Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

giovedì 27 settembre 2018

"Buon giorno, Preside..."

NOVEMBRE 1989-
Uno schiamazzo al piano di sopra: si sente correre. Arriva trafelato un bidello: "I soliti!" esclama, indicando di fuori.Ed eccolo comparire: braccia ai fianchi, occhi quasi sbarrati (un'espressione consueta tra lo stupore e l'insofferenza), passo risoluto e solite parole: "Oh, allora! Cos'è questo bailamme!".
Il prof. Gennaro Pinna, preside del Liceo Ginnasio "Mazzatinti" di Gubbio ha lasciato il suo incarico, per raggiunti limiti di età: sicuramente il suo abbandono ha lasciato un vuoto in chi lo ha conosciuto abbastanza, per apprezzarne l'operato, nonchè lo spirito di abnegazione con il quale interpretava il suo ruolo.Quello di preside sembrava fatto apposta per lui. E il prof. Pinna in fondo lo amava, pur deprecandone i sacrifici che imponeva. La sua veste era del tutto particolare: le sue sentenze, i suoi consigli, le sue "minacce" così apparentemente severe, ma velate di un compiaciuto sorriso. Per noi del III A (il cronista ha avuto la fortuna di farvi parte) il Preside non era certamente un personaggio qualsiasi.Non potevamo identificarlo con un professore, non aveva l'intenzione di apparirlo, non aveva il cinismo per esserlo: ne aveva il carisma, quello sì. Sapeva convincerci, noi: quegli "scalmanati" del III A, così impulsivi, riuscivamo ad ascoltare le sagge parole di chi, rimproverandoci, ci apprezzava.Il Preside, così apparentemente burbero e talora aggressivo nei nostri confronti, amava quel suo III A, tanto irruento quanto riconoscente.
A volte perdeva la pazienza: erano le sue giornatacce, le sue ore nere. Prometteva sospensioni a destra e manca (lui le chiamava "decimazioni"), pur sapendo che non lo avrebbe mai fatto.
Neppure quando a Roma dopo la visita ai Musei Vaticani, ce la svignammo in quattro per andare a vedere all'Olimpico Italia-Olanda, salvo poi ritrovarlo su tutte le furie alla stazione Termini a prometterci che gli esami non ce li avrebbe fatti neppure annusare.
Non aveva quello spirito un po' cinico di mantenere certe minacciose promesse: in fondo ci conosceva abbastanza per sapere che non sarebbe stata l'ultima volta a dirci certe cose.
Ricordo quando, lungo un corridoio, procedeva lentamente, durante l'intervallo: sorridendo, braccia conserte, ci squadrava, tutti insieme in un angolo, intenti ad escogitare una delle nostre.
Sapeva che con lui, lì presente, saremmo divenuti innocui. Ecco, aveva una grande dote, non sempre diffusa tra i professori: di "ammansirci", ma ugualmente di capirci.


Una versione di greco, un tema svolto male, un'interrogazione puntigliosa: ogni argomento era buono per ricorrere alle parole del Preside che sapeva rassicurarci, dall'alto della sua indiscussa esperienza: ci rasserenava e ci tranquillizzava, anche in vista degli esami. Forse gli piaceva quella sua veste un po' paterna, a scuola. Ci si era affezionato.
Ora noi, da "bravi" liceali, siamo usciti: e nel mezzo di queste così insolite e lunghe vacanze (estate '89) non poteva non colpirci la notizia che il prof. Pinna aveva appeso tutti i suoi consigli, le sue sentenze, le sue "sgridate" per una giustificazione "traballante"... tutte al chiodo.
Tanti ragazzi sono passati al Liceo con lui: molti sicuramente lo ricorderanno nello "schizzo" di apertura. Queste poche righe - più che un ricordo - vorrebbero esprimere un GRAZIE. Sia per le calorose parole, sia per le quotidiane "sfuriate" (era sempre colpa nostra!") così cariche di autentica sensibilità.
Qualche tempo fa l'ho incontrato per strada passando col mio Sì blu "tappezzato" di adesivi: mi ha visto e ha sorriso. 
Ho fatto appena in tempo a solfeggiare un "Buon Giorno, Preside". Già come ogni mattina, quando arrivavo puntualmente... alle 8.35 e lui sborbottava insofferente: "Oh Marinelli, questa sveglia non funziona?". Stavolta però è stato diverso.
Quel "Buon Giorno Preside" deve avergli suonato nostalgico. Immagino una di quelle sorprese e compiaciute espressioni, che ogni pimpante 40enne imbastisce non appena gli si accenna che dimostri 20 anni!
Sì, per noi il Prof. Gennaro Pinna è rimasto il Preside. Lui magari dirà di non meritare neppure queste poche righe: ma tutto quello che è stato per noi, non poteva restare chiuso in un cassetto universitario, sotto forma di diploma...

