Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

giovedì 31 luglio 2014

"Il colore è una variabile dell'infinito": in un libro... come nella vita

Basterebbe l'entusiasmo contagioso di una nipote nel raccontare la storia straordinaria di suo nonno. Basterebbe l'energia adrenalinica di quel nonno, capace di inventare i piu evoluti motori aeronautici, e pochi anni dopo di progettare quel fenomeno di tecnologia e costume chiamato "lambretta", per entusiasiarmi dell'italica creatività.
Basterebbe leggere e fare proprio questo libro, per innamorarsi di una vicenda umana grondante tenerezza, orgoglio e passione di rara purezza.
"Il colore e' una variabile dell'infinito".
E' il libro di Roberta Torre. Il libro che negli ultimi tempi mi ha contaminato maggiormente di quella permeante emozione che ogni libro - ogni bel libro - ha il potere di donarti.
Un viaggio. In fondo il libro, altro non è che un viaggio. Un viaggio nell'anima. Di chi lo interpreta. E di chi lo scrive. Specie quando si tratta di una biografia (che essendo biografia di un nonno diventa anche un po' autobiografia).

Quello che all'apparenza sembra perfino un libricino (poco piu di 120 pagine in una edizione grafica minuta) si rivela uno scrigno di sensazioni: la storia avvince, perché scorre via tumultuosa con l'impeto e la frenesia con cui il suo protagonista, Pierluigi Torre (nonno di Roberta, l'autrice) originario della Puglia ma trasferitosi presto al Nord per studiare, cresce la sua passione viscerale per la scienza, la tecnologia, l'evoluzione ingegneristica degli anni 20-30 del secolo scorso.

Prorompente e incessante e' la parabola che vede salirlo alla ribalta con scoperte e invenzioni sempre piu straordinarie in campo meccanico e tecnologico applicati all'aeronautica. Tanto da giungere perfino ad ideare un involucro particolare, capace di registrare tutti i movimenti di un aereo, e di ricostruirne dinamiche ed evoluzioni, perfino dopo la sua distruzione: la scatola nera.
Fino a quando non deve accettare il triste destino: quegli aerei, quel volo, che apparteneva al sogno cullato fin da bambino, erano diventati strumenti di guerra, veicoli di morte, apparecchi di enfasi propagandistica per il regime. Ma la scienza veniva prima, veniva avanti a tutto: anche al fascismo, anche all'ineluttabile futuro bellico.

Un racconto delicato, quasi che sua nipote, l'autrice - che e' per altro autrice televisiva non poco eccentrica e originale - ne abbia potuto spiare dal buco della serratura i capitoli che uno ad uno vanno a comporre il puzzle di una vita all'insegna dell'inseguimento. Di una nuova sperimentazione, di nuova nuova scoperta, di un nuovo traguardo scientifico, da donare, da offrire, da condividere con la propria Patria. Come l'invenzione della lambretta, fenomeno tecnologico prima e di costume poi, capace di coinvolgere e contagiare felicemente milioni di italiani: ideata, realizzata e collaudata dall'ing. Torre e dalla sua squadra di fedelissimi, nell'industria della Innocenti - quelli dei tubi, che si chiamano così per il loro produttore - capaci di portare la due ruote italiana, in competizione con la Vespa della Piaggio, alla velocità record di 202 km/h in Germania.
 
Una vita, quella di suo nonno, che è il prototipo dell'epopea di una generazione di avventurieri della scienza, capaci di procreare straordinarie novità e di assistere, al tempo stesso, ad un declino - alla fine degli anni 60 - che da generazione diventa anche interiore.
E che, nel caso dell'ingegner Torre, culmina nella ricerca ossessiva, stavolta, di una invenzione botanica, floreale, nella ricerca spasmodica di un colore. Frutto di esperimenti indefessi condotti notte e giorno per ottenere dalla propria serra, la nascita spontanea... di una rosa blu. Quella che adorava sua moglie, malata, e che lui, Pierluigi avrebbe voluto donarle, prima che fosse troppo tardi.
In fondo, per uno scienziato, cambia poco sapere che il destino della propria ricerca e' il futuro del mondo o il sorriso della persona più cara. L'obiettivo comune e' che la ricerca abbia un punto d'arrivo. E che quel punto, prima o poi arrivi a destinazione. Se per la persona più cara, ancora meglio.

