante nella calura dei 30 gradi di questa estate da microonde.
Uno scorcio di Rio Freddo
Eravamo stati lì, nell'estate '87, da bravi giovinastri, approdati a bordo di motorini "truccati", il cui rumore era direttamente proporzionale al numero di infrazioni che riuscivamo ad infilare ogni volta che mettevamo in moto. Armati di costume e asciugamano, pronti a sfidare la temperatura polare di quelle vasche naturali: credo che l'acqua, in questo piccolo invaso scolpito dal tempo e dai venti, non superi i 5 gradi durante l'anno e forse tocchi queste "cime" proprio nei giorni di Ferragosto. Allora ci eravamo buttati dentro, un po' incoscienti, un po' desiderosi di un'avventura diversa che desse un senso a quell'estate da poco più che adolescenti. Magari 16 anni non ti bastano per apprezzare uno scorcio di paradiso naturale, cerchi più la bravata, o il pomeriggio alternativo da raccontare a qualche amica durante altre vasche, quelle di protocollo da consumare sul Corso. Meno fresche ma forse, a quell'età, più accattivanti.
Il senso di quel luogo, 25 anni dopo, è completamente ribaltato. Qui puoi abbandonare in un attimo le "scorie" radioattive della quotidianità, i gradi di afa lasciati lungo l'asfalto appenninico o dietro una scrivania, le beghe burocratiche di un mestiere cui piace regalare complicazioni anche nei giorni feriali: e riconquistare quel clima giocoso, innocente e inconsapevole della prima giovinezza. Quando non c'erano connessioni wi-fi, quando per chiamare qualcuno serviva il gettone, quando era la versione di latino o la lezione di storia il problema "insormontabile". E il verbo futuro era tutt'al più coniugato con la settimana successiva...

Con Dada ed Ettore, a temperatura... gelida
Il "tuffo" stavolta è stato più semplice. Perchè con qualche anno in più quei pochi gradi sopra lo zero termometrico si sentono, eccome. Piedi a "mollo", per qualche secondo, giusto il tempo di abbassare drasticamente la temperatura corporea e sorridere a quella sensazione di strappo muscolare ai polpacci. Subito seguita da una scossa di rilassante morbidezza a tutto il circuito nervoso.
E una conferma: spesso andiamo alla ricerca di angoli fiabeschi dall'altra parte del pianeta - ed è giusto che sia così, perchè niente val la pena consumare quanto il "viaggiare".
Ma tutto questo, talvolta, finisce per socchiudere lo sguardo sui tesori che ci circondano, tesori di storia, arte, architettura, ma anche tesori di natura. Come l'arcipelago montuoso del Cucco, che spesso si sottovaluta solo perchè a raggiungerlo basta poco più di un quarto d'ora.

E invece ogni volta che pensiamo a questo labirinto di profumi e di colori, a due passi da casa, dovremmo farlo con lo stesso stupore, la stessa meraviglia, lo stesso desiderio di conoscenza e di vissuto che può ispirarti un lido lontanissimo, che spesso istiga la nostra voglia di andarcene, anche solo con una foto: come quella di Maurizio Biancarelli, regalatami qualche tempo fa, uno scatto suggestivo e immediato di uno scorcio di inverno polare. Peccato che non si tratti di Finlandia. Nè di uno sconosciuto bosco scandinavo. Quello che appare attraverso la pellicola sensibile del fotografo eugubino, è semplicemente un angolo inedito di monte Cucco...
Bello, intrigante, unico. Come un sorriso sconosciuto...

lunedì 13 agosto 2012

Quel che resta di Londra: a parte il ricordo...

Qual è l'uomo simbolo dell'Olimpiade? E la donna simbolo? E la medaglia più bella?
Sono i giorni dei bilanci del dopo-Londra: giornali e tv fanno a gara a chi s'inventa il sondaggio più banale dopo la XXX edizione dei Giochi.
Ed è inevitabile che anche il mio blog finisca per accodarsi alla litania. Non tanto andando a cercare "la foto o l'evento più memorabile" ma spulciando tra curiosità, emozioni ed aneddoti che mi rimarranno impressi... forse perchè sfuggiti ai più.

