Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

martedì 31 luglio 2012

Il Gubbio riparte dalla contestazione... ma è tempo di reset. Le parole di Sottil, la sua voglia di vincere sono la nuova bussola...

La B è volata via come un nostalgico ricordo e si riparte... dalla contestazione.
Non tutti gli anni possono rinascere nel giubilo. Non sempre la colonna sonora della stagione che ci si lascia alle spalle è scandita dalle bandiere al vento, dalla fiumana di tifosi che gremisce piazza 40 Martiri, dal "fante" ridipinto di rossoblù, da una città ebbra di gioia.
Certo, una via di mezzo - tra l'euforia e la rabbia - è sempre consigliabile. Ma evidentemente la ferita della retrocessione (a 20 anni esatti dall'ultima patìta dal Gubbio in un campionato professionistico) è ancora aperta. E ce ne vuole di cicatrene per farla rimarginare.

Non ero al "Barbetti" ieri sera (ho visto le immagini della presentazione che andrà in onda giovedì sera su TRG1 - canale 111), ma è come se mi fosse giunta l'eco degli improperi - fin troppo ingenerosi - piovuti in apertura all'indirizzo del presidente Marco Fioriti. La gloria non è un diamante che si consegna ai posteri, sperando ne facciano buon uso (male che vada, finisce in una cassetta di sicurezza e comunque si rivaluta). Nel calcio rappresenta uno dei beni più effimeri e volatili che esistano: dura lo spazio di una stagione, di un girone di andata, talvolta perfino di una domenica.
La memoria corta tradisce sugli spalti molto più di quanto non rischi di fare l'art.91 della legge 81 con il quale migliaia di calciatori ogni anno salutano allegramente le squadre di cui fino a qualche istante prima baciavano la maglia giurando amore eterno.
Nel caso della parabola rossoblù l'analisi andrebbe fatta a ritroso - ma per questo basta leggersi il capitolo di questo blog dedicato specificamente alla Gubbio calcio, ci sono quasi 200 post, prendetevi un po' di ferie e risfogliateli.
12 maggio, a Padova la retrocessione
diventa matematica (foto Settonce)
Sintetizzando brutalmente la questione, il Gubbio ha vissuto la sua favola da serie B, ha commesso errori pacchiani nella gestione iniziale, in quella transeunte e in quella finale, non sottovalutando ad esempio l'ultimo mese di campionato nel quale i rossoblù affidati ad Apolloni si sono giocati anche un terz'ultimo posto che ad oggi, potenzialmente, varrebbe ancora l'ipotesi ripescaggio (noi lo dicevamo a maggio/giugno ma qualche collega ci derideva... tra un po' finiranno per ridere a Vicenza e a Nocera Inferiore...).
Nel pentolone delle responsabilità vanno "mescolate" tutte le componenti, ognuna con le proprie colpe: la società, lo staff tecnico-manageriale, lo staff tecnico, quello medico e ovviamente non ultimi, i giocatori, ai quali fin troppi alibi - ad esempio il turn over in panchina diventato insopportabilmente alto in primavera - hanno finito per coprire le spalle.
A salvarsi sono stati solo e soltanto i tifosi che - dopo aver firmato una cambiale in bianco ad agosto con oltre 2.500 abbonamenti - almeno fino a inizio maggio (Gubbio-Juve Stabia) hanno gremito all'inverosimile lo stadio eugubino, credendoci sempre e sostenendo la squadra. Alla fine hanno dovuto mollare anche loro, aggrappandosi timidamente alla speranza ripescaggio, che col passare delle settimane estive si è fatta via via sempre più flebile.
Tutto questo è palese: come lo è il fatto che è ormai il momento di gettare il pentolone nell'Rsu, mettersi alle spalle la stagione di B e guardare avanti.
In questo senso il pienone sugli spalti del Barbetti è rinfrancante: sarebbe stato peggio che non ci fosse stata la contestazione... perchè non c'erano più i tifosi...

Il quadro è chiaro, e paiono chiari anche i motivi per i quali ieri sera l'accoglienza è stata la stessa che Aronne Piperno riceveva dalle finestre della Roma del settecentento del "Marchese del Grillo", mentre veniva portato alla gogna.
Uno sfogo che è stato letto e interpretato in modo esemplare da neo allenatore Andrea Sottil: "Sono venuto a Gubbio proprio per questo - ha dichiarato indicando il pubblico - una piazza calda, capace di entusiasmarsi ed entusiasmare la squadra. Noi lavoriamo per riuscire a ricucire questo feeling".
E dentro di sè, sono certo, il trainer ex Siracusa è convinto di riuscirci. Pur non avendo mancato di evidenziare nei giorni scorsi che al puzzle eugubino mancano ancora tasselli importanti che si aspetta di ricevere da qui a inizio campionato (2 settembre).

Andrea Sottil con una tifosa d'eccezione
E sono proprio l'equilibrio, l'intelligenza, la caparbietà, la "voglia di arrivare" del nuovo tecnico, i punti cardinali di una bussola che dovrà essere lo strumento chiave del nuovo Gubbio.
Mescolando la "vecchia guardia" ai nuovi arrivati, quei veterani che in B non sono riusciti a coagulare lo spogliatoio - trovandosi forse più a disagio lì dentro che non in mezzo al campo - con ragazzi emergenti che certamente in Lega Pro troverebbero meno imbarazzo ad esprimere la propria esuberanza e le proprie qualità balistiche.
Si riparte da Gubbio-Juve Stabia, amichevole di domani.
Personalmente si riparte da dove eravamo rimasti (quella gara, di lunedì sera, è l'ultimo che ho seguito dal vivo la scorsa stagione).
Il pubblico ha detto la sua, chiedendo chiarezza (in particolare sui conti e sugli obiettivi stagionali) e pretendendo impegno. E' suo diritto farlo, come suo dovere farlo in toni civili e improntati sempre al dialogo. Perchè se è vero che il Gubbio non è di nessuno, ma di tutti, è altrettanto vero che chiunque non può neppure sentirsi padrone di denigrare chi, nel bene o nel male, ha contribuito alle fortune rossoblù degli ultimi tre anni.

Ora si riparte, si azzera tutto (o quasi). E' un altro Gubbio, con un'altra guida - dalle prospettive interessanti - e un gruppo che merita un altro clima, rispetto a quello iniziale di ieri sera, tale da poterlo sostenere davvero.
Come ho sempre ripetuto, al momento del commiato, nella mia trasmissione della scorsa stagione - una fantastica esperienza professionale, che proprio per questo non penso che ripeterò - "nonostante tutto, e a prescindere dai risultati, i nostri colori sono e resteranno sempre gli stessi: il Rosso e il Blu!".
Sono certo che è così anche per tutti i veri tifosi del Gubbio...

domenica 29 luglio 2012

L'importanza di avere... le armi giuste. E un debutto olimpico così è da incorniciare...

E poi saremmo un popolo di "pacifisti"? Non alle Olimpiadi. Non stando alla prima giornata più gloriosa della storia delle Olimpiadi azzurre. Tiro con l'arco, tiro a segno, tiro di scherma. E' tutto un tiro (senza molla), con un florilegio di armi varie, antiche e moderne insieme, quello che agghinda subito il medagliere azzurro proiettandoci al secondo posto assoluto dietro ai marziani della Cina.
Non sono passate 24 ore dallo spettacolare brindisi d'augurio della fiamma olimpica londinese - fantastica la scenografia della rivoluzione industriale, geniale la scenetta della Regina in versione paracadutista, irresistibile il mr.Bean al pianoforte (mi sarei aspettato un ricordo di Freddy Mercury...) - che la bandiera italiana sventola seconda assoluta nel medagliere, preceduta solo dal colosso d'Oriente, praticamente inarrivabile anche per gli statunitensi.
Consoliamoci: l'Italia ha un ventesimo della loro popolazione e dunque la leadership dei pronipoti di Mao ci può anche stare.
Piuttosto è la tradizione, fusa con le novità, delle discipline vincenti, che non appare estemporanea.
Come gli allori nella scherma, secolare serbatoio di successi, che fanno di Jesi, cittadina a un'ora da qui, la capitale mondiale del fioretto. Dopo Cerioni e la Trillini, è stata Valentina Vezzali la grande regina della specialita. E alla sua quinta Olimpiade ha infilato il quinto podio consecutivo: le è mancata la ciliegina sulla torta (quarto oro) che potrebbe però ancora arrivare nella gara a squadre. Lei, Valentina, ha idealmente ceduto lo scettro alla concittadina Elisa Di Francisca, ma l'impresa della pluridecorata fiorettista-ballerina (non sono ancora dimenticate neppure le sue performance allo show della Carlucci) vale quanto un oro.

