Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

domenica 18 febbraio 2018

Un pomeriggio al carcere. Per raccontare il mio libro. Per uscire diverso da come ero entrato...

L’aula era quella di una scuola di periferia. I banchi, piccoli e lucidi, come fossero le elementari. Una cattedra con la sedia diversa dalle altre, quasi a differenziare, come sempre avviene, il ruolo di chi si siede lì. Rispetto a chi lo ascolta.
Ho avuto un paio di minuti, non di più, per osservare questa scena, che subito sono arrivati: entrando uno ad uno, mi si sono presentati, porgendomi la mano, e abbozzando un lieve sorriso. 
Come se mi conoscessero. O se magari stessero pensando, se fossi davvero io il tizio che aveva scritto il libro che avevano appena finito di leggere. 
L’accento campano, più o meno lo avevano tutti. Poi magari venivano dagli angoli più disparati di quella straordinaria regione, che come nessun’altra, è carica di contraddizioni. Prima fra tutte, l’umanità sconfinata della gente e l’ineluttabilità di migliaia di destini.

L’aula era quella della sezione scolastica del carcere di Spoleto, loro i detenuti del settore “media detenzione”. Che detto così non vuol dire nulla, per chi arriva da fuori. Magari alla sua prima visita.
A quasi un anno dalla prima presentazione, mi sono trovato a parlare di “Nel segno dei padri” di fronte ad una quindicina di persone recluse chi più, chi meno, da qualche buon lustro. 
L’incontro in carcere, organizzato dall’associazione “FulgineaMente” di Foligno, nella sua meritoria azione sociale anche all’interno delle case circondariali, lo aspettavo da quando mi era stata definita la data. Ricordo che ad accennarmelo fu Ivana Donati, tra le animatrici del gruppo, con un messaggio che mi arrivò mentre andavo a Treia, a trovare mio figlio al campo scout. Era l’agosto scorso. Da quel giorno, non vedevo l’ora che arrivasse questo giorno. Semplicemente perché non sapevo cosa aspettarmi.
Ho parlato del mio libro, della storia di Guglielmina e Peter, davanti ad ogni tipo di pubblico: da ambasciatori a studenti, da storici a intellettuali, da politici a gente comune. Ho visto la commozione di qualche ottantenne, che ha rivissuto la sua infanzia. Lo stupore di qualche ventenne che credeva fosse la trama di un film. L'emozione di un quarantenne, che pensando al proprio di figlio, si è lasciato trasportare nei flutti di questa storia.
Ma erano tutti liberi. Liberi di ascoltarmi o di andarsene a metà incontro. Liberi di andarsi a vedere i luoghi narrati dal romanzo, piuttosto che dimenticarlo 5’ dopo il nostro incontro.
Loro no. 
E non sapevo neppure come iniziare. Che mi metto a dire? E se mi capita di parlare di libertà? Mi sono chiesto ingenuamente. Proprio con chi la libertà non ce l’ha o addirittura, in qualche caso, non l’avrai mai più?
Il problema me l’hanno risolto subito. Per la prima volta, tra le decine di presentazioni che ho avuto la fortuna di presenziare, da Gubbio alla Sicilia, da Roma a Napoli, non ho avuto bisogno neanche di fare introduzioni: dopo una brevissima premessa di Luciana Speroni, che ci accompagnava, me e Franca, sono subito partiti loro. Con le domande. Una di fila all'altra. Quasi insaziabili. Fantastico. Sono loro che hanno rotto il ghiaccio. Prima che la temperatura di quelle aule scendesse da sola.

Mi parlavano di quella storia che doveva essere mia ma che improvvisamente mi sembrava quasi distante. Perchè per come descrivevano i personaggi che li avevano colpiti, i fatti che erano rimasti impressi, le sensazioni che aveva generato "Nel segno dei padri", avevo come la sensazione che mi raccontassero una storia loro. E ad ogni domanda, inconsciamente, mi chiedevo, cosa abbia davvero dato loro questa vicenda, questo libro, vissuto come tutti gli altri, dietro queste sbarre. Cosa sia rimasto loro.

Ad un certo punto, spiegando che in fondo Guglielmina e Peter si erano incontrati scoprendo di aver vissuto la stessa vita, e dunque capendosi proprio per questo, uno di quegli improbabili “alunni”, tra i più veterani, a guardarlo di prim'acchitto, Lino (nome di fantasia) mi fa: “In fondo questa storia è anche un po’ la nostra. Chi potrebbe capire quel che proviamo qui dentro? A chi potremmo spiegare cos’è la vita qua dentro, se non ad un altro che sta qui?”.
L’ho guardato fisso negli occhi. Poi mi ha confidato di essere un "senza fine pena" (ergastolo). Questa frase mi ha colpito come un tuono. Ho accennato col capo ad una condivisione. Ho capito che in quel libro aveva colto anche un pezzo della propria storia. Il respiro mi è tornato dopo un po’. Anche se ho nascosto quel tumulto, rispondendo ad un’altra domanda. Una dietro l’altra, mi circondavano di quesiti, nessuno banale. Con una curiosità sincera, che si toccava. Con sorrisi accennati, quasi di complicità incipiente. 