Non ero a Londra, ma se ci fossi capitato sarei andato in cerca - un po' come Diogene, ma senza torcia - di una storia sconosciuta, strana, controcorrente. Troppo facile oggi andare a spulciare la vita di Usain Bolt o ripercorrere la messe di medaglie collezionate da Phelps. O celebrare le 8 medaglie d'oro italiane, accorgendosi che esistono perfino discipline sportive in cui si spara con una carabina o si colpisce un corpetto elettrificato con tecnica coreana. Rischiando di far figure meschine da "pesci fuor d'acqua" (un po' come Caressa che commenta il nuoto...).
Più curioso sarebbe ricostruire la genesi delle 28 medaglie d'oro della Gran Bretagna per scoprire quante ce ne sono di autentiche (la metà?). Accade sempre alla nazione ospitante di ricevere qualche spintarella. Magari con più stile e meno imbarazzo di quanto avvenuto ieri sul ring, dove il "delitto perfetto" ha toccato il povero Cammarelle.

Cammerelle sul podio, nonostante tutto
Cominciamo proprio dalla fine, da lui. Andrea il gigante, l'uomo del pugilato azzurro che aveva già indossato l'oro di Pechino e che ha dovuto ingurgitare l'amarezza della beffa. Che non è la sconfitta, non è riconoscere un avversario più forte, più tecnico, più brillante. Molto peggio della sconfitta c'è il furto pacchiano, la clamorosa sottrazione di un verdetto che è parso solare anche ai non addetti ai lavori. E che è stato mascherato in modo subdolo e meschino con un pareggio beffardo e un'assurda conta dei colpi inferti. Se il team GB voleva perdere la faccia, c'è riuscito benissimo, rovinandosi sul più bello...
Lui, Cammarelle, la sua medaglia d'oro l'ha rivinta dopo il gong: nascondendo per quanto possibile la rabbia e l'incredulità, senza finti sorrisi o ipocriti atteggiamenti di circostanza. Ma si è presentato regolarmente alla premiazione, ha indossato l'argento illegittimo, ha ascoltato silenziosamente il "God save the Queen" (and bless the judge), ha salutato, guadagnandosi l'uscita (a testa altissima) dal ring e dal Palazzetto delle beffe. Come sa fare solo un campione straordinario, come può riuscire solo ad una medaglia d'oro. Dentro.

L'unico vero Dream team di questa Olimpiade
Ma se Cammarelle, detto "Game over" (per la capacità e la frequenza di chiudere i match prima del gong) è diventato il bersaglio delle "macchinazioni" britanniche, sono stati altri i bersagli che hanno regalato il sorriso ai colori azzurri. In un'Olimpiade che più che in passato ha saputo esaltare discipline "aggressive" (armi in pugno) che vanno dai tradizionali serbatoi di vittorie (la scherma, con un quarto delle medaglie totali, e il solito tiro a volo) fino a discipline meno conosciute e meno avvezze a far scattare l'inno (oro nella carabina, nel tiro con l'arco e nel taekwondo). Qualcuno le definirebbe "cenerentole". La cui gloria, purtroppo, va poco oltre la mezzanotte (leggasi, durata dei Giochi Olimpici) per poi rientrare nella silenziosa routine di una ventesima pagina della Gazzetta. Ma la magia dei cinque cerchi resta comunque quella di offrire loro una vetrina irripetibile: e trasformare milioni di italiani in esperti di "skeet", "stoccata", "shoot off" un po' come lo furono delle strambate del "Moro di Venezia" una ventina di anni fa...
In questo esercito di vittoriosi alfieri, un capitolo a parte meritano le schermitrici (per lo più jesine), capaci di rivelarsi l'unico vero dream team di questa Olimpiade. In nessuna altra disciplina (nemmeno il ping pong o il balneare badminton per i cinesi) uno stesso Paese ha piazzato i propri portacolori nei primi tre posti individuali e sul gradino più alto della competizione a squadre: solo il fioretto femminile italiano. Che dopo Londra non ha più bisogno di chiedere autografi a Kobe Bryant...