PS: Sabato 25 novembre 1989 si è svolta al Liceo Ginnasio "Mazzatinti" una piccola ma significativa "cerimonia" di saluto (un "arivederci") al prof. Pinna: purtroppo, non sapendolo, la sua affezionata III A (e soprattutto chi sta scrivendo) non ha potuto prendervi parte. Non è questa una "excusatio non petita" (come la definirebbe il nostro Preside) ma una sincera e dispiaciuta... assenza "giustificata".



PPS: questo pezzo lo scrissi nel novembre di 29 anni fa, pochi mesi dopo la maturità. E lo regalai al Preside, qualche tempo dopo, sapendo che lo avrebbe letto. Non avrei immaginato che lo conservasse tra le cose a lui più care. Poche settimane fa la prof.ssa Matilde Pinna, sua figlia, me ne ha fatto omaggio di una copia che conservava tra i libri della sua sconfinata biblioteca. Ricordavo di averlo scritto ma ho dovuto rileggerlo e l'emozione, di un salto all'indietro di quasi 30 anni, è stata forte. 
Ho aspettato questa giornata, che ha visto la consegna delle borse di studio a lui intitolate (nella foto alla Lumsa), per condividerlo con lo sparuto pubblico di questo blog. Rinnovando il mio GRAZIE al nostro indimenticabile Preside. 

venerdì 30 marzo 2018

Un 19 marzo che sa di festa speciale: dedicata a mio padre... e all'azienda di famiglia

Avrei potuto festeggiare la "festa del papà" con una foto. Ne ricordo una che mi ha fatto sempre sorridere. Avrò avuto 7-8 anni e insieme a mio fratello, di 3 anni più piccolo, ero accartocciato su mio padre, credo nel divano del salotto. L'ironia nasceva dai volti, da quel bianco e nero consumato, da quello sguardo un po' ombroso, che non ho mai riconosciuto in mio padre. Con un look da boss della Magliana che offriva appena un accenno di sorriso ai suoi pargoli.
Invece preferisco sceglierne un'altra di foto. Molto più recente.
E' di lunedì 19 marzo. Quando sono capitato alla nuova stazione di servizio dell'azienda di famiglia, la SEP. Nel primo giorno di apertura,
Una sortita veloce, sotto un cielo un po' grigio, di una giornata che invece sapeva di "ossigeno puro": quasi una liberazione da un'attesa burocratica di mesi, una maratona ai limiti dell'assurdo, finalmente conclusa.
Ecco, la foto che voglio regalarmi per la "festa del papà" è un pezzo della sua vita. E di quella di suo padre, il nonno Stefano, che con la moglie Anna, fondò esattamente 50 anni fa questa azienda.
Che oggi, giunta alla sua terza generazione, compie un altro passo avanti. Un investimento importante, che in parte è un ritorno alle origini.

Per la verità in mezzo ai carburanti mio nonno ha cominciato a starci quasi un secolo fa, quando tornato poco più che ventenne dalla Prima Guerra Mondiale, con i soldi della liquidazione, si comprò un autocarro per i primi trasporti, e poi aprì un distributore di benzina niente meno che al centro di Corso Garibaldi, nella piazzetta di S.Antonio (quando il destino...).
Per la verità in quegli anni (Venti-Trenta) fare il pieno ad una delle poche vetture in circolazione (forse non si arrivava alla dozzina in tutta Gubbio) era un vero avvenimento: roba da radunare i curiosi intorno all'auto di passaggio quando la pompa entrava in azione. Oggi a ricordarla una gigantografia che campeggia proprio su un angolo della nuova stazione di servizio, sovrastando la colonnina elettrica: quasi che il passato che ancora riesca a vegliare sul futuro.