Quella medaglia strappata con le unghia e con i denti, recuperando 4 stoccate negli ultimi 12 secondi di gara alla sprovveduta sud-coreana di turno - in qualunque disciplina gareggiamo, c'imbattiamo in un paio di occhi a mandorla, è matematico... - sono l'emblema di come la classe cristallina, la grinta proverbiale e la "fame" di podio fanno della Vezzali un vero monumento olimpico azzurro. Altro che portabandiera di riserva...
Ci sono medaglie che profumano d'immenso a prescindere dal loro colore. Il cui peso specifico ribalta la teoria dei metalli.
Come fu per il bronzo di Yuri Chechi, ad Atene (dopo il bruttissimo infortunio che gli aveva negato le Olimpiadi ad Atlanta 4 anni prima). Ci sono medaglie che vorresti toglierti di dosso e gettarle vie, per il rammarico che si trascinano dietro: come l'argento della Errigo, la più giovane delle tre fiorettiste azzurre - e dunque quella che potenzialmente ha più possibilità di rifarsi in futuro. "Sono una pippa" ha scandito a caldo dopo la finale. Per fortuna non parlava lei, ma la sua rabbia. Se è una fuoriclasse - come credo - saprà tramutarla in grinta e lucida aggressività già dalla sfida a squadre. Ma il futuro è con lei.

La medaglia delle sorprese è quella degli oversize: la squadra di tiro con l'arco, a vederla così sul podio, sembra un club di braccio di ferro o un trio di vecchi amici di Ginnasio, che si ritrovano per la cena dei 20 anni dagli esami. "Panza" pronunciata, pizzetto sorridente e gaudioso, ma una mira infallibile, capace di stendere Cina, Messico e alla fine Usa, con la "freccia della vita" che è toccata a Michele Frangilli, il più veterano, quello che di medaglie al collo nel aveva già tre, che ha tenuto a bada il sangue bollente o il braccino corto e ha centrato quel dieci maledetto per questione di millimetri. In fondo la gloria non chiede tanto margine, le basta un soffio per andarsene o restare...
Nella patria di Robin Hood sono tre che somigliano più a Little John, o tutt'al più a parenti di Fra Tac. Ma tant'è... E la storia di Pietro Suk, l'allenatore della nazionale azzurra, coreano d'origine, concentrato e sorridente al tempo stesso, capace di consolare con la parola giusta il proprio arciere dopo l'errore e ignorarlo dopo il 10: "Perchè il sorriso, dice, vale di più nei momenti di difficoltà...". Saggezza d'oro...

E infine l'argento del tiro a segno, specialità che fa somigliare gli atleti in pedana a pazienti in attesa della visita oculistica. L'argento è inaspettato, il protagonista è Luca Tesconi, uno che a Londra non doveva neppure starci - se si guardano i risultati dell'ultimo anno, quando non è mai andato oltre 10mo posto. Ma il tecnico azzurro (Valentina Turisini) lo ha fortemente voluto, un po' alla Bearzot, una di quelle scommesse - come fu Pablito nell'82 - giocate con il tutto per tutto (o meglio l'uno contro tutti) e alla fine ripagate dalla medaglia. Che anche qui non conta nella sfumatura cromatica, ma nel traguardo. 

L'Olimpiade riconcilia con lo sport, si usa dire. Con le vittorie ci riesce anche meglio. L'obiettivo per Londra resta quota 25/30 (dichiarata dal presidente del Coni, con spregio della scaramanzia), per gli ori il sogno è toccare la doppia cifra. Resta un'impresa, anche dopo questa giornata inaugurale.
Di certo, comunque andrà, questo sabato di fine luglio ce lo ricorderemo a lungo...

giovedì 26 luglio 2012

Il senso autentico delle Olimpiadi... anche in uno spot....

Alla vigilia dell'apertura di quelle che sono già state ribattezzate le "Olimpiadi della crisi", mi piace condividere con i frequentatori - assidui e non - del mio blog, un filmato che ho avuto l'occasione di visionare alcune settimane fa.
D'accordo, è uno spot. E dunque la finalità - alla fine dei conti - è commerciale. Non lo pubblico, per questo, è ovvio. Anzi, se devo essere sincero, l'appendice conclusiva con gli sponsor è l'unico neo di una clip che altrimenti contiene un volume così straordinariamente elevato di sentimento, emotività e passione, da diventare una sorta di must quotidiano. Guardarselo ogni giorno per capire quanto sudore si nasconde dietro ogni traguardo...
E proprio perchè si tratta delle "Olimpiadi della crisi" - dopo i fuochi artificiali cinesi, le evoluzioni di Atene e le paillettes di Atlanta - forse congiuntura vuole che ad essere riscoperti siano quei valori olimpici che sono - o dovrebbero essere - alla base delle motivazioni che muovono l'immenso circo a cinque cerchi.
Sappiamo che non sarà solo questo, e nessuno si illude di tornare agli albori del 1896 o allo spirito Decoubertiniano (men che meno a quello dell'antica Atene).

Ben Anslie, olimpionico della vela
il primo tedoforo in terra britannica
Ma intanto non dimentichiamoci, a poche ore dall'apertura dei giochi londinesi, che dietro ogni partecipante, ogni numero, ogni batteria, sfida, duello o competizione, si nasconde una vita di impegni, abnegazione e sacrifici. E senza retorica, anche la speranza e le aspirazioni - non solo di un Paese che hai la fortuna e l'orgoglio di rappresentare - ma anche di chi silenziosamente ti sta accanto... E (senza forse) svolge lo sport più difficile e impegnativo al mondo: quello di "essere genitore".
E' il mio augurio olimpico, semplice e sincero: vivere questa fantastica avventura con lo spirito gioioso che sta nel suo prendervi parte (anche solo da spettatore). Perchè nessuna somma di denaro, nessun business, nessuna scommessa sportiva (regolare o non) potrà ripagare la gratificazione di una medaglia. Per chi la indossa e per chi la festeggia.

Valentina Vezzali, portabandiera azzurro
Sta anche in questo segreto la gloria di discipline sportive di cui ci si accorge (purtroppo) solo ogni quadriennio, tradizionali serbatoi di vittorie azzurre: la scherma, piuttosto che il tiro a volo, tanto per citarne due non a caso.
Finchè sarà così, finchè lo spirito di questa affermazione - che è innanzitutto esserci, e poi se ci scappa, salire anche sul podio - le Olimpiadi continueranno ad avere senso di esistere. E a dare senso a queste due settimane ogni quattro anni...

Saranno anche le prime Olimpiadi del mio blog... magari cercherò di metterci un po' del mio in queste due settimane di intense emozioni...

mercoledì 25 luglio 2012

La crisi imperversa: Tremonti ha la sua "Uscita di sicurezza"... (stasera in diretta su TRG - ore 21.15)

"Un gigantesco videogame". Un labirinto infernale nel quale il Teseo di turno si trova di fronte un minotauro, lo batte e subito dopo ne esce fuori uno ancor più grande, inferocito e pericoloso. E il filo d’Arianna ancora all'orizzonte non s'intravede.