Gli schemi di Marta Menegatti...
Un azzurro, che un po' anche rosa. Perchè continuano ad essere soprattutto le atlete a darci soddisfazioni. A restituirci il gusto di gridare "Forza Italia" - dopo l'embargo politico quasi ventennale imposto dalla scesa in campo del Cavaliere, e gli scarsi motivi per riesumarlo di questi ultimi anni.
In pedana, come nella sabbia. Dove oltre alle gesta tecniche e atletiche, milioni di telespettatori hanno potuto apprezzare anche quelle estetiche delle giocatrici di beach volley: una delle discipline più seguite - soprattutto al momento delle indicazioni tattiche - dal vivo come sugli schermi. Il motivo è semplice e non c'è da fare il disegnino. Diciamo che nonostante l'eliminazione ai quarti, le nostre portacolori (in particolare Marta Menegatti) non hanno avuto nulla da invidiare alle competitors americane, nordeuropee o brasiliane. Anche questo, vi piaccia o no, è made in Italy...

La pagajata di Josefa: un'icona sempreverde...
E che dire di Josefa Idem, la quasi 50enne canoista germanica, naturalizzata tricolore dopo un matrimonio provvidenziale anche per il nostro medagliere (alla sua sesta Olimpiade, quarta da azzurra)? Semplicemente un esempio, di donna, di atleta, di madre, e di tutto quello che preferite aggiungere, senza necessariamente sconfinare nella retorica. Ma una signora, che alla soglia dei 10 lustri trova ancora la forza e il carattere per allenarsi 6 ore al giorno, magari dopo aver rifatto il letto e preparato la colazione ai figli (senza necessariamente lo spot di una merendina al latte), può valere anche un pizzico di vis oratoria. Se non altro per destarci dal torpore quotidiano del modello veline. Per lei un quinto posto vale come un oro, altro esempio di cui far tesoro.
Senza dimenticare però le lacrime, già salutate con dovizia di commento, di Cagnotto e Ferrari. Che ci raccontano come, non un quinto, ma un quarto posto possa essere una lama che ti trafigge, snervando i sacrifici di un quadriennio. Per loro c'è di conforto l'anagrafe: che silenziosamente dà appuntamento ai prossimi palcoscenici Mondiali e perchè no, a Rio 2016. Se c'è un destino, saprà ricordarsene...


Questo bronzo è anche per te...
L'ultima immagine di questa rassegna è per una maglia: una maglia azzurra apparsa sul podio di pallavolo. Quel volley che continua a negarci un oro "sacrosanto" - più che oggi, ai tempi di Velasco - ma che ci regala una pagina commovente e straordinaria, di sport e di amicizia. La maglia di Vigor Bovolenta apparsa sul gradino numero 3 del podio di Londra, con le medaglie di bronzo dei suoi ex compagni di squadra, è qualcosa più che una semplice vittoria sportiva. E' il gesto per eccellenza di chi, gustando il successo, non dimentica chi ha contribuito in passato a viverne il sapore, le emozioni, la sofferenza. Anche quella medaglia, in realtà è dorata. Perchè fatta di un sentimento che vale più di un'Olimpiade stessa...
Ora la rassegna a cinque cerchi va in letargo. Fortunatamente l'alternanza con quelli invernali, farà sì che il digiuno non dovrà durare 4 anni. In realtà la nostalgia per l'Olimpiade è già forte: con i suoi successi, le amarezze, con le vittorie sudate e quelle negate, con gli sport sconosciuti e quelli di tradizione, la saga per antonomasia ci mancherà di sicuro.
Che distanza siderale ci toccherà avvertire, non appena torneremo ad ascoltare - chi avrà ancora lo stomaco per farlo - le stucchevoli ripicche su penalty e offside: nel nostro piccolo cercheremo di mantenere se non lo stile, se non l'atmosfera, almeno lo spirito olimpico. E tutto quel che resta di Londra... a parte il ricordo.