Poi la storia imprenditoriale del nonno, trasferita a mio padre, è passata attraverso altre stazioni di servizio, come quella Shell di fronte all'Hotel San Marco, e quindi dopo la nascita della SEP nella zona del Pinolo, che fu anche una delle primissime stazioni di servizio (non solo carburante ma anche assistenza e officina) in tutta l'Umbria. Quella che ho conosciuto nei miei anni infantili e adolescenziali, assaggiando quell'odore di benzina che ho sempre adorato, con quella fragranza acre e aggressiva capace di avvolgere l'olfatto come un'iniezione di energia.

Ricordo i pomeriggi d'estate trascorsi all'API di via Porta Romana, nell'ufficio presidiato proprio dal nonno Stefano, che siedeva all'ingresso, camicia arrotolata sulle maniche, pantaloni vita alta, e occhi  verde azzurro limpido (che purtroppo, quello no, non sono riuscito a ereditare). Squadrava silenziosamente ogni cliente sapendo dentro di sè il grado di affidabilità di ognuno: un parametro da Basilea 2 incentrato sullo sguardo, gettato da cima a piedi, e sulla stretta di mano che, a quei tempi, valeva come un contratto attestato in uno studio notarile. Altro secolo, verrebbe da dire...
Ricordo quando tredicenne mi divertivo a scarabocchiare qualche documento che mio padre o mia madre mi avevano insegnato a compilare.
E iniziavo a prender confidenza anche con qualche computer: di quelli che si rivedono solo nei documentari commemorativi di Steve Jobs, pesanti come marmo, con quello schermo grigio ornato da sottili crittografie verdi o arancio. Che diventarono più familiari qualche anno dopo, quando su quegli stessi arnesi cominciai a digitare i miei primi articoli. Senza sapere che da lì, da quel pezzo di vita di mio padre, sarebbe iniziata l'altro pezzo di vita. Quello che poi mi è appartenuto in questi ultimi 30 anni. Scrivere.

Ecco dunque il regalo (e l'immagine) che più si addice a questo 19 marzo.
La prima pagina di un nuovo capitolo nel cammino dell'azienda di famiglia: dove in fondo il mio babbo - l'ho chiamato sempre così (altro che papà) - ha trascorso la gran parte della sua esistenza. E lo fa ancora oggi. Costruendo qualcosa di importante. E voltando pagina dopo aver lasciato le redini a mio fratello Stefano. In un certo senso, perchè, proprio come l'altro Stefano (suo padre), non riuscirà mai a staccarsi davvero da quel piccolo tempio. Di lavoro, di professionalità, ma anche di dedizione e sacrificio.


PS. In fondo queste righe sono anche un timido tentativo di farmi perdonare. Per non essere mai riuscito a far parte fino in fondo di quel mondo. Nonostante ne sia straordinariamente orgoglioso...
Come deve esserlo stato il nonno Stefano: nell'osservare la semplice ma significativa inaugurazione di qualche giorno fa, alla quale hanno partecipato anche Sindaco e Vescovo.































Racconto fotografico, immagini by Giampaolo Pauselli

martedì 13 marzo 2018

Dal reportage di Purgatori alle parole del generale Cornacchia: quanto pesa il caso Moro ancora oggi

La storia si può raccontare in tanti modi. Preferibilmente dando voce ai testimoni. Quando non addirittura ai protagonisti. Anche se questi hanno avuto un ruolo negativo. L'importante è tenere ben visibile il confine che la storia indelebilmente ha tracciato: ad esempio, tra carnefici e vittime.
Ci ripensavo ieri sera, guardando la prima parte dello speciale di La7 "Atlantide", curato da Andrea Purgatori, giornalista e scrittore che ebbi la ventura di conoscere a Fiuggi nell'autunno 2006 - durante la settimana di conclave che generalmente organizza l'Ordine Giornalisti con tutti gli "aspiranti" professionisti, prima di sostenere l'esame di Stato a Roma. Personaggio stimolante, anche se talvolta non condivisibile nei modi e nelle opinioni. Ma questo non ne scalfisce la grande caratura professionale, l'indubbia capacità comunicativa e l'abilità esplorativa di un vero maestro d'inchiesta.