La crisi mondiale secondo Giulio Tremonti – ordinario di economia ed ex ministro economico di quattro governi di centrodestra – non è una fatalità congiunturale. E neanche una sorpresa.
Perché già nel 2008, alla vigilia del crac del colosso Lehman Brothers, scriveva “La paura e la speranza", un libro dedicato ai rischi della new economy, allo sbilanciamento da brivido tra volumi di somme a decine di zeri quasi impronunciabili che diventano il flusso quotidiano di scommesse finanziarie e gli equilibri delicati dei bilanci dei singoli stati, che finiscono per diventare il serbatoio di copertura degli speculatori.
Non è bastata quella pubblicazione – marchiata come un volume da "Cassandra" – e non sono bastati richiami anche scritti ai vertici della troika economica e politica europea e internazionale.
Il 2008 ha prodotto solo il primo effetto domino, partito dagli Usa e poi riverberatosi in Europa. La medicina però – scrive Tremonti in “Uscita di sicurezza” – si è gradualmente trasformata in malattia essa stessa, una patologia con cui oggi, quotidianamente, governi e cittadini, intesi come risparmiatori, si confrontano in un clima surreale di psicosi da spread – un termine che fino ad un anno fa era conosciuto da un fazzoletto di esperti e non tormentava il sonno di decine di milioni di persone.

"Mettere l’ordine al posto del caos; separare l’attività produttiva dall’attività speculativa; chiudere la bisca della finanza, in modo che siano i giocatori e non noi a pagare per le perdite sulle puntate; ristabilire il primato delle regole; pensare a investimenti pubblici in beni di interesse collettivo. Solo così, mettendo la ragione al posto degli spread, l’uomo al posto del lupo, il pane al posto delle pietre, si può uscire da questo mostruoso videogame in cui siamo entrati senza capirlo e senza volerlo".
Oggi mezza Europa è in bilico, la stessa moneta unica è in bilico e il dramma è che non esiste un soggetto identificabile contro il quale condurre un’azione politica, economica e strategica: il quadro thriller di oggi è la risultanza di una metamorfosi che ha visto capovolgersi negli anni il ruolo tra la politica e la finanza. In un ventennio, dall’inizio dei Novanta, "la politica ha appaltato i suoi lavori all’economia, che a sua volta li ha subappaltati prima al mercato e poi al mercato finanziario". Nella cieca convinzione che il mercato da solo potesse autodisciplinarsi, correggere il tiro laddove fosse stato fuori misura. Così non è stato, anzi la zona grigia che si è creata ha dato campo libero alla forma più esasperata di speculazione, ai prodotti derivati che hanno impennato i rischi, con una formula subdola: a guadagnare, a scommettere, erano e sono ancora oggi in pochi, ignoti e avidi avventurieri chissà da quale latitudine capaci di condizionare i listini di tutto il mondo; a pagare il conto sono invece tutti gli altri, perché ad essere aggrediti sono i debiti pubblici, sono le casse degli Stati, o quel che ne rimane. Di quell’Occidente che oggi si sente sempre più una colonia finanziaria di un impero senza nome.

Un’uscita di sicurezza ci sarebbe, secondo Tremonti: che individua strumenti specifici, come gli Eurobond, dà un’occhiata a situazioni analoghe del passato – anni 30, nazionalizzazione di imprese e banche dopo la grande depressione – senza dimenticare il futuro: che è e rimane un terreno sul quale muoversi con principi ed etica dimenticati completamente in questo ventennio.
Non solo dagli speculatori ma anche dai governi stessi, quelli nazionali e soprattutto quello europeo. O presunto tale...



 

lunedì 23 luglio 2012

Nella giornata infernale dei listini, due titoli che restano in alto: Ferrari e Federer...

E’ stata una giornata infernale. Altro che formicolìo del lunedì sera. Borse, spread, rating, debito pubblico volano sulle montagne russe. Ma a manovrarle è una mano che non ha volto, non ha bandiera, non ha scrupoli.

E tutto questo mentre sto leggendo un libro per certi versi illuminante e… sconfortante. “Uscita di sicurezza” di Giulio Tremonti. Lo avrò ospite tra qualche giorno (giovedì 26 luglio) in diretta, su TRG. Prima o poi anche sul libro l’ex ministro spiegherà la sua uscita di sicurezza: spero di arrivarci, a quel capitolo, prima di giovedì (quando sarà nei nostri studi).
Perché finora a leggere la sua lucidissima e acuta analisi delle cause del disastro economico dell’Europa malmenata e sottomessa dall’avidità e l’ingordigia della speculazione, vien voglia di ritirare da fondi e conti correnti i propri (pochi) risparmi e cucirli alla vecchia maniera dentro il materasso ortopedico. Prima di guardarsi intorno in modo circospetto e sussurrare: “Almeno qui non potrete mai arrivare, bastardi…”.

Sarà per questa forma di repulsione della realtà che stasera per qualche minuto ha avuto la tentazione di non accendere neanche la tv. Facendo il verso a quel contadino al quale, quando moriva una vacca, bastava non guardare – lasciando il “lavoro sporco” di disfarsi del quadrupede al proprio figlio o al nipote - per illudersi che non fosse successo nulla. Poi il tg l’ho visto davvero, anche perché mi era comunque bastato navigare qualche minuto nei siti info nazionali e internazionali, o sbirciare nella valanga di tweet che ormai mi sommerge appena mi collego, per capire che giornata era stata.

Allora l’unico antidoto alla depressione pre-incarto era volgere lo sguardo, anche per pochi minuti, altrove. Cercando un diversivo. Un anestetico efficace, come lo chiamo io. L’unico, in queste ore, è tinto di rosso e risponde al nome di Ferrari.
Che gusto vederla trionfare proprio in terra di Germania, sotto gli occhi di chi non perde occasione per sbeffeggiare i vizi italiani – guardandosi bene dal riconoscerne virtù e potenzialità. Stavolta non c’entra l’energia esplosiva di Balotelli (pur scimmiottato da Alonso e dai meccanici durante l’inno, nel suo gesto da bronzo di Riace), non c’entrano le strategie tattiche di Prandelli.
Stavolta la batosta per i deutch è più pesante perché è meccanica, motoristica, tecnica, organizzativa. Insomma chiama in causa fattori nei quali la dea bendata (o il pallone di cuoio) c’entra poco, l’ingegneria, il know how, la tecnologia, molto di più. Lezione di superiorità tanto più grande in quanto chi l’ha portata a termine ha dominato dall’inizio alla fine, ha resistito agli arrembaggi altrui, ha placidamente amministrato la propria leadership e alla fine ha tagliato il traguardo davanti a tutti. Prova di supremazia d’altri tempi (proprio quelli di un tedesco, che per altro ancora non demorde), quando la Germania affermava che il merito dei successi del Cavallino non erano dell’autovettura. Ma di chi ne giostrava il volante.

Sarà così anche stavolta? Nel dubbio eleviamo sull’altare della gloria – per ora a metà, visto che siamo a metà campionato (10 gare su 20 disputate) – sia la vettura, sia lo staff tecnico e manageriale, che il pilota, che i suoi talenti li detiene, avendo già vinto due Mondiali con altra marca e in altra epoca.
Singolare – come ho twettato a caldo domenica pomeriggio – che un ex campione del mondo austriaco (Lauda) abbia intervistato sul palco, in un siparietto inedito per la F1, un pilota spagnolo vincitore alla guida di un’auto italiana (per altro, da quel che ho saputo, progettata da un greco). Uber alles! Mi è venuto da esclamare con un pizzico di ironia, mista a sereno compiacimento.
Con un elettrizzante valore aggiunto…

Quelle comunicazioni dai box al pilota, nel corso della gara, rigorosamente in lingua italiana (anziché l’inappuntabile e imperturbabile inglese esibito da tutti, indiani compresi). A spiazzare le spie degli altri box pronte ad ascoltare e riferire di conseguenza.
Non so se si tratti di una strategia da messaggio in codice o di un’accentuazione dell’italianità del successo. Ho notato che da un paio di Gp l’ingegner Andrea Stella, braccio destro di Alonso e suo fido consigliere, comunica con lui nella propria “lingua madre”, ovvero l’italiano, che è anche “lingua zia” (di primo grado) di Fernando l’asturiano, che in Italia guida da una vita (iniziò con la faentina Minardi) e dove ha sognato per una vita di tornare a primeggiare. Quei dispacci tecnici rivolti in un’imprevedibile idioma periferico (ormai l’italiano corretto non si parla più neanche in Italia) così estraneo ai fedeli del bon ton mitteleuropeo, creavano un singolare effetto di empatia: somigliavano ai messaggi di “Radio Londra” nel periodo dell’occupazione, resi celebri dal film “Il giorno più lungo” quando gli alleati ascoltavano la nota stazione radiofonica libera riferire frasi apparentemente insignificanti (“Domani è sereno, Giovanni ha dolore all’alluce, la mia mucca non ha fatto latte, non c’è tempo per leggere il giornale”) che in realtà contenevano messaggi cifrati. Era per fregare il nemico, per aggirare il controllo dei nazisti, per nascondersi dietro quelle frasi incomprensibili. Effetto (e forse anche beffa) che si è ripetuta per finalità molto meno cruente, nel paddock di Hockenheim, nel cuore della foresta nera di Germania.