sabato 11 agosto 2012

Vacanze a Pechino... e il calcio italiano comincia peggio di come aveva finito

Per fortuna che si giocava nel "nido d'uccello", lo splendido stadio che ospitò l'atletica nei Giochi Olimpici di 4 anni fa. E per fortuna che si giocava immersi nel clima olimpico via Londra, alla vigilia della conclusione delle due settimane più importanti dello sport planetario.
Lo spettacolo andato in scena alla fine di Juventus-Napoli, finale di Supercoppa italiano, nel gremitissimo stadio cinese, è stato semplicemente avvilente.
Una squadra che vince e viene premiata, l'altra che se ne resta rintanata negli spogliatoi: motivo, non si accetta il verdetto del campo, non si ritiene regolare quel 4-2 che sarà consegnato agli archivi, non si riconosce la correttezza dell'arbitraggio (nell'occasione neanche di 3 ma di 5 direttori di gara più il sesto uomo). Nel calcio tutto è opinabile, i confini della polemica ormai sono impercettibili ma marcare visita sul podio assume i contorni della farsa.
Un siparietto da commedia italiana che forse potrebbe ispirare qualche nuova pellicola cinematografica: "Vacanze a Pechino", chissà, magari De Laurentiis, vulcanico patron del Napoli, potrebbe guadagnarci anche qualche milione di euro d'incassi battendo al botteghino i fratelli Vanzina.

Tanto vale scherzarci su perchè a prendere sul serio, non solo quel che è accaduto al "Nido d'uccello", ma quel che è stato fatto (senza commenti, per fortuna, con un silenzio stampa che per quanto polemico è stato almeno provvidenziale), sarebbe da chiudere la tv, ripiegare i giornali, e darsi a qualche altra disciplina sportiva. Regalandoci, perchè no, qualche salutare pomeriggio di scherma o una piacevole serata di badminton.
Peccato però che a interpretare questo teatrino non siano De Sica o Boldi, ma quella che si ritiene la classe dirigente sportiva del nostro calcio.
Aurelio De Laurentiis non è nuovo alle sceneggiate, lo scorso anno tuonò contro la Federazione, la Lega e i dei dell'Olimpo quando uscirono i calendari (mandando tutti al diavolo e andandosene col primo scooter che passava a fianco della sede federale).
Spesso lo si è sentito lamentarsi di rigori e fuorigioco, mai lo si è sentito ammettere che forse qualche svista arbitrale aveva avvantaggiato la sua squadra (ad es: nella finale di Coppa Italia del 20 maggio, con un rigore solare negato a Marchisio sullo 0-0).

Poi è arrivata Pechino e il re della fiction (cinematografica) ha dato il meglio di sè. Niente premiazione, niente presenza sul palco, quasi a voler delegittimare da lontano e in silenzio sia le istituzioni sportive che la squadra avversaria.
Un fulgido esempio di spirito sportivo, tipico di chi utilizza il doppiopesismo nello sport (e probabilmente anche nella vita). Se mi va bene applauso, se mi va male mi chiudo in clausura. E me la prendo con tutto il mondo, andando a fomentare il "nazionalismo" vittimista dei tifosi napoletani - una corda delicata, di cui si era abilmente servito anche Maradona ai tempi della semifinale di Italia '90 - e trovando per la mia squadra un'attenuante perfetta non solo per giustificare l'insuccesso ma magari per vantare un credito d'imposta (sportiva) sugli arbitraggi della prossima stagione. Che non guasta mai...