Roberta Torre
Il finale... Il finale va letto. Perchè è un turbinìo violento e schizofrenico di interrogativi. Che catturano, trascinano, opprimono e angustiano. Il protagonista, quanto il lettore.
E che non tolgono un centimetro dell'empatia naturale che un personaggio come il Torre riesce a costruirsi, inconsapevolmente, lungo il cammino. Che poi altro non e' che la sua vita.
Il colore - in questo caso è il blu - e' una variabile dell'infinito. Proprio come le emozioni che sa ispirare... Proprio come il profumo di quella rosa...

domenica 27 luglio 2014

L'impresa di Nibali: dedicata all'Italia che ancora pedala...


E' il giorno del trionfo lungo i Campi Elisi, Vincenzo Nibali veste la maglia gialla nel giorno più bello per il ciclismo italiano: dopo 16 anni, dopo Marco Pantani, un altro italiano trionfa nella Grand Boucle.
Sarebbe fin troppo scontato ora sciorinare retorica e luoghi comuni su un successo che riaccende l'entusiasmo del nostro Paese per le due ruote più mitiche, che ispira paragoni importanti (e forse ingombranti) per il campione messinese.
Ci piace pensare che il successo di Nibali sia da dedicare a quell'Italia silenziosa che pedala.
Silenziosa proprio come il ciclista siciliano, di cui non si ricordano nè tweet nè frasi da prima pagina, ma che in quattro anni (gli stessi con cui ad esempio la Nazionale di calcio ha messo in fila due umilianti eliminazioni ai Mondiali) ha messo insieme qualcosa come la Vuelta (Giro di Spagna - maglia rossa) , il Giro d'Italia (maglia rosa) e ora il Tour de France (maglia gialla), in un crescendo cromatico di vittorie esaltante.

Nell'anno, questo 2014, che lo ha visto anche trionfare nel campionato italiano (vestiva il tricolore prima di indossare la maglia jaune, anche in Francia).
Un'Italia che non chiacchiera e soprattutto non urla, ma che fa.
Un'Italia che serve, non solo in questa domenica di trionfo - nella capitale di quei francesi che difficilmente si appassionano alla vittoria di un italiano - ma che è indispensabile anche in tutti gli altri giorni.
Serve tacere e soprattutto serve pedalare, perchè il presente (e il futuro) del nostro Paese non avrà discese ma solo grandi e impervie salite.
Ci vorrà classe, grinta e anche un po' di incoscienza - proprio come Nibali - per scalarle. L'incoscienza di chi non ha fatto troppi calcoli, andandosi a prendere la maglia gialla già il secondo giorno del Tour e l'ha tenuta, con l'intervallo di 24 ore appena, fino all'Arco di Trionfo.
E il giallo, quel colore magico con cui Pantani - tutt'altro che antidivo come il messinese - si era ossigenato perfino il pizzetto per salire sul gradino più alto del podio transalpino.

A proposito di calcio: il giallo (banana) rischia di diventare anche il colore dell'autogol più clamoroso del presidente in pectore della nuova Figc, quel Carlo Tavecchio, personaggio che sembra uscito da una commedia di Pozzetto, forse condizionato (negativamente) dalla quasi avvenuta elezione, si è abbandonato ad una metafora assolutamente evitabile su calciatori extracomunitari che altrove "mangiano banane e in Italia sono titolari".
Ora è iniziativa la ronda web di attacchi e critiche al dirigente federale.

Il problema, ancora una volta, sono le chiacchiere: quelle che avrebbe potuto e dovuto evitare Tavecchio - infortunandosi in una perifrasi forse troppo complessa - e quelle che seguiranno nei prossimi giorni non tanto sul programma e sugli obiettivi di una sua eventuale candidatura, ma solo e soltanto su questa infelice uscita.
Certo, è quanto meno arduo immaginare a capo di una Figc - chiamata a "combattere" la violenza negli stadi e spesso il razzismo negli striscioni - chi incappa in queste topiche. Alla vigilia di una stagione nella quale perfino le amichevoli (vedi Lazio-Perugia di ieri) sono l'occasione per scatenare i peggiori istinti degli immancabili vandali da stadio.
E' pur vero che non è da una frase, come da un rigore, per dirla alla De Gregori, che si dovrebbe giudicare un dirigente. Il quale, per primo, anche se ormai 70enne, dovrebbe aver imparato a tacere... in certi momenti. Proprio come Nibali: silente e a pedalare.
Che la nostra Italia prenda esempio...

giovedì 24 luglio 2014

Il sorriso non se ne andrà...