La vittoria è ancora più bella. Perché è ancora più nostra, è italiana. Nella tradizione, nel nome (della Ferrari), nel simbolo, e ora anche nella lingua. E arriva in una settimana drammatica – purtroppo non sul piano sportivo – per il nostro Paese e per quel sud dell’Europa stretto e avvinghiato nei cingolati della speculazione (e abbandonato da chi quella speculazione potrebbe attenuare o addirittura vanificare, attraverso decisioni politiche, capaci di fare “scudo”).
Consoliamoci così, dirà qualcuno. Ma almeno abbiamo motivi per farlo. E per i prossimi Gp saranno gli altri – gli spocchiosi anglosassoni o i bofonchianti teutonici – a dover assoldare un interprete per capire “cosa diavolo stanno dicendo quei maledetti italiani!”.

Un ultimo poensiero è ancora di colore rosso. Ma stavolta riguarda uno svizzero. Non c’entrano le banche, né il cioccolato. Non c’entrano i tassi d’interesse e nemmeno la puntualità. Ma il tennis, da qualche anno vessillo simbolico dei successi sportivi di uno svizzero. Roger Federer, ovvero il tennis, designato per la terza Olimpiade consecutiva come portabandiera del proprio Paese, ha declinato l’invito: lascerà l’onore del rossocrociato al suo connazionale di doppio Stanislav Wawrinka. “L’ho già fatto due volte, ad Atene e Pechino, ora è giusto che a farlo sia un altro. E poi lui fu decisivo per vincere l’oro 4 anni fa…”.
Si può essere grandi in campo. Si può esserlo per talento, forza, energia. Ma si è indiscutibilmente unici quando la grandezza è sinonimo di sensibilità. Di generosità e altruismo, di signorilità e umiltà: doti che pochi, davvero pochi, sanno interpretare. E che rendono Federer davvero uno (se non l’unico) “special one”. Lui che vince in ogni superficie (ormai celebre la frase di Connors), lui che torna sul gradino più alto dopo anni difficili, lui che da tutti è riconosciuto come il più alto interprete di questa disciplina.

Ma la grandezza può essere anche e soprattutto normalità. Nei gesti, nelle scelte, nell’esempio. Da esaltare, anche con poche righe.
A maggior ragione oggi, dopo una giornata così catastrofica per la nostra economica: dove anche il solo “essere rimasti in piedi” fa sentire “giganti”.

sabato 21 luglio 2012

Una firma e soprattutto un passaparola: per non far finta di non sapere della casta...

Ho telefonato stamattina in comune per verificare la veridicità di una mail che mi era arrivata nella posta personale....e sì, esiste il referendum...si può passare a firmare...
Alzi la mano chi sapeva che presso ogni Comune italiano - almeno finchè non saranno aboliti anche questi - è possibile firmare per un Referendum abrogativo parziale sulla legge per le indennità parlamentari (Art. 2 L. 31/10/1965, n. 1261).
Ben pochi, credo.
Si tratta di un referendum, si, l'ennesimo referendum che però - una volta tanto - ha un fine più che nobile: il taglio degli stipendi della casta politica.
La raccolta firme si concluderà molto presto, il 30 luglio 2012 (termine per la presentazione al Comitato promotore 31/07/2012).
Cosa occorre fare? Nulla di più semplice: recarsi presso il proprio Comune ed andare a firmare.

Proviamo però a chiederci come mai questa notizia non è passata sui giornali e sui maggiori media nazionali. Per qualcuno c'è puzza di connubbio tra i finanziamenti elargiti alla carta stampata e la casta politica. Potrebbe essere...
Non faccio parte nè dell'una (la casta giornalistica) men che meno dell'altra. E allora do il modesto contributo a spargere sale nella (ancora ) piccola ferita che andrebbe inferta al pachiderma politico-burocratico della politica di casa nostra.
Non è "antipolitica" chiedere di ridurre gli sprechi: e in tempi di spending review molte delle indennità di cui ancora godono i quasi 1000 parlamentari del nostro Paese, sono da idenfiticare come sprechi.

Dunque, ora, tocca ad ognuno di noi, con qualsiasi mezzo, diffondere la notizia. Il passaparola, talvolta, ha maggiore efficacia del silenzio, sordo e ambiguo, cui questa iniziativa è stata sottoposta.
Basta fare "un salto" in Comune, un impegno di un quarto d'ora (per chi vive in cittadine come la nostra Gubbio), un contrattempo di qualche minuto in più per chi abita in una città più grande.
Ma ne vale la pena...
Ci vogliono 500.000 firme altrimenti sfumerà l'occasione per assestare un duro colpo alla casta. E anche a chi ha fatto in modo di tenere sotto silenzio questo referendum fino ad oggi.
Dunque firmare ma anche diffondere la notizia.
Articolo 2 della Legge 31 Ottobre 1965, n. 1261

Ai membri del Parlamento è corrisposta inoltre una diaria a titolo di rimborso delle spese di soggiorno a Roma. Gli Uffici di Presidenza delle due Camere ne determinano l'ammontare sulla base di 15 giorni di presenza per ogni mese ed in misura non superiore all'indennità di missione giornaliera prevista per i magistrati con funzioni di Presidente di Sezione della Corte di Cassazione ed equiparate; possono altresì stabilire le modalità per le ritenute da effettuarsi per ogni assenza dalle sedute e delle Commissioni.

E' solo un piccolo passo, visto che tutta la legge in questione meriterebbe una bella "revisionata", ma è pur sempre un passo necessario per far partire il movimento di popolare protesta pacifica contro gli enormi e ingiustificati stipendi pagati al mondo della politica.
Una firma. Per non avere rimorsi. E per poter dire, male che vada - come Abatantuono nella scena finale di "Mediterraneo" - "Va beh, avete vinto voi. Ma almeno non potrete considerarmi vostro complice...".









giovedì 19 luglio 2012

Dall'inutile attesa di Noa a quell'indimenticabile vis a vis con Renzo Arbore... quando lo stile marca distanze siderali...

La gente la puoi catalogare in diversi modi . Tra la caselle alternative di questo immenso schedario umorale e antropologico, una sorta di labirinto caratteriale senza filo di Arianna, ce ne sono due prototipi con cui spesso – chi fa il nostro mestiere – deve confrontarsi.
Da un lato chi si crede molto più di quel che sembra, dall'altro chi è semplicemente ciò che appare.
Talvolta il confine è labile, sottile, come quei fili d'acciaio che reggono mastodontici ponti: leggeri, invisibili collegamenti, che però tengono, robusti, tonnellate di ferro.
Ed è semplice, per un giornalista, decodificare il profilo dell'interlocutore di turno. Basta calcolare quanto tempo si fa attendere e in che modo “se la tira”.

Ripensavo a questa duplice categoria di vip (o presunti tali) l’altra sera, quando per circa un’ora e mezza ho atteso (invano) la cantante Noa per un’intervista che avevamo concordato con il suo (presunto) ufficio stampa. O forse chiamarlo così è un po’ troppo, dal momento che aveva le sembianze di una fanciulla bionda, prosperosa, nullafacente (credo anche nullapensante), florida nelle forme quanto algida nel savoir fair, arida nella comunicazione, irritante nel silenzio ingiustificato che ha riempito quei 90’ di inutile ambascia al Teatro Romano. Unica consolazione, un vento fresco e leggero ad accarezzare le pietre secolari del più importante anfiteatro romano del centro Italia (Roma esclusa, ovvio).