Se fossimo giornalisti sportivi (non della Gazzetta, ma forse neanche del Corriere dello sport), se potessimo rivolgere una domanda al numero 1 del Napoli calcio, gli chiederemmo: secondo lei, a parti inverse, cosa avrebbe detto del rigore non concesso nel primo tempo a Matri? E a parti inverse, come avrebbe commentato la mancata concessione del rigore su Vucinic nella ripresa? Non ci aspetteremmo onestà intellettuale da medaglia d'oro, ma le domande le faremmo lo stesso.
E cosa dire del nervosismo serpeggiante nella squadra napoletana quando ancora il risultato era sul 2-1 a proprio favore? La sostituzione di un Cannavaro ammonito (e graziato) dopo la "falciata" su Giovinco, la schizofrenica reazione di Zuniga sulla prima ammonizione, l'inutile manata a Marchisio sulla seconda, gli insulti al guardialinee (non possono non esserci stati) e la sceneggiata successiva di Pandev? Tutto normale, o forse tutto "figlio" della provocatoria condotta di gara di Mazzoleni.
Peccato che qualche anno fa, quando Bergonzi (che faceva parte del quintetto arbitrale di Pechino) concesse due rigori inesistenti sull'ex Zalayeta al San Paolo, il produttore self made president non ebbe a che ridire.

Se tutto questo, per il Napoli, per Mazzarri (altro esempio british), per De Laurentiis è normale, così come è normale rifiutarsi di salire su un podio anche se il gradino da occupare non è il più alto, allora l'esordio del calcio italiano nella nuova stagione - quella del dopo-scommesse - non poteva essere peggiore.
Con un Paese che tornerà a dividersi tra juventini e anti-juventini (come nella vicenda Conte), con i vittimismi di neo mecenati del calcio incapaci di accettare il risultato del campo (blandendo così la propria squadra come fa quel genitore che anzichè guardare ai difetti del figlio se la prende col professore), con una certa stampa pronta a soccorrerli e a dare voce (a "orologeria") a chi si bea (Zeman) di dichiarazioni velenose contro il proprio bersaglio preferito (e finora viene ricordato quasi esclusivamente per quello).

Il tutto a condire un'atmosfera pre-stagionale a dir poco nauseante.
Le Olimpiadi sono vicine alla conclusione, ma già ne sentiamo la mancanza.
Per quel che mi riguarda, l'immagine più bella di questo Juventus-Napoli restano i gesti tecnici: il cucchiaio di Pandev che replica alla sciabolata di Asamoah, la voleè di Vucinic (deviata sulla traversa) che fa il paio con le sgroppate di Cavani.
Questo poteva e doveva essere lo spot pre-campionato più succulento. Resterà invece nel dimenticatoio, perchè di questa gara e di questa Supercoppa, ricorderemo solo quel gesto assurdo di fine partita: messo in atto forse per il solo gusto di "negare la gioia della vittoria" e rovinare la festa.
Con l'aggravante di aver gettato un seme avvelenato sulla prossima stagione. Restando in attesa di essere smentiti...

giovedì 9 agosto 2012

Tagli? L'erba del vicino è sempre più alta...

L’erba del vicino è sempre più verde. Ma se c’è da tagliare, è sempre più alta.
Lo si capisce ogni giorno di più. Vale per l’Europa – dove tutti predicano tagli e sacrifici, ma sembrano dimenticare i propri conti e chi i sacrifici chi li fa davvero. Vale per il nostro Paese – dove la “cura dimagrante” del governo tecnico tocca tutti, ma la politica continua a preservare gelosamente le proprie guarentigie. E vale anche per le nostre lande sperdute, così periferiche da sembrare fuori dal tempo e dallo spazio.


Non dalla spending review che va tradotta con la più comprensibile definizione di “revisione di spesa”.
Le sforbiciate propinate da Monti – meno apprezzate di quelle del memorabile Parola, immortalate nelle celebri figurine Panini – hanno toccato anche le Province: sono anni che ogni governo che si alterna a Palazzo Chigi, di qualunque colore sia tinteggiato, promette il taglio delle Province. Salvo poi dimenticarsi sulla via di Damasco della promessa elettorale che forse, a conti fatti, non val la pena realizzare sul piano della “tenuta del consenso” (territoriale).
Per una volta che un governo – guarda caso non politico - si è deciso almeno a riordinare, se non ad eliminare, un apparato politico-amministrativo del quale si avverte in questa fase di ristrettezze una certa ridondanza (109 province in un’Italia già divisa in 20 regioni, e tra l’altro senza una Costituzione federale, fanno sorridere), ecco che divampa la battaglia dei campanili. A Terni, ovviamente, non ci stanno di veder sparire la “bandiera” e c’è chi propone un referendum per scendere a Roma (senza marcia), c’è chi vedrebbe bene una fusione con Rieti, chi vorrebbe la sopravvivenza di Terni arricchita di altri territori (Valnerina e lo Spoletino). A loro volta da Spoleto e Valnerina fanno sapere che di andare a finire a Terni non se ne parla (neanche fosse il Terzo Mondo).