C’è pure chi mi ha chiesto di Gubbio, della fontana dei matti. E di come funzionasse questa storia che ti danno la patente. Che poi con Guglielmina e Peter non c’entrava nulla. 
C’è chi ha parlato della libertà. E di come “anche il cielo ha un colore diverso, fuori di qui. L'ho capito la prima volta che sono uscito per una breve licenza”. 
E c’è chi mi ha chiesto di tornare. Per raccontarmi anche la sua storia. “Anche se forse non interesserebbe a nessuno”. “Perché no?” gli ho ribattuto, riferendomi alla sua storia. Sarei rimasto delle ore a parlare con loro.

In carcere però anche il tempo è contato. Ci aspettava un altro incontro, in un’aula non distante. Stavolta con appena 4 detenuti. E anche noi eravamo quattro. Non ho mai avuto un contatto così diretto, immediato e coinvolgente con il mondo del carcere.
Ci ero stato una sola volta, a Capanne, per un motivo decisamente più evasivo: una partita di calcio tra giornalisti, detenuti e consiglieri comunali perugini. Lasciamo stare le ironiche battute che potrebbe fare qualche lettore, ma fu un bel pomeriggio di sport e socialità. Però con i i detenuti non scambiammo nemmeno una parola: sia perché la metà di quella squadra era magrebina (qualcuno con una fascia bianca penzolante in testa che ricordava le immagini dei kamikaze sui film del Medio Oriente) sia perché quando giochi a calcio, pensi a giocare e a divertirti. E se c’è spazio per un tackle, non c'è sicuro per farsi una riflessione.
A Spoleto è stato diverso. Nel secondo incontro si è parlato solo in parte di “Nel segno dei padri”: uno dei quattro detenuti è in realtà diventato scrittore dietro le sbarre. Ne ha scritti 36 di libri, in quasi 30 anni (mi ha confidato che è lì dall’88 e che uscirà nel 2020). Si è parlato tanto e il freddo pungente di quell’aula angusta, pur penetrandoci minuto dopo minuto, non faceva una grinza. “Vorremmo far capire a chi sta fuori che noi siamo persone. Persone che hanno pagato fino in fondo il proprio debito con la giustizia” ha detto. Quasi presagendo i pregiudizi con cui dovrà fare i conti tra due anni, quando la parola libertà, per lui, tornerà ad avere un senso.

Chi è vittima e chi carnefice? Un interrogativo che diventa dilemma quando un’esperienza come questa ti tocca nel profondo. E ti lascia l’immagine più umana di chi, prima di entrare lì, ha sicuramente commesso degli errori. Anche gravi. Anche arrivando a mutilare l’esistenza altrui. Rovinandola per sempre. Mai dimenticarsi delle vittime.
Ma di uomini comunque parliamo. E l’uomo è ciò che comunque resta da salvare – o se possibile, recuperare - quando ci si macchia anche della più ignobile delle azioni.

Uscendo, con Franca e Luciana, insieme a Maria e Alessandra, giovanissima scrittrice che come me è arrivata un giorno per caso da queste parti, e ora sta ciclicamente svolgendo un’attività di riflessione insieme ai detenuti, abbiamo parlato di questo pomeriggio, a dir poco inusuale. E di quanto incontri come questo sappiano dare. Energia, emozione, consapevolezza. Più di quanto non si sia coscienti di aver dato, a persone che forse attendono come un vaticinio l’arrivo di qualcuno che semplicemente parli con loro.

Neanche per un minuto mi sono chiesto quali reati abbiano commesso per essere lì. Che senso avrebbe saperlo? Il solo chiederlo, finirebbe per presupporre un giudizio. E per vacillare sul sottile cornicione che si affaccia nel baratro del pregiudizio.
Non mi importa sapere il nome di queste persone, la loro fedina penale, i loro trascorsi. Magari qualcuno potrei rintracciarlo anche su google. 
Che differenza fa? Ho parlato con quella costola di umanità che mi interessava conoscere. E che mai avrei sospettato potesse così fortemente turbarmi. Con quegli sguardi, un po’ curiosi, un po’ affannati, che a tratti accennavano un sorriso ironico, ma anche amaro, che continuerò a portarmi dentro. In attesa magari di un’altra sortita. Perchè dopo che sei stato lì, per una volta, tempo un paio d'ore, quando esci, non è più lo stesso. E forse neanche tu, sei più lo stesso.

“Se vuoi, io sono qui. Tanto non mi muovo” mi ha detto Lino prima di salutarmi, stringendomi la mano. Non so quando, ma sento che ci rivedremo.