Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

sabato 29 giugno 2013

Nello Ontano, gigante di... generosità e spirito santantoniaro

Da la Callata dei Ferranti parte Madonna del Ponte. Poi Ontano fa la curva de la Salara, quindi Branca e Padule che gira a San Francesco”.
E’ solo un frammento, breve e sintetico, della liturgia che si rinnova ogni anno, nella ricognizione delle mute alla prima riunione di Sant’Antonio. Il mercato e la Salara. Con la “muta di Ontano”.
Ovvero, la muta di Nello. Più che un’istituzione, per il cero di Sant’Antonio, una colonna storica, una figura onnipresente, tanto da dare il nome ad un’intera manicchia, da divenire una sorta di entità geografica, e per i ceraioli di quella manicchia, un’identità autentica.
Nello se ne è andato. Dopo 5 mesi di sofferenza. La sorte è stata beffarda con lui:  enorme e robusto ottantenne, capace di superare ogni ostacolo, di trovare straordinarie energie per numerose iniziative, ancora lo scorso inverno pronto a inerpicarsi in cima al monte per dare il suo immancabile contributo agli alberaioli, ha trovato inaspettatamente in un incidente domestico la mano del destino.
Come se d’un tratto quelle stesse energie che lo avevano stimolato per decenni, nel mondo associativo così come nel cero di Sant’Antonio, non fossero più con lui.

Ci mancherà Nello. Ci mancherà questo possente personaggio che ritrovavo sempre, puntuale, all’ingresso della taverna o degli arconi, pronto a dare il suo aiuto alle iniziative della Famiglia. Anche semplicemente strappando un biglietto. Quella Famiglia che lo aveva visto tra gli originari promotori, e anche presidente alla fine degli anni Ottanta.
Ci mancherà questo ceraiolo tutto d’un pezzo, che preferiva fare piuttosto che parlare. “Io n so tanto bono pe le chiacchiere” diceva sorridendo ogni volta che mi avvicinavo col microfono. E in fondo aveva un suo linguaggio. Che andava capito, ma che più che altro si dimostrava profondo e sincero, in quello che Nello faceva, in ciò che lo vedeva in prima fila, e non per la smania di comparire. Ma per la necessità e il desiderio di adoperarsi. Per il cero, per la sua manicchia, così come per l’Avis o per il comitato degli alberaioli – altra creatura che lo ha visto dall’origine protagonista insieme al “Pacio”, al maestro Farneti: il braccio e la mente di innumerevoli iniziative ceraiole e non (come ad esempio il pennone sulla Rocca, che ho scoperto essere un’altra loro intuizione in un filmato dei primi anni Ottanta ritrovato proprio qualche settimana fa e proposto ne “L’Attesa”).

I ricordi da piccolo sono per questo nome, inconfondibile: le prime volte che bambino mi avvicinavo alla taverna c’erano quei 4-5 nomi che cominciavano a diventare familiari. Non sapevi esattamente chi fossero ma capivi che il cero aveva in quelle figure i suoi perni. E il nome Ontano, anche se lui non lo vedevi, spuntava fuori sempre.
Poi nelle prime riunioni del cero grande non potevi non notarlo. Non amava sedersi dietro al tavolo, ma stava tra i ceraioli. Però quando c’era da intervenire, non si faceva pregare. Poche parole, al momento giusto… e l’argomento era chiuso.
Non aveva figli Nello, ma sotto il cero ne ha “allevati” di ceraioli. In tanti gli devono tanto. In troppi forse non hanno fatto in tempo a dirglielo.

E la sua manicchia è un po’ come la sua seconda famiglia. L’ho capito conoscendo bene alcuni ceraioli de la “zona de Ontano”, con cui ho avuto l’onore e la fortuna di condividere una spallata, da capodieci, nel 2006 in via XX Settembre. Alessio, per tutti, mi raccontava spesso di lui. Lui per Nello era come un figlio, come anche Mauro Rossi o tanti altri. Si scherzava su qualche sua espressione dialettale un po’ folcloristica, ma entrambi sapevamo che la scorza e la sostanza erano di quelle genuine. Che non hanno bisogno di consecutio temporum per farsi capire. E per dare il meglio di sè.
Tra i ricordi più recenti c’è una confidenza che Nello mi fece l’anno scorso quando venne a ritirare, come faceva ogni anno, la sua VHS dei Ceri. Già, lui era l’unico credo non solo a Gubbio, rimasto fedele al vecchio caro videoregistratore anni Novanta. E nell’era digitale, per lui c’era comunque una VHS dei Ceri pronta dopo ogni 15 maggio a Trg.
L’ultima volta che c’è stato, fine maggio 2012, mi ha portato fuori dall’ufficio, quasi che volesse confidarmi qualcosa. E in fondo l’ha fatto, abbracciandomi, con un gesto che non m’aspettavo e una promessa.

Quella resterà tra noi, ma è la sincerità e la spontaneità di quel momento, inatteso ma vero, che mi porterò dentro di questo “omone” enorme e tale da incutere soggezione a tutti.
Ma in fondo “gigante buono”, che non si piegava facilmente ai compromessi e al tempo stesso sapeva salutarti col sorriso.
Quel sorriso mi piace ricordare. Quella schiettezza. Fatta di cose semplici e vere. Come quell’abbraccio. Come quel nome inconfondibile, Ontano, sentito ripetere mnemonicamente alla riunione del cero, come fosse una località, un paese, un indirizzo.