Un balletto stucchevole, soprattutto se raffrontato alle difficoltà quotidiane e concrete con cui cittadini, imprese e lavoratori, si trovano a dover fronteggiare. Che somiglia tanto ai bisticci che quotidianamente le maestre d’asilo (nido) si trovano a dover dirimere.

Il problema è che i bisticci sono di Palazzo e in ballo non ci sta un trenino rosso o una bambolina blu ma i nostri soldi, i servizi pubblici di cui la gente si serve quotidianamente e le risorse necessarie a finanziarli.
Se da una parte si litiga per le bandierine del Risiko, dall’altra – sul fronte viabilità – c’è chi insiste a spingere per progetti vecchi e irrealizzabili (raddoppio Orte-Falconara, sponsorizzato dall’ex presidente della Regione Lorenzetti), mentre il Governo mette praticamente in naftalina perfino le risorse attese per il nodo di Perugia e l’ammodernamento della E45. Come dire, scordatevi le grandi opere.
Anche qui la politica sembra vivere su una propria galassia, lontana anni luce dalla realtà. Tanto i disagi, gli isolamenti, le distanze, in fondo, a pagarli tornano ad essere sempre gli stessi.
GMA

Da "Gubbio oggi" - editoriale agosto 2012

mercoledì 8 agosto 2012

La maledizione dei numeri 4... e un pensiero su Schwazer

Chissà se Pierre De Coubertin c'ha mai pensato. Per lui, per l'inventore delle Olimpiadi moderne, il motto era "l'importante è partecipare". Magari la filosofia, un po' tibetana, un po' Ghandi, ci può stare. Quando parli di spirito olimpico, in fondo, racconti una storia da poltrona di fronte al camino e nipotino sulle ginocchia.
Quando sei in campo, però, la storia è un'altra.
E la storia che mi piace ricordare di questi Giochi Olimpici londinesi - ancor prima che si chiuda il sipario - è quella di una maledizione. E della forza d'animo che il destino ti richiede per superarla.

In Messico c'era la "sindrome di Montezuma": silenziosa e invisibile, ti pigliava l'apparato gastro-intestinale e ti condannava ad un rapporto carnale con il wc per almeno una settimana.
In Gran Bretagna non ci sono leggende azteca, ma la iattura è legata ai quarti posti. A quel gradino del podio che non esiste, quella medaglia "di legno" così vicina ma così distante dai metalli pregiati. Così impalpabile e così beffarda da cancellare il prestigio che un posto d'onore - quale comunque è la quarta piazza di una gara olimpica - dovrebbe suscitare.
Invece quella casella vuota, inesistente nel podio e misconosciuta nel medagliere, somiglia ad una macumba.
E se esiste un quarto posto da dover digerire con l'alca selzer, è quello che scaturisce nelle discipline sportive che dipendono dal giudizio arbitrale.
Perchè se manchi una stoccata (come Baldini nel fioretto individuale) o se hai tre imbarcazioni davanti (come nel canottaggio), puoi prendertela con te stesso o tutt'al più con quell'essenza impercettibile chiamata "dea bendata".
Ma quando al quarto posto ti spedisce la paletta di un giudice, la storia si fa intricata. E mandarla giù diventa una scalata da K2.
Tania Cagnotto, Vanessa Ferrari, Alberto Busnari: tre personaggi diversi tra loro, diversamente conosciuti al grande pubblico, ma accomunati dal triste destino di un quarto posto "a tavolino". Il tutto nel giro di poche ore. Una medaglia "di legno" assegnata da valutazioni quanto meno discutibili, quando non addirittura risibili. O da meccanismi incomprensibili come nel caso della giovanissima ginnasta azzurra che, pur a pari merito con l'avversaria russa, si vede costretta a scalare al quarto posto per un maggior "decremento" di risultato in fase di esecuzione. Come dire "mi stai sulle balle, e ti lascio fuori dal podio".