Non è la prima volta che mi accade (intendo, di aspettare). E ho imparato, a mie spese, a “etichettare” a mio modo, i personaggi che questo splendido mestiere mi ha dato la possibilità di avvicinare, semplicemente da questo prologo.
Poi – quando il tuo interlocutore è così educato da concederla l’intervista (fortunatamente mi è accaduto nella stragrande maggioranza dei casi) – sono i particolari a rivelarti la personalità di chi hai di fronte. L’autenticità del sorriso, la naturalezza dello sguardo, la serenità del gesto – quel porsi così immediato e senza fronzoli che non rifugge sufficienza, superficialità e insofferenza. Quando c’è tutto questo – e, dopo 20 anni di interviste, lo capisci anche e soprattutto dai dettagli – la tua diventa una piacevole conversazione. Che ti appaga e che in fondo gratifica anche chi ti sta di fronte.

D'altra parte non posso nascondermi dietro un’etichetta targata Rai o Mediaset (o la più fighetta La7): quindi, chi mi concede un’intervista lo fa per il gusto e il piacere di farlo. Almeno su questo non ho dubbi. Non ci sono secondi fini, né da una parte (la mia) né dall’altra.

Misano - autunno 2007
Morale, l’altra sera Noa l’intervista non l’ha concessa.
E fin qui nessun problema (sopravviveremo, mi dico in questi casi, ironicamente). Peccato che un pizzico di spirito (non dico di educazione ma di sensibilità per il lavoro altrui) avrebbe potuto suggerire di declinare l’invito una mezz’oretta prima. Se non altro per attenuare il disagio dell’estenuante attesa.
Quando un goffo portaborse – incaricato dell’improbo compito – si è avvicinato dandomi la ferale sentenza (“mi spiace ormai è tardi, e Noa deve salire sul palco”), ho pensato che la celebre cantante israeliana - famosa anche per le sue battaglie a favore della pace (credo anche quella dei sensi, dei suoi aspiranti intervistatori) aveva battuto persino il record di anticamera fissato 5 anni fa da Valentino Rossi – che ho aspettato per un’ora e un venti in un salottino dell'autodromo di Misano, ma che poi, braccato inesorabilmente, non ha potuto fare a meno di sottrarsi al mio microfono.
Ma questa è un’altra storia (che magari racconterò in un’altra occasione).

Tutto il preambolo per dire che questi pensieri sono riaffiorati oggi anche perché abbiamo programmato nel palinsesto di questa settimana – molto estivo, che in tv significa con molte repliche – l’intervista che realizzai ormai 4 anni fa a Foligno con Renzo Arbore. Tanto più attuale in quanto l’istrionico e irresistibile show man – forse il primo vero prototipo di one man show popolare, meglio identificabile come swing man – è stato protagonista anche quest'anno come direttore artistico di un’edizione memorabile di Umbria Jazz. Magari prima o poi lo "riaggancio" per un'altra intervista vis a vis.

Come quella dell'agosto 2008. Metti una saletta appartata di un albergo folignate. Giornata afosa, sono le 20.30, ma sembra primo pomeriggio: la stanza è fredda, rigida, in preda all'aria condizionata (che ti opprime almeno quanto il caldo appena fuori l'uscio dell'albergo).

L'intervista era fissata per le 19, spostata (mentre ero già in viaggio) alle 20, e quindi con una cortese telefonata della reception, alle 20.30. Un'orda di giovani studentesse straniere - lingua inglese - si accalca all'ingresso, ma solo perché deve scaricare i propri bagagli.
Il tempo di chiedermi che ci faccia tutta quella gente a Foligno (dove io non andrei a in vacanza con queste temperature) che il "mitico" sbuca dall'ascensore.
In mezzo a tutte quelle pulzelle si gira e si volta, con quel sorriso di sorpresa quasi a dire: "Siete qui tutte per me?", ma ignora che non è così.
Mi faccio avanti io, lo saluto e gli porgo la mano, presentandomi: mi guarda, mi squadra e sorride. Era stato bello confondersi tra quelle chiome bionde e rosseggianti, ma l'intervista doveva farla con me.

L'intervista all'Holiday Inn di Foligno
Lo faccio accomodare nella saletta, che nel frattempo - circa mezz'ora d'attesa - abbiamo allestito alla bell' e meglio con Elia (il tecnico di ripresa, oggi lavora con un service di Mediaset, e partirà a breve per gli Usa): siamo all'Holiday Inn ma quasi non si direbbe. Muri bianchi, un'aula da corso di formazione, piuttosto anonima e fredda - almeno quanto la sua temperatura. L'attesa è lunga e devo dire anche un po' più ansiosa del solito.
E' un po' di tempo che non sento l'adrenalina per un'intervista: saranno i 20 anni che già mi sono messo alle spalle, o forse lo "spessore" dei miei consueti interlocutori. O magari il fatto che Renzo Arbore l'ho sempre vissuto come fosse... uno di casa. E ci tengo a fare bella figura.
Il formicolìo che mi prende i polpastrelli è un segnale che conosco a memoria: è come una spia, mi dice "vai, è il momento. Non fare cazzate, non strafare, sìì te stesso. Non pensare chi è, concentrati sulle domande, e sii naturale. Niente salamelecchi, non fargli capire che per te è importante. Educazione ma non adulazione. Sono le regole per fare una buona intervista".

La prima cosa che mi impressiona di Renzo Arbore è il colore della pelle: rosso mattone, un fondotinta - probabilmente non evidente dal palco - ma un po' eccentrico per chi ti si siede a fianco. Non so che impressione gli faccia io, ma mi mette subito a mio agio: mi chiede chi sono, per chi lavoro, se preferisco fare l'intervista lunga e in più quella breve per il tg (è un professionista, sa che la maggior parte dei miei colleghi si vuole fare la "pappa pronta" senza perdere tempo a montare un testo con alcuni stralci dell'intervista. Per questo si sorprende quando gli dico: "No, lasci stare. Facciamo l'intervista che poi i brani per la news li prendo da solo").

Ci sediamo, due poltroncine, io posto di 3/4 rispetto alla telecamera che sta a pochi passi di fronte a lui. La sensazione più bella: non è tanto di vedere davanti a me Renzo Arbore, solo e disponibile per il mio microfono: è la risata che mi piazza non appena si accende la lucina. Professionismo puro, un po' di sana fiction, è vero. Ma sai quanto ti distende e ti aiuta quel sorriso? Come se stessimo parlando da ore, come se fossimo amici da una vita. Ci sa fare Renzo.

E l'intervista? Beh, quella va in onda nuovamente domani sera (venerdì). Posso solo dire che è spassosa ma anche profonda. L'ho montata alternandola con dei brani del concerto. Un lavoro direi "chirurgico": anche perchè alla fine della registrazione proprio Arbore mi ha chiesto una copia (ne avrà fatte migliaia di interviste, evidentemente le conserva tutte), ma poi ci tenevo perché ha allietato tante serate e tanti momenti che ho vissuto da vero cultore dell'"arboristeria" autentica.

E poi una curiosità: avevo preparato una serie di "domande scritte", ma, sembra incredibile, avevo lì il foglio, piegato, su quel tavolino. Abbiamo cominciato a parlare e mi sono scordato di aprirlo. Mi ero scritto una quindicina di punti che sono rimasti "chiusi". O meglio, la gran parte delle domande me le sono ricordate, ma la scaletta che mi ero fatto è saltata subito. Quando ha cominciato a fare da mattatore ho lasciato perdere. Mi son detto: è come quando guidi un cavallo di razza, in realtà è lui che ti dice a che ritmo andare. Devi solo tenere la briglia, tirare quando strettamente necessario e dare piccoli colpi se si tratta di cambiare direzione. Senza quasi farti accorgere.
E con Arbore - distante anni luce da tanti presunti vip capaci di sentirsi tali solo per l'inconfondibile "puzza sotto il naso" - è andata così...


martedì 17 luglio 2012

Quando basta un pranzo in salsa coreana... per apprezzare di più ciò che ci circonda

Foto ricordo insieme alla delegazione coreana
alla Sala Consiliare di Palazzo Pretorio
L’erba del vicino è sempre più verde. Ma qualche volta è proprio il vicino, o comunque il forestiero, l’ospite, a rendere se non più verde, almeno meno grigia, la nostra aiuola.