Da oggi è un ideale monumento, un altro dei monumenti della storia Santantoniara. E della genuina autenticità di questa comunità.


mercoledì 26 giugno 2013

Posto ergo sum... (ma ogni tanto si può anche staccare la spina)

Quasi una settimana senza blog. Pero'. Sembra una sciocchezza ma credo che negli ultimi 3 anni - da quando ho iniziato questa avventura sconosciuta (un po' come i viaggi ai tempi di Colombo, quando si sapeva da dove si partiva ma non dove si sarebbe approdati) - non avevo mai lasciato tanto tempo "vacante" tra un post e l'altro.
Complice l'aria del mare ( anche se funestata da temporali di cui avrei fatto volentieri a meno), complice la rottura del caricatore batteria dell'i-pad (altro motivo per odiare intimamente qualsiasi tecnologia leggermente più avanzata del ferro da stiro), complice un momento di apatia. Dovuta più all'attesa di qualcosa che dovrebbe accadere che non ad una fase di stanca.
Tutt'altro.
Pero' la riflessione di oggi mi viene ispirata da una e-mail ricevuta nella quale si riflette sull'ormai inevitabile e ineludibile senso di necessita' che ognuno di noi vive nei confronti della tecnologia.
Ovunque siamo, qualunuque cosa dovessimo fare, abbiamo con noi uno dei seguenti "aggeggi" (uso la terminologia che sarebbe stata di mio nonno, ma qualche volta la semplicità dei saggi rende l'idea): telefono cellulare (nelle varie versioni), macchina fotografica digitale, i-pad. Sapremmo stare senza di loro, che ne so, un paio di giorni di fila?
La domanda non e' peregrina, se e' vero che nel bel mezzo di una mattinata di trekking nel cuore dell'Appennino, la mia amica mi confida che la guida oltre a descrivere il fascino straordinario dei luoghi, non perdeva occasione e istante per scattare una foto e postarla su facebook.

Il meccanismo cartesiano e' chiaro per quanto perverso. 
Posto ergo sum.
Non si tratta solo di documentare nel senso antico del termine: scatto un flash e un giorno mi ricorderò di questa splendida esperienza. No. C'e qualcosa in più. Di evidentemente necessario. E non e' detto che sia negativo.
Non solo ho voglia di documentare - e la tecnologia mi permette di farlo ovunque anche con un "aggeggio" che posso tranquillamente tenermi nella tasca dei jeans - ma ho voglia anche di condividere. Con chi?
Che domande, con l'universo dei social. Dove tutti i miei amici - o meglio, quelli che si professano tali con la schiettezza di un clic - possono vedere dove ero, con chi ero, a fare cosa e anche come.

Un altro mio amico, qualche anno fa, quando ancora la rete di comunicazione non andava oltre il gettone della cabina telefonica, mi avrebbe detto: "Ma perché tutta sta gente dovrebbe farsi gli affari tuoi?".
Quesito legittimo. Il fatto e' che 30 anni fa non c'era la tecnologia e dunque neanche si sentiva il bisogno di tutto questo.
Oggi l'occasione fa l'homo social, ovvero la facilita quotidiana di connettersi, condividere, comunicare e... Perché no, farsi gli affari degli altri, rende tutto molto più semplice e immediato. Nonché necessario.

Dunque la tecnologia ispira virtuali esigenze. Che col tempo sedimentandosi, diventano reali.
Ma accanto al ruolo di social network e connessioni, c'e anche un antico adagio che ci aiuta a capire la psicologia di questo fenomeno.
Io lo definisco il "teorema di Claudia Schiffer", dal nome della celebre modella tedesca anni 90 e della ancor più celebre barzelletta a lei collegata dell'omino panciuto e sfigato che si ritrova da solo con la Schiffer in un'isola deserta dopo un naufragio.
Se la barzelletta non la sapete, fatevela raccontare. La morale e' che non conta quel che fai, ma molto di più conta farlo sapere. Magari con un pizzico di fantasia in più.

Vale anche per i blog, direte voi. Penso di si. I blog non fanno eccezione. Neanche questo.
Ma come ho detto, e' il piacere di condividere.
E poi... Se ogni tanto si stacca, per una settimana, non e' mica un delitto? Claudia Schiffer può aspettare (tanto siamo in un'isola deserta...).

mercoledì 19 giugno 2013

Si fa presto a dire "mettiti in fila": cronaca di una mattina... esasperante

Capita di fare le file. Ultimamente le azzecco quasi tutte. Nel senso che quando devo sceglierne una - ad es. alla posta per pagare l'IMU - indovino puntualmente quella con l'"omo nero". Nella fattispecie o nelle sembianze di un utente logorroico, pedante, petulante, insistente e snervante; o di un addetto al servizio la cui affabilità è seconda solo al frenetico e vorticoso ritmo da bradipo davanti al pc.
(a proposito, ma non era sospesa l'Imu? E' una delle domande che mi sono fatte nei 35' di attesa. E comunque, ho concluso, non è la prima tassa da abolire, ce ne sarebbero almeno una decina di più gravi e nevralgiche per "alleggerire" il peso delle imposte... e anche delle file).


Ma capita anche di fare altre file. Quelle col numeretto, che ti lasciano immaginare che potrai cavartela in pochi minuti. Ad esempio al CUP del Silvestrini - lo chiamo ancora così l'ospedale di Perugia, anche se su giornali, tv e internet siamo costretti a usare la formula completa di S.Maria della Misericordia.
Di Marie e di Misericordie credo ne siano cadute sul campo parecchie oggi, intorno all'ora di pranzo, quando mio malgrado mi trovavo ad attendere di pagare il ticket.


Mi mancavano 44 numeri quando ho premuto il tasto e la macchinetta ha sputato il suo tagliandino, con quel rumore beffardo che già da solo sembra prenderti per i fondelli. 44 posizioni non sono tante con 8 sportelli davanti. Peccato che nel giro di qualche minuto - era l'ora di pranzo - dietro quegli sportelli è rimasto un solo addetto. Morale, 1 ora e 20 di attesa per veder faticosamente scorrere davanti a me la quarantina di "compari di sventura", ognuno con un decibel di incazzatura più alto del precedente.
Non sono mancate neanche le classiche scene all'italiana: un signore che si aggira intorno agli sportelli con un biglietto (sicuramente non quello che sarebbe dovuto scattare a breve), curiosando al di là delle plance forse in cerca di un amico o un conoscente. Quest'ultimo esce dalla porta di servizio, consulta i documenti e i referti del curiosone, li prende in consegna rassicurandolo con una pacca sulla spalla. E lui, sollevato dal rischio di dover fare la fila (come tutti), ringrazia e dalla gioia regala perfino il suo biglietto al primo utente visto a fianco, e intanto incredulo aveva osservato tutta la scena.