Il sorriso non se ne va.
Lo fanno le persone, specie quando il destino non è loro complice. Quando arriva troppo presto.
Arriva sempre troppo presto, ma con qualcuno ancor di più.
Il sorriso non se ne va.
Perchè ci sono persone che ce l'hanno dentro. E sanno offrirtelo senza volere nulla in cambio. Lasciandolo impresso. Piu' forte di un tatuaggio. E' il loro modo di esserci. E di restare.
Ora c'è uno squillo di tromba in più, in cielo. Ma quel sorriso, gioioso e sincero, non se n'è andato. Resta con noi, coi santantoniari.
Da custodire come qualcosa di prezioso. Come qualcosa di nostro.
(Ciao Roberto...)

lunedì 14 luglio 2014

Le "100 ramazze" a Gubbio: ambasciatori di una città finalmente "diversa"...

L'immagine è volutamente provocatoria.
Un tombino. Attorno, alcuni ragazzi che, incuranti di quanto esalato dalle viscere cittadine - gli umori più nefandi appesantiti dalla mancata manutenzione forse di mesi o forse di anni - si prodigano per "stappare" letteralmente i condotti di immediata coniugazione con le fogne cittadine. Una domenica mattina di sudore e fatica ma anche di grande abnegazione e gratificazione.
Anche perchè all'appello hanno risposto una cinquantina di volontari. Volontari e volonterosi, capaci di prodigarsi - senza alcun necessario corrispettivo - per la propria città.
"Vacci tu a stappare i tombini" verrebbe voglia di rispondere a chi dovesse azzardare a proferire verbo (interrogativo) sull'utilità di questa iniziativa.
E anche il fatto che l'associazione (definizione semanticamente meno ostile di quanto ormai non abbia assunto, inconsciamente, il termine "comitato") si chiami "100 ramazze", vuol dire che nel Dna di chi ne fa parte, non sarà certo la fatica a destare preoccupazione.
E sul piano squisitamente numerico, non va trascurato che per raggiungere l'obiettivo da denominazione ("100 ramazze") domenica si sia fatta già... metà dell'opera.

Una specie di ambasciatori inviati nelle magagne cittadine: questi paiono i ragazzi protagonisti di una domenica mattina che, valore aggiunto dell'intraprendente volontà, si ripromettere di diventare solo il primo capitolo di un libro tutto da scrivere (ad esempio, mercoledì sera nuova riunione a San Domenico).
La città ha bisogno di idee, e quelle ancora un po' latitano. Ma ha soprattutto bisogno di braccia e di olio di gomito, per dare corpo alle idee e sopperire ad un vuoto - non solo amministrativo - che oggi pesa come un macigno. Del resto, un po' come in campo pubblicitario, spot chiama spot: e allora, buona iniziativa chiama e stimola altre buone iniziative.
Senza correre il rischio di cadere in retorica mettendo, ad esempio, a paragone la fattiva operosità di questo gruppo di cittadini con le latitanti attese cui spesso il Palazzo (Pretorio) condanna quegli stessi cittadini (ad es: l'approvazione di un piano per il centro ippoterapico Spirit che attendeva lumi solo... dal 2002).

Dove a spingere, stimolare, incentivare c'è solo, ed esclusivamente, il gusto di esserci. E di dare un contributo alla propria comunità. Senza chiedere nulla in cambio. Quello stesso piacere, spontaneo ed intimo, che ad aprile provai con qualche amico scout, in un sabato pomeriggio, insieme a don Fausto Panfili, nel risistemare e ripulire quel piccolo scrigno architettonico e mistico che è la cappella di San Gervasio, nei meandri del convento di S.Ubaldo. Dove per tre secoli fu conservata la salma del nostro Patrono, ma dove da "qualche secolo", in senso lato, a nessun eugubino era concesso di accedere

E allora, dopo Parco Ranghiasci (ridotta ad una selva neanche troppo oscura, a inizio maggio, e ripulita alacremente dai volontari), ora è toccato ai tombini.
Chissà la prossima missione. Siamo curiosi di conoscerla. E certamente di incoraggiarla. Magari, perchè no, unendoci tutti, ai 50 straordinari ambasciatori di una "Gubbio diversa".
Senza etichette (men che meno politiche) ma con la sola voglia di dare e di amare: ovviamente Gubbio.

giovedì 10 luglio 2014

Storia di finali mondiali: e di pronostici ribaltati (proprio i tedeschi dovrebbero saperlo...)