Di questi tempi per parlar bene dell’Italia ce ne vuole.

L’ultimo che è riuscito nell’impresa è stato Cesare Prandelli. Le stesse evoluzioni diplomatico-politiche di Mario Monti, a Bruxelles, hanno avuto lo stesso effimero risultato delle prodezze balistiche dell’altro Mario, Balotelli: pochi giorni e subito si è tornati coi piedi, e con lo spread, per terra.
Si avverte addirittura l’impressione che l’effetto più devastante e incontrovertibile della crisi che segna la nostra mentalità sia proprio l’impossibilità (o incapacità o vera e propria “nolontà”) di vedere la luce in fondo al tunnel.

Tutto ciò che ci circonda affiora con una tonalità scura, difficile localizzare tracce di fiducia, arduo districarsi nelle perifrasi economico-finanziarie negative, tutta la nostra quotidianità sembra inesorabilmente condannata al segno meno. Come se dovesse essere solo il Pil l’unità di misura del nostro benessere.
Meno sorrisi, meno fiducia, meno speranze. Meno credito – che non è solo quello concesso dalle banche – e per molti, anche meno sogni.

Eppure. Eppure basterebbe poco per capire quante “garanzie reali” appartengano ancora al made in Italy, se si svolta appena l’angolo dell’Europa. Quante credenziali, quante potenzialità, quanto fascino susciti ancora il nostro Paese, nell’immaginario –tutt’altro che ipotetico – di decine di milioni di persone.
Mi è stato sufficiente trascorrere un piacevolissimo pranzo informale con un gruppo di turisti coreani, una ventina, che soggiornano a Gubbio nell’ambito di una (pregevole e meritoria) iniziativa dell’associazione lirica “Vissi d’arte, Vissi d’amore”, organizzata dall’inesauribile Massimo Capannelli e dal soprano coreano Cristina Park.

Saremo pure impantanati nella crisi più odiosa e insostenibile del dopoguerra, ma parlare con alcuni di questi (per altro facoltosi) forestieri rappresenta qualcosa più che una semplice iniezione di autostima. L’Italia è ancora oggi, nonostante tutto, una sorta di Eden terrestre per milioni di orientali, suggestionati dall’arte, dalla storia, dal patrimonio culturale – compresa la lirica, ovviamente – che appartiene al nostro dna e che in fondo è l’unico vero “tesoretto” che nessuno potrà né imitare né prosciugarci (se non la nostra incuria).

Alle prese con il mio very basic english...
Solo nominare Firenze, Roma o Venezia, suscita in questi simpatici ospiti "ammira e fuggi", un sospiro spontaneo, quasi a bocca aperta: sarà che gli occhi a mandorla sembrano quasi sorridere, senza bisogno di altri elementi somatici, ma capisci subito – a prescindere dal grado di confidenza del tuo interlocutore – se l’argomento di cui si parla crea interesse o meno. Ebbene, in alcune simpatiche signore coreane, dall’abbigliamento pittoresco ma dal fare sempre cortese ed elegante, il solo accenno a ciò che hanno visto dalle nostre parti è bastato per leggere una suggestione e una passione smodata, ai limiti del rapimento sentimentale. Non che il mio very basic english potesse rivelarmi molto di più, ma per un attimo ho un po’ invidiato quella serenità surreale che emergeva dalle loro brevi considerazioni.
Stavano in Italia, ergo erano felici.

Il piacere stesso di pronunciare alcune parole nella nostra lingua – il più delle volte, legate alle strofe del melodramma (altro tesoro assolutamente sottovalutato dal nostro Paese ma formidabile chiave di diffusione e lettura culturale, unica e non riproducibile) – mi ha dato la sensazione netta che l’Italia sia da sola ancora oggi un brand. A dispetto della propria atavica sottovalutazione.
Dato che i primi a non rendersene conto sono proprio gli italiani, soprattutto quelli – e continuano ad essere tanti – che non hanno l’occasione, la voglia o l’opportunità di mettere la testa fuori dai propri confini.
Se proprio non si possono abolire le Province, che si faccia un decreto contro il provincialismo – mi è stato scritto qualche giorno fa. E l’Italia, di questa patologia, abbonda fin troppo.

Siete seduti su una Ferrari ma non sapete ancora dov’è la chiave per metterla in moto” mi disse una volta un americano che avevo conosciuto estemporaneamente, in uno dei tanti “gemellaggi” figli dell’emigrazione che fu (e che oggi torna ad essere, non più con la valigia di cartone ma con il trolley).
Che è il concetto che più o meno ha espresso Gian Antonio Stella, una delle prime firme del Corsera. Ospite ad Assisi all’inaugurazione di Palazzo Bonacquisti, il giornalista ormai inevitabilmente associato alle sue inchieste illuminanti sulla “casta”, ha intonato un peana, accorato quanto malinconico, sul futuro dei beni culturali del nostro Paese: “L’unica vera miniera di cui disponiamo ma che sembriamo ignorare – ha dichiarato – senza considerare che il nostro futuro non può essere né l’industria né la manifattura, perché ci sono paesi di un mondo sconosciuto fino a qualche anno fa, che oggi sono in grado di produrre a costi minori e su scala imparagonabile alla nostra. Ciò che invece non potranno mai riprodurre è il patrimonio di arte, cultura e tradizioni che ci appartiene ma di cui non abbiamo più senso di appartenenza”.

Per un attimo, chiacchierando amabilmente con la delegazione coreana, insieme all’affabulante artista eugubino Giampietro Rampini – di cui ho potuto apprezzare una spiccata disinvoltura nello speak english – ho ripensato che nella giungla di tagli da spending review con cui il governo sta, giocoforza, scuotendo il nostro apparato burocratico, a farne le spese sarà anche l’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi, la cosiddetta “discoteca di Stato”, uno scrigno culturale fatto di oltre 500 mila brani inventariati e archiviati che costituiscono tutto lo scibile nazionale in materia di fono produzione.
Un colpo di spugna e si cancella tutto, come quando pigi distrattamente il tasto reset del tuo pc.

In Oriente – ma anche altrove – ci invidiano persino la musicalità della nostra cadenza linguistica (più di una volta mi è capitato all’estero di ricevere questo inatteso complimento, del tipo “voi italiani, quando parlate, sembra che stiate cantando”). Qui chiudiamo il presente e il futuro anche al meglio del nostro passato.
Una riflessione un po’ triste - suggeritami via facebook da un post di Judy Zenobi - ma che mantiene, conserva, lascia sopravvivere, una traccia di fiducia alla base.

Grazie anche ad un pranzo, non preventivato fino all’estemporaneo invito del giorno prima, in compagnia di un gruppo di sconosciuti che hanno avuto il merito e il pregio di farmi sentire un po’ orgoglioso.
Ma anche desideroso di condividere con altri questa speranza e questa necessità: di apprezzare il bello che ci circonda, di guardare al futuro con gli occhi di chi ancora oggi sa cogliere questo fascino. E ci aiuta a sentire un po’ meno grigio e un po’ più verde la nostra fantastica “aiuola”.
Casa nostra.

domenica 15 luglio 2012

"L'attimo in cui siamo felici": conoscere i momenti di felicità altrui... per apprezzare di più anche i propri...