Il suo speciale sulle "Verità nascoste sulla morte di Aldo Moro" - andato ieri con la prima parte (la seconda sarà domani sera, lo dico perchè tanto non ha bisogno della mia pubblicità) - regala uno spaccato decisamente interessante sugli anni di piombo. Perchè a raccontarli sono coloro che li resero cruenti, tragici e, speriamo, irripetibili.

Degli anni '70 potremmo rimpiangere tante cose. Io ero un infante, ma il sound di certe "creazioni" musicali dell'epoca ancora lo ricordo, a bordo della Opel Record di mio padre, grazie ad un mangianastri che divorava enormi mattoni chiamati cassette musicali TDK. Roba che oggi non entrerebbe neppure in un cartongesso.
Quel che di certo sarà difficile rimpiangere è proprio quell'atmosfera "di piombo" che gravava, soprattutto nelle grandi città, lasciando spettri e incertezze sul futuro. Sintetizzabile in un dato: 428 morti, oltre 1.000 feriti in circa 14.000 attentati. Praticamente ogni giorno si sparava da qualche parte.

L'apice però fu il caso "Moro", col rapimento e poi l'uccisione del presidente della DC, nel giorno stesso in cui il Parlamento avrebbe dovuto dare la fiducia al Governo DC sostenuto dal PCI, voluto fortemente dallo stesso Moro. Un giorno che invece sarebbe stato vissuto in modo angosciato da tutti. Almeno da tutti quelli che temevano che non solo la Democrazia Cristiana, ma la stessa democrazia fosse in pericolo.
Quella Renault 4 rossa, ritrovata poi due mesi dopo sempre a Roma, e preannunciata da una telefonata anonima, fu come un macigno che sbarrava la strada al futuro della libertà stessa della nostra Repubblica.

Tanto si è scritto e detto sui retroscena di questa parentesi di storia modena (e domani sera Purgatori ne traccerà sicuramente un profilo interessante ma che c'è da crederci, farà discutere).
Una pagina relativamente recente. Appena 40 anni fa. Che in quanto tale, nelle scuole difficilmente diventa materia di discussione e tanto meno testo di esame.
Per quelli della mia generazione Aldo Moro non fu solo colui al quale fu intitolata la propria scuola elementare, ma la prima vera tragedia di cronaca vissuta davanti al piccolo schermo. Ad rimbalzare il proprio sguardo un po' incredulo, un po' inconsapevole, tra i collegamenti in bianco e nero di un Paolo Frajese ansimante, e i volti esterrefatti e stranamente ansiosi in famiglia, da chi di solito seguiva un tg più per commentare, e magari apostrofare il politico di turno (come faceva mio nonno ad esempio, con Pannella) che per seguire davvero le notizie di cronaca.
Il generale Antonio Cornacchia
Sarà per questo che mi sono appassionato a quel decennio, dedicandoci attenzione, qualche approfondimento, diverse interviste.
Una in particolare. Quella con il generale Antonio Cornacchia: un signore distinto, dall'accento meridionale ma umbro d'adozione, tutto d'un pezzo, come si addice ad un generale dei Carabinieri. Che in vita sua ne deve aver viste tante.
Se è vero che è colui che aprì il bagagliaio della Renault 4 rossa di via Caetani, svelando il plaid sotto al quale giaceva il corpo di Moro; se è vero che è colui che catturò il bandito Renato Vallazasca, intavolandoci un dialogo a distanza con cui lo convinse ad arrendersi; se è vero che è colui che fu tra i più acerrimi oppositori della banda della Magliana.
BR, Vallanzasca, Magliana. Tutte pagine di storia e di cronaca che forse i più giovani conoscono grazie ai moderni strumenti di divulgazione storiografica: la fiction. Bella, accattivante, coinvolgente, ma forse poco propensa a quel ruolo didattico che si addice invece ad un libro di storia.