La storia dei Mondiali e' piena di finaliste nettamente superiori alla squadra che poi e' diventata Campione del Mondo.
Mantengo la promessa di non parlare di Italia almeno fino a lunedì. Ma alla vigilia della finale del Maracana', con un paese sull'orlo della (esagerata) crisi depressiva, ci si appresta ad assistere a quella che potrebbe essere la piu' appassionante o noiosissima finale dei Mondiali della storia.

Non ingannino i nomi, in nessun senso.
La testa dice Germania, nettamente. Il gap teorico tra la qualità tecnica e la perfezione scientifica del gioco della squadra di Loew - di cui perfino la chioma fluente risponde ad un 4-3-3 molto audace verso l'universo femminile - e lo sparagnino pragmatismo della formazione di Sabella - di cui finora si e' apprezzata piu la quasi caduta per svenimento sulla traversa di Higuain che non le idee tattiche - e' a dir poco eloquente.

La Germania e' una macchina oliata mirabilmente per macinare gioco, produrre occasioni da rete e tradurle in modo positivo. Con gli automatismi e la dinamica chirurgica di due squadre (Bayern e Borussia) che danno l'asse portante alla Nazionale, irrobustita dall'autostima di anni di vittorie con i club più titolati. Con in piu una difesa sufficientemente granitica (4 gol subiti ma quello di Oscar sul 7-0 non sarebbe neanche da mettere a referto) davanti ad un portiere semplicemente mastodontico.

L'Argentina ha finito da un pezzo di specchiarsi su se stessa, finendo per ammaliare gli ortodossi dell'estetica nei primi turni e poi puntualmente uscire annegata in qualche ottavo o quarto girato male (le accade da un quarto di secolo). E' semplice ed efficace, non concede nulla di superfluo al pubblico che non sia qualcosa che somigli ad un'azione pericolosa nel versante avverso. Nel dubbio, palla a Messi aspettando l'ispirazione giusta (che per la verità dagli ottavi in poi si e' limitata all'assist a Di Maria contro la Svizzera).

Sulla carta, dunque, e' partita da 2 o 3-0 per i tedeschi.
Ma quanto conta la carta o il pronostico in una finale secca come quella del Maracana'? Lo sapremo domenica, ma potrebbe non contare nulla.
Non lo dico io, ma la storia di questa competizione, nata nel 1930 con la Rimet e trasformata con la splendida coppa di Cazzaniga nel 1974.


Foto di rito prima della finale Ungheria-Germania O (1954)
La storia di questo cammino quadriennale e' costellata di pronostici ribaltati proprio nell'atto conclusivo.
Senza scomodare l'ormai inflazionato "Maracanazo" (la cui rima infelice ispira allusioni piuttosto ironiche), basti pensare ad un paio di squadre restate nel mito ma paradossalmente uscite battute da una finale mondiale.

Nel 1954 l'Ungheria di Puskas, Kocsis e Hideguty che rifila nel primo turno 8 gol (non 7, ma otto!) proprio alla Germania ovest, salvo poi perderci 15 giorni dopo in finale per 3-2 (pur con l'ombra degli anabolizzanti che graverà sulle teste germaniche per almeno 20 anni).

Nel 1974 l'Olanda di Cruyff, l'arancia meccanica del calcio, la piu' totalizzante rivoluzione tattica del calcio moderno, approda trionfante in finale a Monaco di Baviera, va pure in vantaggio dopo 56 secondi ma alla fine cede 2-1. Indovinate a chi? Ancora ai tedeschi (stavolta senza l'ombra del doping, usato invece come pratica religiosa al di là del muro in casa DDR).

Insomma proprio la Germania dovrebbe sapere bene che di pronostici si può pure "morire". E in fondo il colosso teutonico, dopo quelle due venture, tutt'altro che ipotizzabili, ha alzato la Coppa solo un'altra volta, a Roma, 24 anni fa, con un rigore generoso (per non dire altro) a 8' dalla fine, al termine di una partita semplicemente inguardabile.