"L'attimo in cui siamo felici". Non so, per la verità, se esista davvero. Non so se si può fotografare, cristallizzare, se si può cesellare e incastonare in un cofanetto, da conservare gelosamente tra le cose preziose della propria esistenza. Per poi andarselo a riguardare, a rileggere, a rivivere ogni volta che c'è bisogno.
Operazione audace, a cui si sottopone - gioco forza - Valerio Millefoglie, con il suo libro edito da Einaudi (che mi ha accompagnato durante qualche giornata di questa estate, tra quelli in concorso per la nuova rassegna "Onor d'Agobio" di cui sarò indegno componente di giuria).
Il libro si intitola proprio così "L'attimo in cui siamo felici". E parte da una necessità interiore e paradossalmente egoistica (se di egoismo si può parlare quando è il lutto a condensare la gran parte delle proprie emozioni). La perdita del padre.
L'elaborazione del lutto è difficile e sofferta, per il protagonista del libro - che poi altri non è che il suo autore. E per uscire - o tentare di uscire - dal tunnel depressivo fatto di rinunce, consapevolezza e ricordi, Millefoglie rispolvera un esperimento che aveva abbozzato negli anni che avevano preceduto quel lutto. Una sorta di "terapia della felicità", comminata su se stessi con un metodo semplice quanto acuto: conoscere, apprezzare (e magari anche godere) delle felicità altrui.

Omacatl, divinità della felicità
almeno per gli Aztechi
Cos'è la felicità? E' un interrogativo che dai tempi di Omacatl (divinità azteca) passando per la mitologia greca, in poi ha imperversato cultura e letteratura, ma in fondo - tra tante vacuità e inutilità quotidiane - è l'unica domanda seria che ci rimane anche nel XXI secolo. La domanda ci sta, è la risposta che è difficile da articolare.
Perchè in fondo la felicità non è qualcosa di materiale, di tangibile, di inquadrabile. Forse nel momento stesso in cui si focalizza, è già passata.
E0 così che l'autore chiosa il suo libro: "E' proprio questo che rende così bella e unica la felicità: che finisce".
La felicità esiste. Ma forse non esistono le persone felici. Perchè non si può essere "sempre felici", come non si può essere fortunatamente sempre infelici. Stati d'animo ed emozioni si alternano, un po' come le figure sfocate di alberi e case, dal finestrino di un treno, mentre si viaggia: figure appannate che si accavallano col buio delle gallerie e il monotono e rutilante tran tran delle rotaie.

Valerio Millefoglie
Tant'è che Millefoglie racconta nel suo libro un percorso parallelo: quello personale, di chi vive l'angoscia di una perdita irreversibile, e di chi invece si è raccontato, candidamente e quasi ingenuamente, con un esercizio di una semplicità elementare ma di una profondità unica. Ovvero gli interlocutori conosciuti casualmente da Millefoglie nei bar, negli ospedali, alla posta, piuttosto che nelle scuole o nei supermercati: lui, l'autore, ha lasciato una semplice scheda da compilare.
Indicate i vostri attimi di felicità, recitava con un preciso questionario da redigere almeno su scala settimanale: giorno - ora - durata (anche minima, anche pochi secondi) - motivazione.
Rileggendo una semplice scheda settimanale, poi, l'autore ha intervistato gli anonimi compilatori. Non certo delle cavie, anzi. Persone, in carne e osse, grazie alle quali scoprire un universo sconosciuto di stereotipi diversi: i gemelli che vivono insieme le proprie emozioni quotidiane, il signore dal piumino verde accompagnato in ogni dove dalla propria fede, la ragazza che si realizza facendo volontariato, la nonnina del 1910 - che dopo una vita trascorsa accanto al marito, ormai defunto, sogna di incontrarlo un giorno: e cosa vi direte? le chiede Valerio, "Niente, risponde, basterà guardarsi":
E poi Simona (ma con la s minuscola, perchè non si sente di meritare un nome in maiuscolo) o Marco Elettrico, con la sua compilation della felicità e infine xxx la ragazza di tatuaggi e piercing, per la quale la felicità è riuscire a parlare di nuovo dopo essersi fatta dividere in due niente meno che la lingua.

E' un libro che mi ha colpito. Non per le storie che racconta, più o meno interessanti, più o meno emblematiche, ma per il senso che esprime.
La felicità raccontata come fosse un puzzle, ma un puzzle senza contorni - quelli che in fondo ti permettono, a cominciare dai quattro angoli retti, di comporre quello stesso puzzle. Senza contorni e senza confini, dove ognuno raccoglie i propri istanti felici.
Perchè la felicità, in fondo, non ha una definizione e nemmeno un clichè. Bere un caffé con un amico, incontrare per caso una persona speciale, tornare a casa, assaggiare il piatto preferito, guardare un programma tv, fare il tifo per la propria squadra di calcio, vedere proprio figlio crescere, godere di un'alba o di un tramonto. O anche respirare in mezzo ad un bosco durante una passeggiata. O un bel voto a scuola o all'università.
La felicità non è qualcosa di costruito, ma di istantaneo: ti coglie, all'improvviso, ti appassiona e ti gratifica.
Ma la ricetta del "dottor Millefoglie" ha una qualità in più: ti consente di archiviare questi piccoli grandi momenti. Come? Magari compilando la sua scheda - la trovate riprodotta davvero all'inizio del libro - almeno per una settimana.
La scheda per compilare... i propri attimi di felicità
Sarà come rivedersi in fotografia i momenti più belli. Quelli che ti fanno capire che in fondo questa parola così ridondante - felicità - è in realtà il risultato di gesti semplici, spesso condivisi, il più delle volte inaspettati. Che diventano però, a loro modo, eterni; "rendere eterno il minuto" dice proprio l'autore - "mettere sottovuoto alcuni momenti felici, fermarli per un attimo".
Proprio con quella capacità di cristallizzare l'istante che è propria di una fotografia - a differenza di un'immagine filmata che è documento più completo, ricco e accattivante, ma non sa discernere l'istante dal complesso.
E a proposito di eterno, Millefoglie conclude la sua riflessione - dopo aver conosciuto una coppia di imprenditori, titolari di un'agenzia funebre - con una riflessione un po' bizzarra e decisamente originale. Ma profonda.
"Se invece delle lapidi e delle frasi misericordiose e commemorative o dei fiori, si potessero leggere le felicità dei defunti, andare al cimitero non sarebbe così triste. E nessuno verrebbe dimenticato".
Allora ho provato.

Giacomo Marinelli Andreoli: amava scrivere, leggere, emozionarsi, conoscere storie e persone, sperando di riuscire a raccontarle. Anche con un semplice blog.
Che ne dite?
Può sonare bislacca. Ma io la metterei così...

Invece la prossima settimana voglio autosperimentare la scheda di Millefoglie: raccoglierò le felicità quotidiane, dal lunedì alla domenica successiva. Chissà che non mi aiuti ad apprezzare di più i piccoli momenti della giornata, quei dettagli che spesso fanno la differenza. Provate anche voi... (anche il blog è a vostra disposizione).

venerdì 13 luglio 2012

E' tutto anche per oggi, a te Provenzali...