Ecco, Purgatori quella storia se l'è fatta raccontare dai brigatisti. Operazione audace, forse discutibile, provocatoria, controcorrente ma anche interessante. Per conoscere anche la voce di chi sta dall'altra parte. E non per ascoltarne le ragioni. In fondo è tutta gente che da anni sta fuori dal carcere. E non per colpa di Purgatori.
Un'unica avvertenza. Le interviste, intese come testimonianze, possono anche starci. Purchè - e sottolineo purchè - ci si ricordi sempre del confine: la linea di demarcazione, magari ideale purchè chiara e indelebile, che c'è e deve restare. Tra vittime e carnefici. Le prime, troppe volte dimenticate, a cominciare dai media. I secondi troppe volte esaltati, e non solo dai media. Ma anche da una intellighenzia da salotto che spesso preferisce affiancarsi qualche "reduce" a cinque stellle (quelle delle BR, per non confonderci con le Cinque Stelle di oggi) in veste di eroe, che magari il figlio o nipote di chi ha dato la vita per servire il propri Paese.
Un po' quel che mi disse proprio Antonio Cornacchia in quell'intervista del 2010 a TRG, che sono andato a ripescare proprio da questo blog, con una frase che mi è rimasta impressa in modo lapidario:

Antonio Cornacchia recentemente ha presentato il libro "Airone 1" (il suo nome in codice): e ho avuto la fortuna di intervistarlo, ancor prima della pubblicazione del libro, per "Link" la scorsa primavera.
Cornacchia mi confidò fuori dal microfono: 

"Non era il rischio della vita o magari uno stipendio misero, le cose che ci rattristavano. Era vedere che spesso la gente ci considerava aguzzini mentre dava degli eroi a persone che non rispettavano la legge, uccidevano e rapinavano. Spesso nei film o nelle ricostruzioni che vengono fatte ancora oggi in tv, si sente ancora questa assurda distinzione, che ribalta completamente i punti cardinali della verità: da una parte c'era la giustizia, il diritto, lo Stato, le regole; dall'altra la sovversione, la delinquenza, l'arbitrio".

Ecco, senza mai perdere di vista queste sue parole, quasi a perimetrare l'alveo dentro al quale una vicenda drammatica come gli Anni di Piombo continua a rappresentare nel difficile cammino del nostro Paese, ho guardato per intero la prima puntata dello speciale di Purgatori. E l'ho trovato inquietante, nel senso letterale del termine: non per lo stile, anzi molto dinamico e autentico, ma per la relativa (e a tratti irritante) naturalezza con cui i brigatisti intervistati (da Moretti a Gallinari, da Fiore a Morucci) raccontavano le proprie azioni criminose, descrivendo con fare meccanico, i movimenti, i preparativi, le strategie messe a punto per tentare l'assalto a quel nemico giurato chiamato Stato.
Mario Moretti, oggi: condannato all'ergastolo, è in semilibertà
Senza un minimo cenno di rimorso, senza pentimenti, senza un pensiero, neanche per un istante, per le loro vittime. E per quelle famiglie letteralmente decapitate in nome di una assurda ideologia.
Una ricostruzione incompleta, si potrà dire. Può essere. Di certo una ricostruzione parziale (cioè di parte), con la sola voce dei brigatisti. Che può disturbare, apparire irriguardosa soprattutto verso i familiari delle vittime. Ma che sul piano della ricostruzione, in una chiave alternativa, può starci.
Purchè - sempre quel purchè - sia completata anche da altre voci. Da chi, oltre quella barricata, ha pagato con i vuoti della propria vita, le loro scellerate e criminali congetture.
Per non rischiare che il telespettatore perda di vista la bussola della storia.
Quella bussola per cui c'erano persone che rischiavano la vita per difendere le Stato. E altre, i protagonisti di questo documentario, che sparavano per abbatterlo.
Oggi che quella guerra è finita, anche se a raccontarcela sono i brigatisti, possiamo ribadirlo: è andata bene.

domenica 18 febbraio 2018

Un pomeriggio al carcere. Per raccontare il mio libro. Per uscire diverso da come ero entrato...