Trovarsi in queste situazioni - tra l'altro con il cartello dell'URP (Ufficio relazioni con il pubblico) che giganteggia (ma l'ufficio era chiuso) finisce per generare anche nelle persone più insospettabili, i più tribali istinti di reazione: che in fondo, in una fila come quella vissuta al Cup di Perugia, è un po' anche istinto di sopravvivenza.
Ma al danno, arriva via internet perfino la beffa.
So che chi sta leggendo non ci crederà, ma in quegli stessi minuti in cui la fatica dell'attendere l'Araba Fenice del mio numero era seconda solo allo sforzo immane di trattenersi dal mandare a quel paese l'intero corpo dipendente della Usl perugina, in quegli stessi minuti, mi arriva sul blackberry questa e-mail. (Giuro!)

"Il 15 maggio la Fondazione GIMBE ha lanciato la consultazione pubblica del progetto Salviamo il Nostro SSN (Sistema Sanitario Nazionale), per coinvolgere tutti cittadini italiani – insieme a professionisti sanitari e Istituzioni – nell’identificare criticità e suggerire possibili soluzioni per un Servizio Sanitario Nazionale sostenibile.
Il progetto, concepito in una fase particolarmente critica per la sanità pubblica, nasce dalla consapevolezza che, nonostante i tagli, il SSN rimane sostenibile perché una percentuale consistente della spesa sanitaria viene attualmente sprecata in maniera intollerabile.
Considerato che un servizio sanitario pubblico, equo e universalistico rappresenta una conquista sociale irrinunciabile per l’eguaglianza e la dignità di tutti i cittadini italiani, Le propongo di pubblicare un intervento del Presidente, il dott. Nino Cartabellotta, nel formato (intervista, articolo, altro) più idoneo alle esigenze della Sua rivista.
Per ulteriori informazioni: www.salviamo-SSN.it".



Non volevo crederci. A parte il 15 maggio, che già farebbe ridere. Ma di primo acchito ho pensato ad una sorta di "Scherzi a parte". Fortunatamente non avevo uno specchio, perchè forse lo sguardo era quello di Micheal Douglas in "Un giorno di ordinaria follia". Poi in realtà mi sono rincuorato. In fondo, grazie a quella e-mail, avevo trovato lo strumento migliore per sfogare l'irrefrenabile rabbia covata in quei 70-80' di attesa.
E ho così  risposto con una mia e-mail al collega estensore (responsabile ufficio stampa Fondazione Gimbe):

"Mi permetto un piccolo umile sfogo: sono al CUP dell'ospedale di Perugia, sto aspettando da 45' di pagare il ticket, ho il n.544 e dalle 13.30 ad ora (sono le 14.20) il timer e' passato da 500 a 522. Su 8 sportelli presenti solo 2 sono attivi e con ritmi da rag. Filini. Da giornalista non ho problemi a dare spazio alla Vs nobile iniziativa, da cittadino spero che il SSN chiuda al più' presto lasciando senza lavoro i dipendenti fannulloni e menefreghisti che mi stanno di fronte e soprattutto i loro superiori incapaci e i referenti politici che li hanno messi dentro al SSN.
Questo ovviamente senza polemica.
Grazie
P.s. Sara' mia premura svolgere un'indagine sul SSN in Umbria, temo che dopo il servizio saranno in pochi ad aderire alla Vs campagna. Lodevole ma un tantino utopistica.
Buona giornata (almeno a voi che non siete in fila da 50')".

La fila è durata fino ad un'ora e 20'. In mezzo due ragazze hanno provato anche a vendermi un cesto di frutta con ricavato in beneficenza, ma quando hanno sentito cosa avrei voluto fare con quelle pesche, sono state loro a chiedermi di non comprarle...
La fila l'ho conclusa con mia sorella - che al Silvestrini ci lavora - e che non ho visto così sorpresa di quell'immagine da "rifugio profughi del biglietto Cup".
Non ho motivo di dubitare che poi dentro gli ambulatori ci siano professionalità e sapienze tra le massime in circolazione. E che la nostra salute, ancora oggi, nel SSN sia in buone mani. Peccato che prima di arrivare a quegli ambulatori, la trafila sia estenuante e ti tiri fuori il peggio che gli istinti più reconditi potrebbero generare.
Stasera a casa magari ci riderò sopra. E domani, rileggendo questo pezzo-ricordo, mi sentirò un po' ridicolo e penserò quanto si rischia seriamente di "sclerare" di fronte ad uno sportello pubblico, in un pomeriggio d'estate a 36 gradi, circondato da altri cittadini col morale sotto le scarpe.
Però, anche a bocce ferme, non sarebbe male che un assessore, un consigliere regionale o comunale, un sindaco o soprattutto un dirigente Asl, facciano due passi per la sala Cup nelle ore di cambio-turno.
Così... tanto per avere un'idea... di come va il mondo.






lunedì 17 giugno 2013

Nando Rosati: un'intervista ricordo, di un personaggio "tutto d'un pezzo"