Curioso, per quanto gravido di amarezza sportiva, notare come le tre vicende abbiano vissuto reazioni diverse, su binari differenti. Forse anche perchè differenti sono le storie sportive dei malcapitati.
La Cagnotto è vittima sacrificale del verdetto olimpico: per lei il quarto posto ha le sembianze di una condanna, a Londra di un verdetto sadico. Quarta nel sincro con la Dallapè, quarta nel singolo dai 3 metri, con un'esecuzione decisamente sottovalutata dai giudici (in particolare un inglese che le ha assegnato 7,5 contro un 9 incomprensibile alla messicana, poi finita sul podio). L'ha presa con sostanziale filosofia. A caldo le lacrime sono inevitabili, il giorno dopo sorride al microfono e rassicura: "Continuerò ad allenarmi e guardo avanti".
Una forza d'animo che nasce anche dai suoi 27 anni, da tanti allori ma anche da tante sconfitte. Messe alle spalle e pian piano diventate pietre sulle quali costruire il restante cammino.
Chi deve capirlo, invece, è Vanessa Ferrari, appena 18enne, cui un giudice avaro ha negato un bronzo che sembrava sacrosanto: lacrime da copione sì, ma anche tanta rabbia. Da farle dire "Forse mollo tutto".
Alle due reginette negate, fa da contraltare il silenzio sorridente e quieto di Busnari: alla sua terza Olimpiade voleva (e meritava) il podio, il suo esercizio è parso addirittura sontuoso nella esecuzione, ma il tavolo inquisitorio non gli ha regalato nulla più che la medaglia di legno. Se ne è uscito con ironia, dalla pedana come dai microfoni, lasciando il livore ad altre e più ignobili reazioni.

Finire fuori a causa altrui non è bello. E non è questione di estetica. Ognuno nel proprio campo, quando si mette in gioco, cerca di ottenere il massimo. Non è arrivismo, è giusta ambizione. Non è fanatismo, è voglia di realizzarsi. Se c'è qualcuno più bravo, chapeau. Se invece è un tavolo dietro al quale ignoti personaggi (dalla competenza tutta da dimostrare) si ergono a inquisitori, puntando il dito o decidendo inesorabilmente del destino altrui - senza cognizione di causa o senza quel buon senso che dovrebbe ispirare chi veste i panni della terzietà - allora c'è molto da rivedere. E c'è una naturale idiosincrasia verso quelle discipline che dipendono in tutto o quasi dal giudizio altrui. Che in quanto soggettivo sarà sempre oggettivamente destinato a scontentare.
Una sensazione che ho provato personalmente (e non in campo sportivo). E sulla quale saggezza consiglia di lasciare le reazioni al giorno dopo. L'istante successivo, l'impatto a caldo, farebbe dire e fare cose di cui poi ci si potrebbe pentire... Ma l'amaro resta, anche a distanza di tempo.

Un ultimo pensiero per Alex Schwazer: suo malgrado, questa Olimpiade, almeno per gli italiani, porterà anche il suo nome. Quattro anni fa era stato l'unico oro del medagliere dell'atletica. Quest'anno sarà il volto simbolo della sconfitta umana, prima ancora che sportiva.
Non voglio giudicare, perchè già lo ha fatto il diretto protagonista da solo. Ho già detto in un'altra occasione (e in un altro post, su vicenda del tutto differente) che quando si chiede scusa, quando ci si mette la faccia in ciò che si sbaglia, si compie un gesto di una nobiltà ben più grande di quanto sia effettivamente deprecabile l'atto di cui ci si scusa.