L’aula era quella di una scuola di periferia. I banchi, piccoli e lucidi, come fossero le elementari. Una cattedra con la sedia diversa dalle altre, quasi a differenziare, come sempre avviene, il ruolo di chi si siede lì. Rispetto a chi lo ascolta.
Ho avuto un paio di minuti, non di più, per osservare questa scena, che subito sono arrivati: entrando uno ad uno, mi si sono presentati, porgendomi la mano, e abbozzando un lieve sorriso. 
Come se mi conoscessero. O se magari stessero pensando, se fossi davvero io il tizio che aveva scritto il libro che avevano appena finito di leggere. 
L’accento campano, più o meno lo avevano tutti. Poi magari venivano dagli angoli più disparati di quella straordinaria regione, che come nessun’altra, è carica di contraddizioni. Prima fra tutte, l’umanità sconfinata della gente e l’ineluttabilità di migliaia di destini.

L’aula era quella della sezione scolastica del carcere di Spoleto, loro i detenuti del settore “media detenzione”. Che detto così non vuol dire nulla, per chi arriva da fuori. Magari alla sua prima visita.
A quasi un anno dalla prima presentazione, mi sono trovato a parlare di “Nel segno dei padri” di fronte ad una quindicina di persone recluse chi più, chi meno, da qualche buon lustro. 
L’incontro in carcere, organizzato dall’associazione “FulgineaMente” di Foligno, nella sua meritoria azione sociale anche all’interno delle case circondariali, lo aspettavo da quando mi era stata definita la data. Ricordo che ad accennarmelo fu Ivana Donati, tra le animatrici del gruppo, con un messaggio che mi arrivò mentre andavo a Treia, a trovare mio figlio al campo scout. Era l’agosto scorso. Da quel giorno, non vedevo l’ora che arrivasse questo giorno. Semplicemente perché non sapevo cosa aspettarmi.
Ho parlato del mio libro, della storia di Guglielmina e Peter, davanti ad ogni tipo di pubblico: da ambasciatori a studenti, da storici a intellettuali, da politici a gente comune. Ho visto la commozione di qualche ottantenne, che ha rivissuto la sua infanzia. Lo stupore di qualche ventenne che credeva fosse la trama di un film. L'emozione di un quarantenne, che pensando al proprio di figlio, si è lasciato trasportare nei flutti di questa storia.
Ma erano tutti liberi. Liberi di ascoltarmi o di andarsene a metà incontro. Liberi di andarsi a vedere i luoghi narrati dal romanzo, piuttosto che dimenticarlo 5’ dopo il nostro incontro.
Loro no. 
E non sapevo neppure come iniziare. Che mi metto a dire? E se mi capita di parlare di libertà? Mi sono chiesto ingenuamente. Proprio con chi la libertà non ce l’ha o addirittura, in qualche caso, non l’avrai mai più?
Il problema me l’hanno risolto subito. Per la prima volta, tra le decine di presentazioni che ho avuto la fortuna di presenziare, da Gubbio alla Sicilia, da Roma a Napoli, non ho avuto bisogno neanche di fare introduzioni: dopo una brevissima premessa di Luciana Speroni, che ci accompagnava, me e Franca, sono subito partiti loro. Con le domande. Una di fila all'altra. Quasi insaziabili. Fantastico. Sono loro che hanno rotto il ghiaccio. Prima che la temperatura di quelle aule scendesse da sola.

Mi parlavano di quella storia che doveva essere mia ma che improvvisamente mi sembrava quasi distante. Perchè per come descrivevano i personaggi che li avevano colpiti, i fatti che erano rimasti impressi, le sensazioni che aveva generato "Nel segno dei padri", avevo come la sensazione che mi raccontassero una storia loro. E ad ogni domanda, inconsciamente, mi chiedevo, cosa abbia davvero dato loro questa vicenda, questo libro, vissuto come tutti gli altri, dietro queste sbarre. Cosa sia rimasto loro.