La notizia l'ho saputa da mio padre. Al telefono. Lui è fuori e credo gli faccia male non esserci per dargli l'ultimo saluto. Erano amici. Di quelle amicizie silenziose - come molte delle cose che appartengono a mio padre e che distano anni luce dall'esuberanza apparente di un figlio che racconta i fatti propri in un blog.
Fernando Rosati era un personaggio carismatico. 
La sensazione che ispirava questa figura enorme, nell'aspetto come nei principi e nella coerenza di vita, era di un gigante capace di gesti umili e veri. Attuati tenendo la schiena dritta, con un sorriso appena accennato, in un volto scolpito dalle esperienze della vita. E dalle difficoltà di dover sostenere opinioni, ideali e pensieri che per decenni, in questa città e in questa comunità, parevano del tutto estranei. 
Essere di destra a Gubbio per almeno 50 anni ha significato quasi essere additato in piazza. E allora, o quell'idea la tenevi per te, a vita, riuscendo ad esprimerla in un'urna (tra pochi intimi, fuori e dentro l'urna) o la esprimevi a testa alta, conscio dell'inevitabile ghettizzazione, dello scherno da bar, dell'ironia serpeggiante, cui il destino ti affidava. Solo perchè la maggioranza era con la testa (e in molti casi anche con le tasche e le convenienze) su altre sponde.
Nando Rosati non ha mai temuto nulla di tutto questo. Girava con la sua auto sportiva e con un adesivo, attaccato nel retro, in posizione defilata: recitava la formula "NON" - l'associazione degli ex prigionieri degli alleati che non avevano collaborato, rifiutandosi di rinnegare il proprio credo politico come comodamente la maggior parte degli italiani dell'8 settembre fecero. Scelta scomoda allora, in prigionia. E molto più nei decenni a seguire, una volta tornato a casa. 
Di lui sapevo qualche scampolo di racconto, centellinato a fatica da mio padre ogni tanto. 
Ma leggere questa sua intervista, sul blog di LiveGubbio, è stata una scoperta emozionante. Comunque la si pensi, un patrimonio di memoria e di ricordi, in uno spicchio di storia ancora fin troppo inesplorato, per quante centinaia di testimoni vi siano stati, sfuggiti alla possibilità di lasciare un proprio segno.
Questa intervista è preziosa. Perchè tanti, anche tra coloro che politicamente distavano e distano dalle idee di Fernando Rosati, potranno apprezzarne la fermezza, la coerenza, la fierezza, sempre espressa con grande compostezza e signorilità, che traspaiono dalle sue parole: una cifra morale che mantiene una sua identità, una sua straordinaria attualità. Perchè gli uomini "tutti di un pezzo" non appartengono ad un'epoca storica, ad un colore, ad un'ideologia. Sono testimoni perenni di un vivere sincero. 
Che oggi - diciamocela tutta - non è sempre facile rinvenire negli esempi più diffusi...


