Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

martedì 7 marzo 2017

Se un blog diventa il tuo diario: ma con le parole di chi ti guarda

Un blog è anche un luogo dove poter incasellare, senza un ordine preciso, pensieri e commenti che vagano in rete. E magari riguardano te.
Come questa recensione. La prima in ordine di tempo, sul mio libro "Nel segno dei padri".
Quello che mi colpisce delle parole di Roberto Russo, blogger specializzato in recensioni letterarie, sono i tempi: perchè il libro è uscito il 9 febbraio. E la sua recensione ha la stessa medesima data.
Che non l'abbia letto?
Assolutamente no. Lo si capisce da cosa scrive, da come lo scrive. E dall'impatto di chi lo legge.


Una storia minore, forse, rispetto alla grande Storia della seconda guerra mondiale e probabilmente proprio per questo più interessante. Giacomo Marinelli Andreoli in Nel segno dei padri racconta una triste vicenda avvenuta a Gubbio (Perugia) durante il secondo conflitto mondiale, ma il cuore del suo libro non è là, ma nell’incontro tra le persone.
L’antefatto è che il giorno 20 giugno 1944 a Gubbio Kurt Staudacher, medico tedesco, venne ucciso mentre si trovava in un bar. Per rappresaglia vennero giustiziati quaranta uomini della città, quelli che oggi sono conosciuti come i Quaranta martiri. Si trattò del fatto di sangue più grave di tutta l’Umbria nel periodo dell’occupazione. Una rappresaglia «caduta come un macigno sulla città umbra negli ultimi giorni di occupazione prima della ritirata a nord della Wehrmacht. Una strage scaturita proprio nelle ore in cui Perugia veniva liberata dagli Alleati». Questi sono i fatti, comuni, purtroppo, a molte altre zone d’Italia.
Gli anni passano, diventano decenni, e Peter figlio del medico tedesco decide di fare un viaggio in Italia. Passa per caso dalle parti di Gubbio e gli viene la curiosità di andare a vedere il luogo in cui suo padre è stato ucciso. Fino ad allora, sapeva solo che il suo genitore era stato ucciso in quella città. Nient’altro. Chiede qualche informazione, incuriosito dal nome della piazza («Quaranta martiri») che reca come data il 22, due giorni dopo la morte di suo padre. Va al cimitero, inizia a capire cosa accadde e poi si reca al Mausoleo. Lì gli è chiaro quanto accaduto. Sua moglie Ursula lo esorta a lasciare un messaggio sul registro dei visitatori. Racconta l’autore:


[Peter] si girò e fece per uscire, quando Ursula lo fermò. Lo trattenne per un braccio, e lo fissò: «Non possiamo andarcene…».
E tenendolo forte, quasi per trasmettergli quell’energia che sentiva addosso, gli disse, a voce bassa, ma inflessibile: «Non sapevamo nulla di tutto questo. Ma tu, qui, ora, non sei più un estraneo».
«Che vuoi dire!?» riuscì a bisbigliare, mantenendo un tono di voce timido, rispetto all’infinità che lo circondava.
«Devi lasciare un segno, qualcosa. Qualcosa di tuo» rispose Ursula. «Non possiamo andarcene così».
Ed è qui che entra in gioco Guglielmina Roncigli che a quel tempo era presidente dell’Associazione Famiglie dei Quaranta Martire (di cui era stata, tra l’altro, fondatrice). Vede la scritta sul registro e cerca di mettersi in contatto con Peter. Tramite una ricerca che smuove anche il Vaticano ottiene l’indirizzo e gli scrive. Guglielmina era figlia di Vittorio, uno dei Quaranta martiri. Come Peter aveva un anno quando suo padre venne ucciso per rappresaglia. Due destini separati, ma anche uniti in una maniera del tutto misteriosa.
Si incontrano, Guglielmina e Peter, dinanzi alla tomba di Kurt, traslata nel cimitero militare germanico di Pomezia. Poche parole, dovute anche alle difficoltà linguistiche, ma l’inizio di un nuovo cammino. Quello di una pacificazione interiore che entrambi cercavano. Non dovevano certo perdonarsi, loro, o chiedere perdono. Del resto, erano innocenti vittime di quanto successe in quel lontano giugno 1944. Eppure l’anelito a fare qualcosa, a porre, in un certo senso, la parola fine a quanto accadde, era forte in loro.
Scriverà in seguito Peter a proposito di questo incontro:


Sopra la tomba di mio padre la foto ci mostra come due bambini persi, diventati vecchi, che si incontrano la prima volta dopo una lunga vita, passata separatamente, per riconciliarsi l’uno con l’altro. Pur non avendo commesso niente che meriti una riconciliazione.
Giacomo Marinelli Andreoli racconta la storia come una cronaca (è giornalista). Ma non una cronaca cruda: mette insieme gli elementi e, con tratto sapiente, li anticipa ma non li racconta. E così facendo cresce la tensione della narrazione e, con i due protagonisti, siamo raggiunti da tante emozioni.
La storia, vera, è venuta alla luce perché Guglielmina ne ha parlato con l’autore e poi, sul letto di morte (avvenuta per tumore il 5 febbraio 2012) gli ha lasciato le lettere che si era scambiata con Peter chiedendo che la storia di quell’incontro e di un sì insolito carteggio non andasse perduta. Una vicenda la cui memoria non è andata smarrita, anche grazie ai figli di Guglielmina, all’autore del libro e alla volontà dei protagonisti.
Una storia marginale, quella raccontata nel libro Nel segno dei padri, ma di fondamentale importanza. Anche ai nostri giorni in cui il muro contro muro è la norma. Guglielmina e Peter, invece, scelgono la strada del dialogo. E Giacomo Marinelli Andreoli racconta i loro passi nel libro Nel segno dei padri. 
Da leggere. In silenzio.

lunedì 6 marzo 2017

Perché è bello anche rileggersi... attraverso una recensione che non t'aspetti


Comincio ad affezionarmi a leggere le recensioni sul mio libro. Un'altra delle novità cui questa esperienza mi predispone, aprendomi parentesi inedite, conoscenze nuove e lo stimolo, perché no, a rileggere anche in forma critica il mio lavoro. Ma al tempo stesso a pensare, sempre perché no, ad una "nuova avventura".

Intanto però mi piace conservare una delle recensioni a margine del mio libro. Che, a quanto pare, viene letto nel giro di 2-3 giorni dalla maggior parte di chi mi chiama o mi confida le proprie sensazioni. Il che è già un ottimo riscontro, considerando che ho sempre misurato con questa speciale bilancia temporale la qualità e la "scorrevolezza" di un manoscritto: se finisce un libro in pochi giorni vuol dire che ti ha rapito, vuole dire che ti ha coinvolto, vuol dire che è un bel libro.

Ed ora la recensione. Che come spesso mi capita, finisce per farmi notare aspetti, particolari e dettagli
che neanch'io, fino in fondo, avevo considerato...

"Ogni scelta che facciamo è figlia di mille spinte, emozionali e razionali. Non sempre vince la più corretta e non sempre la più corretta è la migliore.
Nel libro "Nel segno dei padri" ci sono due scelte. 
La prima è quella che ha dato inizio a tutto e ha spinto la protagonista del libro ad affidare all’autore la sua storia e il suo vissuto. “Non possiamo starcene seduti a fissare le nostre ferite per sempre”, scrive lo scrittore giapponese Haruki Murakami. “Dobbiamo alzarci e passare all’azione successiva”. Sarà stata forse questa la sua personale motivazione.
La seconda è quella dell’autore, che forse spinto dall’ineludibilità del destino assegnatogli dalla ferma decisione della protagonista, si è trovato coinvolto in una storia che sentiva il bisogno di raccontare.
La novità tuttavia sta nella maniera in cui l’autore, conterraneo della protagonista, racconta la storia. 
“Quando guardo un tramonto, non dico: ‘Ci vorrebbe un po’ meno arancione nell’angolo a destra e un po’ più di viola nelle nuvole’”, diceva lo psicologo Carl Rogers a proposito del modo in cui osservava il mondo. “Non cerco di controllare il tramonto”, proseguiva. “Lo guardo con soggezione”. E pensava la stessa cosa delle persone. “Una delle esperienze più gratificanti”, diceva, “è contemplare un individuo come contemplo un tramonto”. 
Ecco, nel suo libro Giacomo ha brillantemente sperimentato il metodo di Rogers: si è astenuto dal cercare di “migliorare” le persone, limitandosi a vederle e apprezzarle per quello che sono, senza giudizi.
Mi sentirei di dire che il viaggio cambia l'uomo e il punto di arrivo sembra così lontano. Ma la meta non è' un posto ma quello che proviamo e non sappiamo dove né quando ci arriviamo".