Ad un certo punto, spiegando che in fondo Guglielmina e Peter si erano incontrati scoprendo di aver vissuto la stessa vita, e dunque capendosi proprio per questo, uno di quegli improbabili “alunni”, tra i più veterani, a guardarlo di prim'acchitto, Lino (nome di fantasia) mi fa: “In fondo questa storia è anche un po’ la nostra. Chi potrebbe capire quel che proviamo qui dentro? A chi potremmo spiegare cos’è la vita qua dentro, se non ad un altro che sta qui?”.
L’ho guardato fisso negli occhi. Poi mi ha confidato di essere un "senza fine pena" (ergastolo). Questa frase mi ha colpito come un tuono. Ho accennato col capo ad una condivisione. Ho capito che in quel libro aveva colto anche un pezzo della propria storia. Il respiro mi è tornato dopo un po’. Anche se ho nascosto quel tumulto, rispondendo ad un’altra domanda. Una dietro l’altra, mi circondavano di quesiti, nessuno banale. Con una curiosità sincera, che si toccava. Con sorrisi accennati, quasi di complicità incipiente. 

C’è pure chi mi ha chiesto di Gubbio, della fontana dei matti. E di come funzionasse questa storia che ti danno la patente. Che poi con Guglielmina e Peter non c’entrava nulla. 
C’è chi ha parlato della libertà. E di come “anche il cielo ha un colore diverso, fuori di qui. L'ho capito la prima volta che sono uscito per una breve licenza”. 
E c’è chi mi ha chiesto di tornare. Per raccontarmi anche la sua storia. “Anche se forse non interesserebbe a nessuno”. “Perché no?” gli ho ribattuto, riferendomi alla sua storia. Sarei rimasto delle ore a parlare con loro.

In carcere però anche il tempo è contato. Ci aspettava un altro incontro, in un’aula non distante. Stavolta con appena 4 detenuti. E anche noi eravamo quattro. Non ho mai avuto un contatto così diretto, immediato e coinvolgente con il mondo del carcere.
Ci ero stato una sola volta, a Capanne, per un motivo decisamente più evasivo: una partita di calcio tra giornalisti, detenuti e consiglieri comunali perugini. Lasciamo stare le ironiche battute che potrebbe fare qualche lettore, ma fu un bel pomeriggio di sport e socialità. Però con i i detenuti non scambiammo nemmeno una parola: sia perché la metà di quella squadra era magrebina (qualcuno con una fascia bianca penzolante in testa che ricordava le immagini dei kamikaze sui film del Medio Oriente) sia perché quando giochi a calcio, pensi a giocare e a divertirti. E se c’è spazio per un tackle, non c'è sicuro per farsi una riflessione.
A Spoleto è stato diverso. Nel secondo incontro si è parlato solo in parte di “Nel segno dei padri”: uno dei quattro detenuti è in realtà diventato scrittore dietro le sbarre. Ne ha scritti 36 di libri, in quasi 30 anni (mi ha confidato che è lì dall’88 e che uscirà nel 2020). Si è parlato tanto e il freddo pungente di quell’aula angusta, pur penetrandoci minuto dopo minuto, non faceva una grinza. “Vorremmo far capire a chi sta fuori che noi siamo persone. Persone che hanno pagato fino in fondo il proprio debito con la giustizia” ha detto. Quasi presagendo i pregiudizi con cui dovrà fare i conti tra due anni, quando la parola libertà, per lui, tornerà ad avere un senso.

Chi è vittima e chi carnefice? Un interrogativo che diventa dilemma quando un’esperienza come questa ti tocca nel profondo. E ti lascia l’immagine più umana di chi, prima di entrare lì, ha sicuramente commesso degli errori. Anche gravi. Anche arrivando a mutilare l’esistenza altrui. Rovinandola per sempre. Mai dimenticarsi delle vittime.
Ma di uomini comunque parliamo. E l’uomo è ciò che comunque resta da salvare – o se possibile, recuperare - quando ci si macchia anche della più ignobile delle azioni.

Uscendo, con Franca e Luciana, insieme a Maria e Alessandra, giovanissima scrittrice che come me è arrivata un giorno per caso da queste parti, e ora sta ciclicamente svolgendo un’attività di riflessione insieme ai detenuti, abbiamo parlato di questo pomeriggio, a dir poco inusuale. E di quanto incontri come questo sappiano dare. Energia, emozione, consapevolezza. Più di quanto non si sia coscienti di aver dato, a persone che forse attendono come un vaticinio l’arrivo di qualcuno che semplicemente parli con loro.