DAL BLOG DI LIVEGUBBIO.IT
Fernando Rosati è un uomo alto, dallo sguardo virile, il sorriso aperto e cordiale, e tutta l’aria di non voler tralasciare nulla del suo racconto. Mi offre un amaro ed estrae una piccola agenda riposta con cura, dalle pagine un pò ingiallite dal tempo, che sa di antico e prezioso. “Sì; qui ci sono custodite tutte le date e tutte le tappe della mia avventura chiamata guerra.”
A che età si è arruolato, Fernando?
"Sentivo che volevo andare a combattere ed a servire il mio Paese più d’ogni altra cosa al mondo. Sono scappato di casa a 16 anni per ben due volte. Mio papà mi ha riportato ogni volta indietro spiaciuto di questa mia intenzione; ma non c’è stato nulla da fare. Dopo aver frequentato il terzo magistrale, nel luglio del ’41 partii per la guerra in una batteria aerea in Sicilia; nel ’42 finii a Roma, in una compagnia di guardie a Piazza Venezia a causa della mia prestanza fisica.
Non ci volevo rimanere e con un escamotage mi feci inviare a Civitavecchia. Là occorrevano dei soldati che integrassero i morti in guerra della campagna russa; io facevo parte del 10 mo battaglione M e mi inviarono in Africa. Il bello deve ancora venire... Sì, il 4 febbraio del ’43 giungiamo a Tunisi; il 5 mattina a Sfax; poi andiamo a Gabes e la sera alla piccola Maginot".
Dove dormivate?
"A Maginot c’erano dei camminamenti in cui v’erano delle buche naturali. Dormivamo là, all’addiaccio. Ben presto sono stato ferito da una scheggia strappen, e così in primis mi hanno portato nell’ospedale di divisione; il 22 a Gabes; poi a Sfax; infine a Susa. Il 12 marzo, saputo che presto ci sarebbe stata una battaglia, decisi di scappare dall’ospedale per raggiungere Mareth. Il 18 giugno alla piccola Maginot ho combattuto la mia prima battaglia".
Cosa ricorda di quello scontro?
"La decimazione degli uomini; la morte tra le mie braccia del nostro tenente Sacchi, colpito in piena fronte che pochi minuti prima dell’attacco ci disse: 'ragazzi, il tradimento è chiaro'. Eravamo 200 uomini; rimanemmo una trentina o poco più.. Il 23 marzo decidemmo di ripiegare. Dopo, il 10 mo Battaglione dovette andare in forze ad una divisione in difficoltà; però subimmo di nuovo un bombardamento massiccio e ripiegammo su Infidel. Venimmo schierati nei pressi di un maniero, dove siamo restati sino al 13 maggio, giorno della resa".
Cosa mangiavate?
"Riso scotto con sabbia; uno schifo insomma. Poi una scatola di carne ed una galletta".
Cosa accadde nell’immediato?
"Abbiamo distrutto le armi subito dopo la resa, dopodiché venne chiesto dal comandante Baldanzi chi se la sentiva di andare con lui a Capo Bon per poter rimediare un mezzo di fortuna per raggiungere l’Italia. Io risposi che ero disponibile alla cosa; così prendemmo un camion abbandonato e dormimmo per due notti in una gabila araba arrivando solo in nottata a Capo Bon. Là ci eravamo nascosti in una 'casa matta', struttura costruita per il controllo militare. Il 16 maggio in seguito ad una spiata, fummo presi prigionieri. Dopo averci portato a Medieze-Al-Bab, vicino Tunisi per 15 giorni, e poi il 28 maggio a Sucheras, al confine con l’Algeria, di pomeriggio giungiamo a Costantina; lì, siamo stati consegnati agli americani".
Una svolta per lei importante…
"Indubbiamente mi è andata bene. Potevo finire in mani peggiori. Siamo partiti da Costantina con due soldati americani ed 8 prigionieri in ciascun camion. A Casablanca, giungemmo in un enorme campo di concentramento. Lì riconobbi Benvenuto Cacciamani. Io ero senza scarpe. Lui mi diede le sue. Portava il 39; io il 45. Fui costretto a rompere la punta di queste per poterle calzare. Era molto meglio di niente, le assicuro. Intanto fumavo sterco di cammello e nel mio diario personale in data 25 giugno scrivevo: FAME, FAME, FAME!"
Ma la situazione si sblocca presto
"Sì, l’8 luglio ci portano al porto; ci passano in rivista; salvai solo le M rosse, le mostrine, perché le nascosi…dentro la bocca! Pensi che mi avevano promesso 4 stecche di sigarette in cambio delle M. Si figuri; un fumatore come me che si attaccava persino allo sterco dei cammelli! Ma dissi no, decisamente!"
Dopo cosa accadde?
"Ci caricarono in una bella nave; poi in una liberty e così arrivammo a Boston. Eravamo 800-1000. Mi portarono nel campo a Como, nel Mississippi. Ci giungiamo dopo altri 2 giorni di viaggio. Scoppiarono a causa dell’omicidio di un mio amico per parte americana, dei tafferugli. Riuscimmo a sbattere fuori dal campo gli italo-americani che vi lavoravano. Questo venne circondato dalle camionette. A febbraio c’inviarono a Rhuston, in Louisiana, fino a marzo. Lì ci chiesero se volevamo diventare dei soldati collaboranti. Dicemmo di no e la mia vita cambiò radicalmente.
Giungemmo in un campo a 18 km da New Orleans. Lì aderimmo alla Repubblica Sociale. Seguono gli altri campi di Hereford, e Fort Bliss, entrambi in Texas, dove sono stato bastonato a sangue e perderò un polmone a causa di quella violenta lotta al mio rientro in Italia. Dopo altre vicissitudini, ci fecero salire su di un treno ed attraversammo mezza America per giungere a Seattle.
Passando per il Nevada, ed osservando l’immenso e sterminato deserto in cui vi era solo arsenale, non era difficile intuire chi avrebbe vinto la guerra e perché, mi creda! Carri armati, automezzi a perdita d’occhio in linea d’aria ed in profondità. Una cosa mai vista né immaginabile. Poco dopo il nostro arrivo a Seattle, ci venne comunicato che dovevamo partire per le isole Hawaii. Ci siamo ribellati violentemente perché le isole Hawaii erano zona di delicate operazioni militari, non ultimo il violentissimo attacco sferrato alla base di Pearl Harbor dai giapponesi, tempo prima..."
Come andò a finire?
"Ci caricarono a forza dentro ambulanze. 500 persone costrette a partire. Siamo sbarcati il 28 giugno del ’44 ad Honolulu. Ecco il pasto di un non-collaborante: pane ed acqua per 15 giorni e per gli altri 15 pasto normale".
Quanto durò il suo soggiorno forzato alle Hawaii?
"Sino al primo febbraio del ’46, quando la nave Meteora, alle 16:12 ci imbarcò per l’Italia. Eravamo 1000 ansiosi di tornare a casa".
Fernando, lei soldato non-collaborante guadagnava 3 dollari al mese. Come li spendeva?
"Oh, per me era semplicissimo. Mi volavano via dalle tasche; acquistavo sempre 3 pacchi di tabacco da 0,50 cents l’uno; un pacchetto di sigarette di fattura lunga; una saponetta Palmolive; il dentifricio, ed altri oggetti... Non mi restava mai nulla. Avevamo uno spaccio nel campo dove facevamo rifornimento".
Cosa è successo al suo arrivo in Italia?
"A Napoli, dopo lo sbarco, sicuri che eravamo gente ricca, ci avevano tagliato a metà il cappotto per rubarci il portafoglio. Poveri illusi! Non avevamo il becco di un quattrino. Dopo qualche giorno ho fatto rientro a Gubbio. Una volta a casa mi sono curato a lungo per circa due anni; pensi che pesavo 62 kg per 1,90 d’altezza".
Niente più scuola?
"No; e come facevo? Però in compenso ho avuto tante altre soddisfazioni dalla vita. Non ho mai dimenticato gli anni trascorsi in prigionia e mi sono subito attivato affinché il ricordo di allora non soccombesse al tempo. Le nostre riviste 'Volontà', e 'La tradotta di Bir el Gobi', ci aiutano a far rivivere quei momenti".

venerdì 14 giugno 2013

Quel punto interrogativo: da boutade a scottante attualità...

Ricordate lo scorso anno di questi tempi? Comparve in piazza Oderisi, nel centralissimo corso di Gubbio, un enorme cubo bianco con un gigantesco punto interrogativo per ogni lato verticale. La "trovata pubblicitaria" - legata alla Notte Bianca dello sport che sarebbe tornata, con grande successo, a settembre - suscitò più di un quesito, enigmatica com'era. Poi l'arcano fu svelato. Ebbene oggi quell'iniziativa assume quasi un significato profetico.
Perchè non solo in piazza Oderisi, ma in molte altre piazze, vie e vicoli della nostra città andrebbe esposto un enorme cartellone (o un altro cubo, se preferite, salvo problemi di traffico connessi) con tanto di punto di domanda.