L'atleta Schwarzer è già finito da tempo (e la scelta di darsi all'Epo ne è stato come il campanello d'allarme). Ora c'è da recuperare l'uomo. Che non può essere lasciato solo - come avvenne invece per Marco Pantani. E non può essere deliberatamente maltrattato da quel circus mediatico che ogni quattro anni chiama all'appello personaggi ed atleti lasciati nell'ombra nel tempo restante, invocandoli come "salvatori della Patria".
Schwazer non sarà e non dovrà essere un esempio per l'errore che ha commesso. Ma deve esserlo per il coraggio di affrontare quel mondo che oggi lo giudica con la supponenza di chi, a parole, non ha mai cercato una scorciatoia per vincere paure e debolezze.
Un abbraccio, più che un monito o un giudizio, è quello che mi sentirei di dare a Schwazer, se fossi a Bolzano. Invidiandogli le montagne che lo circondano e la forza con cui ha affrontato lo scoglio più difficile: chiedere scusa davanti a tutti. Un'impresa che vale più di 50 km di marcia...

lunedì 6 agosto 2012

Quando l'amicizia, quella vera, si rivela in un gesto inaspettato...

Si dice da sempre che l'amicizia rappresenti il bene più prezioso. Anche se spesso lo sconfinamento nelle praterie della retorica finisce per sminuire il valore autentico di un sentimento così impalpabile. I cui contorni restano impercettibili. E le cui manifestazioni - le più svariate - toccano e appassionano proprio quando sorprendono per spontaneità e semplicità.
E' quel che ho pensato, ascoltando il racconto di una signora: è un episodio di alcune settimane fa, accaduto al cimitero di Gubbio.
"Ero al cimitero per la mia consueta visita settimanale - mi dice la signora - quando la mia attenzione è stata attratta da un gruppo di ragazzi (ora adulti), che ritrovatisi al "campo santo", nella zona a destra del viale di entrata, stavano parlando tra di loro con grande interesse, partecipazione e intensità. Sembrava un ritrovo tra vecchi amici, una specie di riunione tra ex compagni di classe, a distanza di anni. Erano di fronte la tomba di un loro comune amico (Tonino), fortemente logorato dalla vita e strappato anzitempo dalle emozioni terrene, al quale stavano dedicando un cippo in pietra in ricordo della sua morte, avvenuta anni fa, ma soprattutto alla memoria di una vita spesa all'insegna dell'amicizia più vera.
Quella vita che aveva riservato loro destini diversi. Ma in quel momento erano ritornati tutti i ragazzi di un tempo. In quell'istante, in una dimensione quasi metafisica tra la memoria e l'emotività del sentimento rivissuto a distanza, erano di nuovo tutti insieme. E in fondo c'era anche lui, Tonino.
Non ci sono parole per descrivere questo gesto di amicizia, quella vera, fatta di valori, di significato, di sensibilità, al di fuori di ogni compromesso o convenienza - che spesso macchiano le presunte amicizie quotidiane.
Così - ha concluso nel suo racconto la signora - dopo aver stappato una bottiglia di spumante e aver brindato nel ricordo di Tonino (lui che quel bicchiere avrebbe assaggiato così volentieri...), sono tornati lentamente nelle loro auto, appagati da quella meravigliosa mezz'ora trascorsa insieme.
Io ne ho approfittato per avere un passaggio - mi ha detto alla fine la signora - ma il grazie che gli ho riservato non era solo per quello. Ma anche per quella scena cui ho fortuitamente assistito e che mi ha riempito di commozione e di gioia".

L'amicizia è un labirinto spesso illeggibile. Nel quale non è di per sè lo sbocco, il problema principale. Ma il compagno con cui percorrere quell'itinerario misterioso. Potremmo non sapere dove ci porterà. Ma finchè non saremo soli, avremo speranza e fiducia di trovarne l'uscita. Insieme...