Neanche per un minuto mi sono chiesto quali reati abbiano commesso per essere lì. Che senso avrebbe saperlo? Il solo chiederlo, finirebbe per presupporre un giudizio. E per vacillare sul sottile cornicione che si affaccia nel baratro del pregiudizio.
Non mi importa sapere il nome di queste persone, la loro fedina penale, i loro trascorsi. Magari qualcuno potrei rintracciarlo anche su google. 
Che differenza fa? Ho parlato con quella costola di umanità che mi interessava conoscere. E che mai avrei sospettato potesse così fortemente turbarmi. Con quegli sguardi, un po’ curiosi, un po’ affannati, che a tratti accennavano un sorriso ironico, ma anche amaro, che continuerò a portarmi dentro. In attesa magari di un’altra sortita. Perchè dopo che sei stato lì, per una volta, tempo un paio d'ore, quando esci, non è più lo stesso. E forse neanche tu, sei più lo stesso.

“Se vuoi, io sono qui. Tanto non mi muovo” mi ha detto Lino prima di salutarmi, stringendomi la mano. Non so quando, ma sento che ci rivedremo.

martedì 30 gennaio 2018

Perchè non sentire anche un po' "nostro" questo 29 gennaio?


Ci sono date che hanno fatto la storia. Altre appartengono alla nostra suggestione: come il 29 gennaio, come lo straordinario gioiello architettonico di Castel del Monte, opera voluta da Federico II di Svevia e avvolta ancora oggi in più di un interrogativo. 
C'è un solo documento di epoca federiciana riguardante il monumento ed è un mandato del 29 gennaio 1240, con il quale il sovrano nato a Jesi, da GUBBIO, ordinava a Riccardo da Montefuscolo, Giustiziere di Capitanata, di acquistare calce, pietre e quant'altro fosse necessario "...pro castro quod apud Sanctam Mariam de Monte fieri volumus".
Non è chiaro se il magnificente castello fosse già in costruzione, o fosse già progettato. E' uno dei tanti misteri che avvolgono questa spettacolare perla architettonica che dal 1996 è giustamente iscritta tra i Patrimoni dell'Umanità, tutelati dall'Unesco.


Tra gli interrogativi che avvolgono e affascinano i visitatori di Castel del Monte, anche le sue forme ottagonali: ottagonali la struttura centrale, come anche le colonne che uniscono le mura perimetrali. Ma anche otto sale al piano inferiore, otto al piano superiore, e una vasca ottagonale al centro del cortile interno.



La forma ottagonale è simbolo di resurrezione, ovvero di mediazione tra la terra e il cielo. Una forma che si ritrova diffusa in chiese e battisteri, nella Cappella di Aquisgrana dove Federico viene incoronato Imperatore, così come nella moschea di Omar visitata dallo stesso durante il suo viaggio a Gerusalemme.


Ma la forma ottagonale è anche quel linguaggio simbolico e architettonico da cui nascono, un paio di secoli dopo Federico II, le forme dei Ceri. O meglio, da cui non possono non essere nate quelle forme che, come dimostrato dal prof. Paolo Belardi nella splendida pubblicazione "Divinae Proportiones", la forma dei Ceri richiama geometricamente e scientificamente i geni dell'arte e della scienza più eccellente dell'epoca, con miriadi di esempi. E con la certezza che un manufatto così perfetto e ligio alle leggi della proporzione, non possa essere stato realizzato da semplici mani artigiane.

Da Gubbio in Puglia: quante analogie architettoniche e filosofiche con quelle forme ottagonali, che dalle nostre parti sono molteplice testimonianza di storia, arte, tradizione. "E che non possono essere considerate semplici manufatti artigianali, ma autentiche opere d'arte: perchè nate dal pensiero e dal progetto" (Paolo Belardi).
Da un Federico (Hoenstaufen) all'altro (Montefeltro), il mistero si fa più intenso ma anche intrigante...
Ce n'è abbastanza per sentire anche un po' nostro questo 29 gennaio...