Dove andremo a finire?
Questa è invece la domanda, sottintesa nel simbolo interrogativo, ma di stridente attualità, legata alla comunità eugubina. Che dopo quasi 50 anni si ritrova affidata alle direttive di un commissario prefettizio, con buona pace del voto degli eugubini, espresso appena 2 anni fa.
Senza tornare ai motivi e alle dinamiche, non poco controverse, che hanno decretato la caduta dell'esecutivo cittadino, la politica eugubina e più in generale la comunità è chiamata ora a pensare - e alla svelta - al futuro della città. Senza aspettarsi che il commissario da solo faccia miracoli, o tiri fuori da uno dei cassetti di Palazzo Pretorio la bacchetta magica.
Centro storico, Puc 1 (parcheggio San Pietro), Puc 2 (ex ospedale), revisione del Piano regolatore, valorizzazione dei contenitori e degli eventi culturali, pulizia e manutenzione delle strade, viabilità e salute pubblica, futuro del nuovo ospedale. L'elenco delle problematiche in capo alla residenza municipale potrebbe proseguire almeno per qualche altra pagina. Segno da un lato, che chi ha governato finora non ha risolto questi nodi. Segno al tempo stesso, che non potranno essere i prossimi 12 mesi a cambiare, come d'incanto, lo stato dell'arte.

La politica è uscita sconfitta dalla vicenda commissariamento. La politica non solo degli ultimi due anni, ma di un'intera stagione politica dagli anni Novanta ad oggi. La politica non solo dei partiti di maggioranza ma anche di quelli che in maggioranza sono stati e perfino di quelli che hanno soggiornato sempre nei banchi di opposizione. Nessuno, in parole povere, può dirsi estraneo alla debacle politica che dal 24 maggio l'appello senza risposta del presidente del consiglio comunale ha formalmente decretato.
Cosa accadrà in questi 11/12 mesi che separano la città dalle nuove elezioni è difficile dirlo. Di sicuro, Gubbio avrà bisogno di una nuova guida. Una guida autorevole, nella persona come nella squadra di governo, sostenuta da un partito o da una coalizione coesi e affidabili. Aperti al dialogo con la città, in tutte le sue componenti, capaci di individuare le reali priorità, di rappresentare la comunità eugubina autorevolmente anche fuori dai confini locali, autonomi come il ruolo politico-istituzionale richiede, ma non rinchiusi in ideologiche posizioni di principio che, oggi come oggi, alla città e al suo futuro non servono.

La crisi bussa alle porte molto più minacciosamente di quanto l'opinione pubblica sta avvertendo. Non solo per i venti nefasti che arrivano da Fabriano - dove al caso Merloni si aggiunge pesantemente il nuovo caso Indesit che coinvolge centinaia di lavoratori dell'Eugubino - ma per le prospettive di un'economia locale chiamata a non perdere la bussola e a cercare, come Diogene con la lanterna, quale possa essere la migliore direttrice futura.
Su tutto questo, il ruolo dei prossimi inquilini di Palazzo Pretorio sarà determinante. Più che in passato. Per evitare che la città si ritrovi con un cumulo di cubi e di punti interrogativi per strada...

mercoledì 12 giugno 2013

Quell'ultima intervista al dottor Ceccarelli...


Mi piace ricordarlo così, il dottor Mario Ceccarelli. La sua ultima intervista - forse anche l'unica conservando quanto fosse schivo dei riflettori. E' l'8 maggio 2011, da pochi minuti il Gubbio ha battuto la Paganese e ha conquistato la storica serie B. Nell'organigramma della società rossoblù c'è anche il dottor Ceccarelli come coordinatore del settore medico. Lui non era eugubino, ma aveva Gubbio e il Gubbio nel cuore. Così come nelle sue mani e nell'esperienza pluriennale di medico sportivo capace spesso di capire un problema anche con un'occhiata. O di sdrammatizzare una situazione con una battuta o un sorriso.
Se ne e' andato in silenzio, come in silenzio conduceva la sua attività professionale: nativo di Cantiano, residente a Perugia, aveva una sola passione sportiva. Di nome Gubbio.
Era stato anche responsabile medico della Pallavolo Gubbio negli anni memorabili della serie A (a metà anni Novanta).
Ogni volta che ci incontravamo era un'occasione per parlare di calcio, delle aspettative della stagione, degli obiettivi, delle piccole grandi soddisfazioni, che anche una semplice battuta sapeva regalare.
Tra tanti personaggi, ruotati intorno al calcio rossoblù in modo più o meno estemporaneo, il dottor Ceccarelli resta una figura di quelle da ricordare. Per le qualità professionali ma prima di tutto per una carica di umanità davvero generosa. E un'ironia che anche in questa intervista gli fece chiudere con la battuta: "Ce l'abbiamo fatta. Anche se con un polmone di meno...".

venerdì 7 giugno 2013

Quelle testimonianze che arrivano da lontano...


Qualche volta c'è bisogno di ascoltare la voce che arriva da lontano, per apprezzare di più quanto di grande abbiamo la fortuna di vivere e quanto di prezioso ci circonda.
Le testimonianze sono due. Diverse tra loro ma accomunate da un filo conduttore: la passione non solo e non tanto per la Festa dei Ceri. Ma per i valori che sa esprimere: scavalcando confini, varcando limiti, scavando nel cuore della gente. Pur con lingua e tradizioni diverse, riesce a farsi capire. E a diventare un'insostituibile esigenza emozionale...

La prima testimonianza è in una lettera - che ho scelto per la rubrica "La mia festa dei Ceri" nell'ultima puntata de "L'Attesa" 2013 - è l'ennesima dimostrazione. Arriva da Jessup, Pennsilvania, dove i Ceri sono solo una sbiadita riproduzione, in un paesino della periferia americana, di quanto accade ogni 15 maggio a Gubbio. Ma lo spirito, quello, non ha bisogno di architetture magnificenti. O c'è o lo devi simulare. Come forse in tanti sono costretti a fare laddove la pietra ne camuffa l'autenticità morale. La lettera non è in italiano perfetto. Ma traspare, limpida, una passione che è anche un messaggio. Di cui fare memoria e tesoro.

