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martedì 13 luglio 2021

I colori di un Europeo da incorniciare: dal carisma del Mancio alla stampella di Spinazzola...

Ci vorrà ancora un po' per metabolizzare il valore di una vittoria come questa: Italia Campione d'Europa.

Era successo una sola volta, prima ancora che nascessi. E in situazioni molto diverse (non esistevano neanche i supplementari, la semifinale l'avevamo vinta con la monetina come neanche nel vicolo sotto casa avremmo mai pensato, e la finale con la Jugoslavia venne rigiocata il lunedì dopo uno scialbo 0-0). E senza l'impatto mediatico di oggi.

Le emozioni di domenica, però, resteranno impresse a lungo nelle nostre menti, avranno una loro identità: perchè anche se sono stati i rigori a regalare la Coppa – come già avvenuto nel 2006 – l'escalation è stata diversa.


Come quegli istanti di incertezza dopo la parata finale di Donnarumma (neanche lui aveva capito subito di aver vinto, non è un robot fortunatamente) che avranno lasciato interdetti milioni di italiani.

Lo confesso: dopo l'errore di Jorginho non ci speravo più. Quei secondi che separavano il fischio dell'arbitro dalla sua lenta e saltellante rincorsa, li ho trascorsi a gridargli di guardare il portiere, come se potesse sentirmi: se segnava, eravamo campioni. Niente da fare. E mentre lo vedevo scuotere la testa per l'errore imperdonabile, davo per scontato un epilogo simile a 5 anni fa quando l'eccessiva esuberanza dal dischetto di Zaza e Pellè, ci costò il passaggio in semifinale, potendo andare addirittura avanti 3-1 nei rigori coi tedeschi.


Invece stavolta è andata bene. Perchè quando vinci ai rigori devi dire solo questo: “è andata bene”. Con molta meno filosofia, invece, si digerisce il concetto che “è andata male” quando si perde. E la mia generazione lo sa: avendo trascorso i suoi 20 anni, fino quasi ai 30, a disperarsi per le puntuali sconfitte degli azzurri dagli undici metri.

E' andata bene anche avere in porta un “sacramento” come Gigio Donnarumma. Che sarà pure gestito da un manager avido e senza scrupoli, ma è prezioso per il calcio italiano come il David di Michelangelo lo è per Firenze.

Ora andrà a prendersi 60 milioni in 5 anni a Parigi e tornerà presto ad essere meno simpatico: ma quando la Nazionale potrà affidarsi a lui, non dovrà temere neanche l'epilogo dei rigori. Come ha detto Mancini “due almeno ne para. O li fa sbagliare” (che è quanto avvenuto puntualmente con Olmo e Rashford).

Poi è ovvio, anche qualcuno dei nostri deve metterli dentro.

A proposito: chapeau per Bernardeschi e Bonucci.

Prima ho volutamente citato l'ex gigliato: in fondo è il suo il gol che ha deciso la finale...

Uno dei giocatori più bistrattati dell'ultimi quinquennio, sbeffeggiato dai suoi tifosi forse più che da quelli avversari, reduce da un paio di stagioni semplicemente da cancellare. Ha giocato le sue gare all'Europeo in punta di piedi, senza strafare, ma facendo il suo. Un palo col Galles, e qualche spunto. Molta diligenza tattica. Nulla di eccezionale ma anche libero da quelle paure che in bianconero sembravano traviarlo. Poi si è presentato 2 volte sul dischetto, in una semifinale e in una finale europea: ci vogliono gli attributi per questo, altro che. 

Mi ha ricordato De Rossi che sul dischetto in finale coi francesi andò nel 2006 dopo 4 turni di squalifica. A chi gli chiese: “Ma tiri? Se sbagli ti massacrano”. “Sto peggio a guardare gli altri tirare senza prendermi la responsabilità” rispose.


Bonucci, sul fronte attributi, invece non è una novità.

E' un po' il Materazzi di questi anni: amato-odiato dalle tifoserie, in Nazionale mette tutti d'accordo. Gol pesanti i suoi, quelli buoni e quelli annullati (aveva già segnato al Belgio ma in leggero offside), ma soprattutto anche qui grandi spalle (o se preferite, togliete la s) ad andare sul dischetto. Dove ha avuto in azzurro alterne fortune (errori con Spagna e Germania ma anche il pari sempre con i tedeschi 5 anni fa, quando tirò in gara semplicemente perchè avevamo finito i giocatori in grado di stare in piedi).