Mattheus e Thon festeggiano a Roma
Ergo: sono proprio le Germanie meno esaltanti quelle che alla fine hanno brindato. Pur riconoscendo alla Nazionale tetutonica una costanza di risultati che nessun altro può vantare: la quarta semifinale consecutiva (nuovo record) centrata la scorsa settimana, è lì a blindarlo.
 
In ogni caso, lasciamo stare i pronostici.

Piuttosto ci sarà un altro sottile fattore importante domenica a gravare sulla testa dei protagonisti in maglia bianca (spero, sia quella, al posto dell'orripilante pigiama rossonero sfoggiato a Belo Horizonte...): quei 7 gol titanici rifilati al Brasile in casa sua. Non tanto per il pubblico di casa - che faticherà  comunque a tifare Argentina - quanto per se stessi. Per la testa, per la psicologia, per la tenuta mentale della gara.

La Germania inconsapevolmente ha creato un'aspettativa e dunque una pressione che potrebbe ritorcersi contro. "Se perdiamo, quel 7-1 non conterà più nulla" si è affrettato a dire Loew in conferenza stampa. Il solo pensare di poter perdere, ad esempio ai rigori, dopo avere umiliato la Selecao, e' un'opzione che rischia difar saltare come un granello di sabbia l'indistruttibile macchina tattica di Joachin Loew.
Che e' sempre arrivato ad un metro dal traguardo, ma non lo ha mai tagliato davanti a tutti.

Joachin Loew
Stavolta ci riuscirà? Forse. Chissà. Probabile ma non è scontato.
Di sicuro mai come stavolta la Germania si presenta nettamente favorita, e quasi "condannata" non solo a vincere ma a stravincere contro un'Argentina sulla carta decisamente meno organizzata e fondata essenzialmente sull'estro di un giocatore.

Non dovesse accadere, dovesse succedere l'impronosticabile al Maracanà, una sorta di "Maracanazo" uber alles, forse, il senso di frustrazione, dalla Merkel in giù, sarebbe anche maggiore di quello che stanno vivendo, in queste ore, i 200 milioni del popolo verde oro...

martedì 8 luglio 2014

Dal "silenzio stampa" con me stesso a tre libri diversi... ma tutti da suggerire...

Sono entrato in "silenzio stampa" con me stesso. Sarà l'estate, sarà la necessità (non solo fisica) di staccare, sarà che per la prima volta, forse, il taso off nelle due settimane di ferie ha assunto un connotato totale.
E così ho voluto staccare anche dal blog. Non che qualcuno si sia strappato le vesti (immagino) ma un po' mi è mancato. Almeno a me. Scrivere è un po' come fare jogging, o dilettarsi in una partita di calciotto: nulla è indispensabile, ma dopo un intervallo di tempo standard, si passa nella dimensione "nostalgia".

Intanto la delusione azzurra dei Mondiali è metabolizzata. Mi sono ripromesso che avrei scritto qualche riga solo a campionato concluso e, dato che si tratta ormai di aspettare più poco, manterrò questo fioretto. A caldo avrei lasciato nero su bianco qualche "scemenza" in più. Il tempo aiuterà a drenare le peggiori. Certo, che nel giro di 3 settimane, rileggendo anche il mio post, ancora un po' fiducioso, del 21 giugno, sembra passato uno tsunami sotto i ponti...

Nel frattempo l'otium balneare ha favorito una lettura intensiva - di parte dei 21 libri affidatimi come immeritato membro della giuria del premio letterario "Onor d'Agobbio" - e soprattutto ha sancito la definitiva stesura su cui sto lavorando da un anno circa, e che ormai vede finalmente il triangolino rosso (restando all'attualità del Tour de France) dell'ultimo chilometro.
Chi vivrà vedrà...

A proposito di libri: tre suggerimenti ci sono per chi si imbattesse in questo post - e nutrisse ancora un briciolo di fiducia nel sottoscritto. I miei parametri di valutazione di un libro sono piuttosto empirici. Direi quasi pitagorici, in quanto stimo la qualità della mia lettura - sui temi e le dinamiche più svariate - in base ai giorni necessari a completare il libro.
Fermo restando il record, al momento inavvicinabile, di "Spostando la notte più in là", di Mario Calabresi (divorato in un giorno solo), sono tutti rientrati nel range tollerabile di una settimana i tre che vi vado a segnalare.
I primi due, non volendo, sono di Longanesi, casa editrice mai banale quanto a scelte, in chiave storica (che adoro) e non solo.