"Quest'anno per me e stato un anno che non posso dimenticare. A Jessup corriamo con la stessa passione che avete a Gubbio. Anno dopo anno andiamo avanti con forza e proviamo a fare la corsa più vicino come fate voi a Gubbio. Durante tutto l'anno abbiamo lavorato e abbiamo preparato per la statua di Sant'Ubaldo. Una settimana dopo i ceri ancora sto pensando allo spirito che abbiamo avuto sabato scorso. Quella bellissima statua che abbiamo ricevuto dalla Città di Gubbio e tutte le persone che hanno fatto la statua... ha portato qualcosa, per tanti anni, mancava qui a Jessup... lo spirito di Sant'Ubaldo. 


Quando ho visto tutti gli anziani che hanno portato quella statua pensavo che c'è qualcosa di molto particolare quest' anno... nel senso che pensavo che Sant'Ubaldo è stato a Jessup con noi per la nostra festa. Ovviamente, ci sono tanti immigrati qui che hanno la devozione verso Sant'Ubaldo, ma il giorno dei ceri, ogni persona sulla strada ha sentito quello spirito e quella passione. Qualcuno può vedere quello spirito e quella devozione negli occhi aperti e commossi di tutti i ceraioli e cittadini. 

Per me, e per tutti noi qui a Jessup, quest'anno è un simbolo della nostra amicizia tra Jessup e Gubbio. E la cosa più importante da capire è che S. Ubaldo assolutamente ha portato collaborazione e devozione per i santi e per la tradizione dei ceri oltreoceano. Ai  cittadini di Gubbio voglio dire.... vi ringraziamo. Questa festa antica sarà qui per l'eternità. 
Siamo due città, ma uno stesso cuore, una stessa passione. W. S. Ubaldo, S. Giorgio, S. Antonio!   

Michael Cappellini - Jessup (Pennsilvannia - Usa)


La seconda testimonianza è nella storia di un gruppo di turisti olandesi capitati quasi per caso a Gubbio il 15 maggio 2006. Invitati ad una festa che forse consideravano una delle "solite rievocazioni italiche", ne sono rimasti letteralmente folgorati. E da quel 2006 non sono voluti mai mancare.
Quella che si vede infatti è una semplice foto di gruppo davanti alla statua di S.Ubaldo, in cima a Corso Garibaldi, il 15 maggio 2013. 

Che c’è di particolare?  Nulla in apparenza, in realtà qualcosa fuori dall’ordinario c’è eccome, qualcosa che testimonia il profondo legame per i Ceri di Gubbio, di alcune persone che, pur essendo nate a migliaia di chilometri di distanza e senza avere alcun familiare o antenato di origini italiane, tanto meno eugubine, non hanno potuto fare a meno negli ultimi anni di essere qui a festeggiare.                                                                                                                  
L'alzata del 2006

Capita, nell’ormai lontano 2006, che il signore terzo da destra nella foto, signore olandese che chiamiamo Rens, viene invitato ad assistere alla festa del 15 maggio. E’ una giornata bellissima, piena di sole e del consueto calore eugubino; lui sa già molte cose sull’evento, ha letto molto e visto tanti filmati, ma niente vale l’esperienza diretta. 
Durante la processione dei santi, la sera di quel 15 maggio 2006, la promessa che non sarebbe più mancato negli anni a seguire. “Cose che si dicono sempre”, pensano i presenti. Invece no, da quell’anno l’amico Rens si è presentato puntuale all’appuntamento di Gubbio, insieme con le figlie Lou e Robin e tanti amici eugubini con cui rimane in contatto durante l’anno. Non fa dunque eccezione neanche quest’anno. Il gruppo si è puntualmente ricomposto, insieme con un  altro amico, Paolo, anche lui “eugubino d’adozione” per il 15 maggio. 
Niente di meglio quindi, di un bello scatto collettivo, da dedicare ovviamente alla città tanto amata.                                                                                                                                                                                          


mercoledì 5 giugno 2013

Gubbio, un video mozzafiato... e la voglia di volare alto!

E' esattamente quello che ho pensato vedendo in anteprima questo video di Claudio Sannipoli. Spettacolare e mozzafiato, proprio come i soggetti protagonisti delle riprese.
Già, perchè il segreto di questa clip non è solo nell'estro di chi l'ha creata, nella fantasia di chi l'ha immaginata, nella sensibilità di chi l'ha confezionata. E nella tecnologia che ha permesso di apprezzare scorci altrimenti sconosciuti. Il quid in più è semplicemente lì: si chiama Gubbio.
E ciò che ho pensato in quei minuti in cui il filmato veniva proiettato alla Sala Trecentesca, davanti ad un pubblico estasiato da tanta inedita magnificenza, è in realtà un desiderio: che questa città, così ricca di passato e così svuotata di presente, trovi la forza, le energie, i saperi, le personalità... per tornare a volare alto...


A confermare l'assunto e l'istintivo auspicio è arrivato anche il prezioso volume. Che poi dà il titolo alla clip che ho postato e che Claudio Sannipoli ha sapientemente elaborato: "La Platea comunis e i Palazzi pubblici di Gubbio". Un'opera monumentale, in tutti i sensi, firmata da Gaetano Rossi e Spartaco Capannelli, per le foto di Paolo Tosti. Una pubblicazione eccellente - cui ho voluto dedicare una puntata del mio "Link" -per raccontare e ricostruire con certosina precisione i tanti segreti che ancora oggi l'acropoli trecentesca eugubina conserva.
A cominciare dal suo progettista - Angelo da Orvieto e non Gattapone, come per decenni si riteneva. Per proseguire con quei meandri che le pietre austere e paterne del Palazzo dei Consoli continuano a custodire. I passaggi secretati dai quali i Consoli - le figure massime della Gubbio comunale del XIV secolo - erano chiamati a percorrere per "non avere contatti con il popolo, dal quale dovevano restare immuni".
Chissà oggi, se un costume così antico fosse ancora in auge, quanti farebbero la fila per diventare amministratori pubblici...
Ma il volume dei due architetti in realtà dovrebbe ispirare qualcosa di altro. Qualcosa di alto. Qualcosa di più consono al valore immortale di questa pietra.