Ci sono personaggi che ci sembra di conoscere da sempre. Come fossero un vicino di casa, come li incrociassimo ogni mattina salutandoci per andare a prendere il giornale. Come se fossimo insieme in fila alla posta o sulla stessa panca alla messa.
Silenziosamente ci accompagnano in momenti "insignificanti" della nostra vita. Apparentemente insignificanti perchè in fondo, accendere la radio e ascoltare "Tutto il calcio minuto per minuto" è null'altro che un piacevole gioco da adulti, una liturgia laica che si rinnova ogni domenica.
E sull'altare di questo piccolo e ripetitivo rito, la voce che, umile ma immancabile, scandiva il susseguirsi di ogni domenica, era quella di Alfredo Provenzali.
Un giornalista che apparteneva alla generazione di radiocronisti che hanno segnato l'epoca d'oro di Radio Rai: forti non solo dell'assenza di una vera concorrenza (e la mancanza della pay tv che ha "violentato" il fascino dell'ascolto radio delle partite) ma soprattutto forti una professionalità e personalità che erano figlie di quel tempo, di quell'Italia ricostruitasi con le proprie mani, capace di rimboccarsi le maniche sapendo che c'era tanta strada da fare.
Se un giorno metteremo in classifica i primi dieci fenomeni di costume del XX secolo, potrebbe scapparci anche di inserire "Tutto il calcio minuto per minuto": perchè il rituale della domenica non conosceva sosta, perchè sapeva sciorinare le emozioni più appassionanti per gli sportivi italiani, perchè riusciva a condensare la capacità di fare cronaca con l'abilità di commentare, senza urla nè esasperazione, quello che in fondo era "il più bel cartone animato per adulti" (appunto, il calcio).
In questo teatro, Provenzali non ha mai amato apparire in prima fila: ma il suo ruolo è stato sempre di grande protagonista. Puntuale, rigoroso e inappuntabile.
La sua scomparsa - dopo quella degli anni scorsi dei vari Ameri e Ciotti (che però in prima fila sapevano esaltarsi con le inconfondibili cadenze e raucedini) - è l'addio definito ad una radio che non c'è più, ad un'informazione che non c'è più, ad una liturgia che ha cambiato le proprie forme, i colori, gli strumenti.
E sicuramente anche lo stile.


giovedì 12 luglio 2012

Toglieteci tutto ma non le "nostre" maglie... Crollano definitivamente anche gli ultimi simboli della passione calcistica: con una felice eccezione... bianconera

Palacio e il "rosso" Inter, decisamente indigesto
E' l'estate dello spread, della spending review, dei 50 mila euro per l'intervista a Schettino e della "guerra delle maglie da calcio".
Ormai non c'è più tabù che regga e perfino gli ultimi simulacri di passione, identità e senso di appartenenza - legati al dio Eupalla - si sgretolano di fronte alla legge inesorabile del merchandising.
Gli sceicchi monopolizzano quasi incondizionatamente il mercato calciatori - rischiando di proiettare nell'olimpo calcistico europeo una società che non ha mai vinto nulla fuori dai confini parigini - dando ossigeno ad un fenomeno che per altro non si limita al calcio (perfino la holding fashion Valentino appartiene ormai ad un emiro del Qatar).
In tutta questa fiera della bulimia consumistica - che fa un po' a pugni con le difficoltà quotidiane dei potenziali fruitori di molti di questi gadget - si assiste ad un parossistico carosello di gaffe in uno degli inutili "riti" che la fiera calcistica moderna ha escogitato per questo periodo: la presentazione delle nuove divise.

Rischieremmo la reclusione coatta in un astenotrofio di periferia se dicessimo della nostra nostalgia per le estati di qualche anno fa, quando le amichevoli si giocavano esclusivamente con le selezioni locali, prima di vedere in campo le "squadre vere" solo per i turni preliminari di Coppa Italia, quando i numeri andavano dall'1 all'11, il fischio d'inizio era indistintamente alle 14.30 e alle 18 ci aspettava Paolo Valenti per vedere, ansiosamente, i primi gol prima della sintesi commentata da Nando Martellini.
Ma senza ambire a camicie di forza, lasciateci dire che la parata di nuove divise sta (finalmente) andando in corto circuito: gli stilisti del football non sanno più cosa inventarsi e a furia di cercare soluzioni innovative e qualche variazione sul tema - pur di far vendere maglie e orpelli griffati - di fronte a flash e sorrisi patinati si finisce per assistere ad una triste liturgia che ormai, nella stragrande maggioranza dei casi, suscita delusione se non addirittura vere e proprie crociate di protesta.
I tifosi, quelli veri, non ci stanno. E siccome sono loro a tirare fuori (buona) parte delle risorse che garantiscono a quelle maglie di essere indossate (non solo con i biglietti allo stadio ma soprattutto con gli abbonamenti pay per view), è bene che qualche Presidente prenda nota e tenga a mente a futura memoria.

Clemente con la  nuova maglia "ciclistica" del grifo
L'ultimo caso, molto locale ma emblematico, è fresco di giornata. Presentate le nuove divise del Perugia calcio e a dare un'occhiata veloce alla maglia c'è da strabuzzare gli occhi. Il povero Clemente - abituato a dirimere mischie furiose nelle aree avversarie - deve aver avuto più di un sussulto imbarazzato quando si è trattato di infilarsi una magliettina attillata come fosse una muta da Tour de France, con un'incomprensibile doppia croce bianca (simbolo dei kamikaze, a detta del patron), oltre al non esaltante logo dello sponsor che, non ce ne voglia, contribuisce a condire un minestrone cromatico indigesto e a sfiorare i vertici del risibile estetico.
Quel che lascia perplessi è che alla guida del sodalizio perugino ci sia un vero guru della moda italiana (mister Frankie Garage) al quale è finora riuscito tutto bene (con i jeans e con il grifo), salvo sottovalutare le reazioni a questa maglia, diciamo così, alquanto naif. Su facebook i tifosi perugini sono già scatenati, e al momento non si segnala neppure un voto a favore della maglia (con l'aggravante che per il portiere la divisa scelta è rossoverde, soluzione suicida o masochistica, nell'ottica del tifoso della Nord, a seconda dei punti di vista).
Che distanza siderale - di stile e sobrietà - quella maglia interamente rossa, con bordi bianchi e colletto a V, indossata dal Perugia imbattibile di Castagner e da mostri sacri del calcio italico, come "Pablito" Rossi.

Ma il Perugia è in buona compagnia, e almeno su questo può consolarsi. C'è chi riesce a fare di peggio, come l'Inter, capace di sfoderare un rosso diabolico nella seconda maglia da trasferta (i tifosi della Nord, anche qui, hanno già esortato a Moratti a donare queste divise a Samantha Cristoforetti, prima astronauta tricolore, che decollerà nello spazio solo nel novembre 2014). E non ha trovato gloria neppure la T-shirt away (da trasferta) dei mitici Gunners, l'Arsenal di Londra, che ha scelto un improbabile versione pigiama, a bande orizzontali nero-viola, già ribattezzata dal "Mirror" come maglia da Famiglia Addams o peggio ancora, da busta dell'immondizia (rubbish, termine tecnico).

In questo panorama sconfortante, un sospiro di sollievo arriva fortunatamente dall'universo bianconero. Parlo di Juventus e non mi soffermo sulla tanto chiacchierata anomalia semantica ("30 sul campo" anzichè la terza stella). Il riferimento è alle riconquistate maglie a strisce (non zigrinate) verticali ma soprattutto ai numeri che tornano magicamente di colore bianco su quadrante nero (stile anni 70-80, come nelle divise rese celebri e vincenti da gente come Bettega, Scirea o Michel Platini). Se ne va - mi auguro per sempre - quell'ignobile numero giallo (un anno fu addirittura rosso) che faceva somigliare la divisa ufficiale della Signora ad un'anonima magliettina da mercato del martedì, buona forse per qualche partitella a calcetto tra amici in spiaggia, non certo per sollevare in cielo una coppa (scudetto o Champions che sia).
 
La maglia azzurra, ultima versione:
decisamente kitsch

Un consiglio ci si consenta di lanciarlo agli originali e creativi stilisti sportivi in circolazione. Un vecchio maestro di giornalismo mi disse un giorno: "L'articolo migliore è quello in cui riesci più possibile a rimanere te stesso. Il giorno in cui vorrai strafare, sicuramente non sarai all'altezza".
E' così difficile applicare questa massima anche ad una banale maglietta di calcio?
Sembrerà (e forse lo è davvero) un problema stupido e ozioso, da post estivo di un blog qualsiasi. Ma quei colori, in fondo, sono tra le poche autentiche passioni che ancora ci restano.
E dopo un'estate di azzurro (anche sulla maglietta della Nazionale ci sarebbe, eccome, da ridire...), è così pretestuoso aspettarsi un po' di naturalezza, sobrietà, semplicità, di linee, colori e tendenze, in vista dell'autunno da sabato o domenica calcistica?
Se è vero - come è vero - che un sondaggio inglese individua nelle 16.15 della domenica il momento più triste della settimana di un italiano (indovinate perchè?), non rendetelo ancora più triste, solo per qualche euro in più...