"Un amore partigiano" di Mirella Serri. Per la serie: chi ama immergersi (e anche un po' perdersi) tra i misteri ancora nascosti e non del tutto dissotterrati, del turbolento periodo 43-45, non deve rivolgersi solo a Giampaolo Pansa (la cui lettura comunque non fa male). Appassionante l'intreccio della vicenda del capitano Neri - al secolo Luigi Canali - a capo del gruppo partigiano che catturò Mussolini a Dongo, e poi finito (il Canali) sotto i colpi degli stessi partigiani per un regolamento dei conti su cui si è fatta luce (e giustizia) solo nel 2004. Con lui, legata nell'amore e nella sorte (drammatica), Giuseppina Tuissi, conosciuta come la partigiana "Gianna", staffetta temeraria di decine di missioni, finita nel tritacarne spietato delle esecuzioni post-Liberazione, per una serie di meschine ingiustizie. Singolare quanto intrigante, l'accavallarsi del loro destino, con quello di Claretta Petacci, che seguirà il Duce anche nella sorte e che rivelerà, nelle poche ore trascorse insieme ai suoi guardiani, un profilo inedito rispetto alla storiografia generale. Se vi piace la storia, il noir, un po' di giallo e avete le idee poco chiare su quello che anche la Resistenza ha saputo (per decenni) nascondere, non vi annoierete affatto.

Sempre da Longanesi, un libro che difficilmente lascerà indifferente anche il più distratto e superficiale dei lettori: "Acquanera", di Valentina D'Urbano. La storia misteriosa di tre donne, Elsa la nonna, Onda la madre e Fortuna la figlia, raccontata con l'ormai classica sequenza temporale a step, tra passato, presente e futuro. Tre donne con una dote particolare, e per certi versi irreale. Quella di vedere, sentire o addirittura ascoltare la voce dei defunti. Un racconto che coinvolge e sconvolge, forte anche di una potenza descrittiva potente, con cui l'autrice riesce ad immergere il lettore nell'acqua oscura e macabra di un lago dentro al quale si sono perse vite e si sono costruite leggende. Una storia gravida di tristezza, per il fragile e astioso rapporto tra madre e figlia, sul quale si erge la figura di una nonna capace di sorreggere il peso della nullità altrui. E sullo sfondo, ma con un ruolo da protagonista, appare una quarta figura femminile, Luce, che irradia la parte conclusiva del racconto, finendo per esserne eroina tragica finale. Se avete allergia per i cimiteri, non lo aprite neppure. Altrimenti, sarà probabile che lo finirete nel giro di 3 giorni.

Edito da Cairo, ha invece lo stile di un giallo spensierato e di giocoso intrattenimento, "La tela del Doge", primo romanzo di Paolo Forcellini, che ci accompagna nella sua Venezia attraverso un personaggio - il commissario Marco Manente - alle prese con una fresca separazione, un'irrefrenabile tendenza alla degustazione di prelibatezze locali (anche enologiche), un indiscutibile appeal verso le donne (pure quelle su cui deve indagare), il tutto nel bel mezzo del Carnevale veneziano, tra le calli e le locande di una città immersa nel suo passato, per smascherare le trame di un omicidio misterioso, che nasconde un losco traffico d'opere d'arte, architettato da un insospettabile personaggio altolocato. La trama è avvincente, ma è soprattutto la narrazione che esprime freschezza e stimola una lettura agile e approfondita. Il lieto fine è un po' banale e scontato ma non lascia insoddisfatti: chi ama i polizieschi di provincia (se Venezia può considerarsi tale), le dotte descrizioni culinarie, i raffinati abbinamenti di vini come anche qualche stuzzicante fantasia etorica, non rimarrà deluso. Lo stile ricorda i gialli toscaneggianti di Marco Malvaldi. Con qualche "macchietta" in meno, ma con un personaggio totalizzante, il commissario, che merita di farla da padrone, dall'inizio alla fine. E senza sparare un colpo...

Per ora la lettura finisce qui. Proseguirà, con ritmi decisamente meno intensi, nelle prossime settimane. Obiettivo, quota 21 entro fine agosto. Un piacevole e appassionante tour de force... in attesa di sfogliare un qualcosa di mio...