Rinnovare la candidatura di Gubbio, dell'acropoli eugubina, come patrimonio materiale dell'Unesco è un percorso difficile, tortuoso, oggi come oggi improbabile - visto che all'interno del suo Palazzo Comunale non c'è più neppure un'amministrazione. Ma è doveroso che chi andrà a raccogliere le redini del Commissario, tra un anno (e guardate che un anno passa in fretta...), dovrà tra i suoi punti prioritari, porre la svolta che il tempo chiede per il centro storico eugubino.
Un suo innalzamento, nel valore e nella riconoscibilità - che non sia semplicemente legato ad una fiction tv - e un nuovo modo di interpretarlo e di viverlo da parte degli Eugubini stessi.
Volare alto, significa che noi per primi dovremo spingere questa sfida oltre l'ostacolo: dimostrando di meritare, nel nostro precario presente, di godere di un così alto passato.
L'alternativa sarebbe lo spopolamento e il degrado definitivo: cioè rinnegare ciò che Gubbio è stata e quei pochi motivi che ancora oggi ci rendono orgogliosi, di appartenervi...

domenica 2 giugno 2013

Dopo una giornata interminabile, il ricordo di una foto... E la riscoperta di un abbraccio

Festa dei Ceri fine anni 70 -
macelleria Pompeo, a San Martino
I pensieri di questa sera cominciano da qui. Da questa foto postata da mio cugino qualche settimana fa su facebook.
Siamo noi, fine anni 70. Noi nipoti, appena quattro degli undici che c'erano (o sarebbero stati, forse allora un paio dovevano ancora venire al mondo) e che regalavano il sorriso ai miei nonni materni, Pompeo Pierucci "d'Arcangiolino" e Artemia Sannipoli "de Moscone". L'ingresso e' quello della macelleria che ancora oggi porta il nome di mio nonno, nel cuore del quartiere di San Martino.
Lui, 'l sor Pompeo, con cravatta impeccabile e grembiule candido, somiglia più ad un primario di ortopedia che non ad un macellaio. E in realtà era un artista prestato all'artigianalità e alla norcineria. Non a caso amava la musica, era una colonna della banda musicale cittadina e per 35 anni è stato il trombettiere della Festa dei Ceri.
Insomma quel clichè così poco comune in una macelleria, suonava tutto sommato normale, per chi era cresciuto immaginando di gestire una boutique di tipicita' (cosi' amava definirla), più che una bottega (come invece la chiamava la nonna, più pragmatica e meno incline alla poesia della vocazione artistica).
E' un giorno dei ceri piccoli, quello della foto, e come spesso avveniva, eravamo insieme ai nostri nonni a San Martino. Io con mio fratello (che oggi abita in quella che era una meta costante dei nostri giochi e di tanti gesti affettuosi), Ettore con Lucia (già sufficientemente saggia e ribelle da indossare la camicia Santantoniara).

Il 15 maggio 2005: quando ancora
giocava solo col mazzolino...
Ripensavo a questa foto durante la giornata di oggi. Mentre insieme al mio Giovanni attraversavamo le tappe di una carrellata di emozioni che forse, chissà, tra qualche anno lui avrà la bontà di rammentare (con o senza blog). Forse per la sveglia inedita (le 4 o poco più, tra ansie e impazienze anche eccessive), forse per la maratona da tamburino (sfiancante), forse per quella prima spallata sul corso (carica di fibrillazioni per lui e soprattutto per me): così agitati eravamo che ad un certo punto Giovanni è perfino riuscito a farmi notare una mattonella che "balenava" (e pensare che le hanno risistemate solo un mese fa) temendo che potesse creargli qualche problema. O per la pioggia che ci ha colto sul monte dove, spontaneo e aulico come sempre, mi ha esclamato: "Babbo ma "in queste condizioni" non si può prendere il cero..." (mi son messo a ridere...). Poi lo ha fatto ugualmente, anche perchè ha visto che punta davanti di San Giorgio "c'era addirittura una femmina".

Cambio perfetto...  e via! Giù per S.Maria (1)
Oggi ho scoperto un nuovo abbraccio. O meglio, ne ho riscoperto uno antico, dal sapore un po' appannato negli anni. Ma sempre vivo. Quello paterno. E quello di un nonno che ti aspettava a casa o in macelleria, per accoglierti a braccia aperte. L'ho scoperto e riscoperto, al tempo stesso, perché nuovo - per la prima volta da padre, dopo la spallata del figlio - perché legato a quella pellicola sotterranea di ricordi cui bastava poco, forse, perché tornasse a girare di nuovo.
E quell'abbraccio, misto alle lacrime di mio figlio (forse per scaricare le emozioni, la tensione, le paure, gli eccessi di chi, spesso, complica la vita ai più piccoli ceraioli intralciandone la spontaneità), è il patrimonio emozionale più intenso che mi lasciano i Ceri del 2013.
Tra una marea di soddisfazioni, spicca proprio questa scoperta. Che è pure una riscoperta. Complice una foto, un po' ingiallita, degli anni 70. Complice, soprattutto, quel cordone ombelicale invisibile che lega le generazioni, ti guida nel cammino degli anni a conservare e innovare le tradizioni, il loro spirito. Ti spinge e ti incoraggia a tenere viva una fiamma. Quella dell'esempio. Vissuto, raccontato e tramandato.