E poi il capitano: Giorgio Chiellini. Un giocatore immenso, con quel viso da vecchio artigiano della pedata che tradisce invece l'indole di un ragazzotto vigoroso ma signorile, spietato nelle marcature quanto sportivo e sorridente con gli avversari, appena un frangente anche in gara consente di smorzare la tensione. Uno che abbraccia tutti, e non sai se nel frattempo ti prende le misure, che "gigioneggia" durante il sorteggio dei rigori con la Spagna come dovesse giocarsi un gelato a briscola, uno con laurea e master, destinato a ruoli dirigenziali: nella Juve o direttamente in Federazione. 
E che finalmente ha alzato una Coppa europea, avendo dovuto ingoiare troppi rospi in bianconero (senza i suoi ciclici infortuni muscolari, la sua storia europea e quella della Juve, a mio avviso, sarebbero molto diverse).

Uno che davanti al Capo dello Stato non ha dimenticato l'amico Davide Astori. Che volle salutare, insieme alla squadra bianconera, unica presente, l'ultima volta al funerale, pur essendo poche ore prima in campo proprio a Londra contro il Tottenham di Kane.



Questa Coppa ha anche il volto di Jorginho, brasiliano di nascita ma che in Italia è calcisticamente cresciuto, partendo dalla periferia e dalla serie C, passando per la B (con il Verona anche a Gubbio) e arrivando a vincere nello stesso anno Champions League ed Europeo. Infallibile dagli 11 metri, proprio in finale ha dimostrato che non si giudica un giocatore da un calcio di rigore. Specie se a risputartelo fuori è un palo interno. Dopo 20' temeva (e noi con lui) di aver finito il torneo. Due ore dopo era sul dischetto. Giocatore monumentale sul piano tattico, che raccoglie l'eredità di gente come Ancelotti, Albertini o Pirlo. E che purtroppo le big italiane non hanno saputo intercettare prima che arrivasse il magnate russo del Chelsea.


La serie C e la serie B: quanti talenti inespressi vegetano in queste lande pedatorie senza la giusta fortuna? 
Nove anni fa, non un secolo, il trio di scugnizzi del Pescara, Verratti, Insigne e Immobile, faceva le fortune dell'ultima apparizione vincente di Zeman, trascinava i biancazzurri in serie A. 
Posso dire di averli visti all'opera, al Barbetti, con il pubblico a dimenticare per un giorno i propri colori ma ad applaudire indistintamente chi – per dirla con mio zio Giulio – giocava “a calcio” mentre noi “giocavamo a pallone”. 

Come i Grosso, Materazzi e Gattuso venuti dalla C e diventati campioni del Mondo, i tre talentuosi azzurri dimostrano come basti cercare bene, cercare ovunque, cercare con intelligenza nei meandri del calcio italico, per trovare talenti. Anzichè riempire le nostre categorie di anonimi e non sempre volonterosi stranieri, che non servono più neppure per qualche abbonamento pre-campionato.


Due righe le merita Federico Chiesa: che a differenza dell'omonimo Bernardeschi, arrivava da una stagione top, dove già aveva dimostrato che più alte sono le vette, e più il figlio da'arte sfoggia un'abilità di scalatore dolomitica. L'Europeo lo ha consacrato come top player. Unico azzurro capace di spaccare una partita, di creare un pericolo dal nulla, di dare scompiglio alla monotonia, invertire un'inerzia. I gol che ha siglato parlano per lui: istinto e classe, capacità di osare. 
Ma è quella staffilata in finale, durante il primo tempo, con l'Italia che non aveva ancora tirato in porta e soffriva l'entusiasmo degli inglesi, è forse una delle azioni più importanti: da lì in poi, i sudditi di Sua Maestà hanno cominciato a tremare. Hanno capito che sarebbe stata dura. E lunga.


Se invece dovessi trovare un'immagine simbolo di questo trionfo, ricercando un semplice oggetto, penserei alla stampella di Leonardo Spinazzola: l'alfiere umbro di questa splendida pattuglia azzurra, grande protagonista fino ai quarti con le sue scorribande a sinistra (degne di un Cabrini o per restare agli ex grifoni, di un Fabio Grosso). La fortuna non lo ha aiutato neanche stavolta, resterà fuori a lungo, ma questo non gli ha impedito di restare protagonista anche fuori dal campo. 


Diventando uno dei motivi che hanno spinto la squadra a dare di più; tornando a Wembley dopo un'operazione subita in Finlandia; affiancando la squadra nel momento più decisivo e finendo prima di tutti sul podio, con quelle grucce che dicevano tutto su quanto questo gruppo fosse unito, granitico, più forte di qualsiasi avversità. 
Che si chiamasse pubblico ostile, gol subito a freddo, o più semplicemente sfortuna. Non è un caso che sia Mattarella che Draghi lo abbiano citato nei loro discorsi celebrativi. Mi chiedo ancora come abbia fatto la Juve a privarsi di un giocatore così...


Ma se in questa Italia senza primedonne, con Bonucci "capocannoniere" a 3 e tutti gli altri appaiati a 2 reti (nell'ordine, Immobile, Insigne, Chiesa, Locatelli, Pessina e mettiamoci pure Bernardeschi) esiste un leader, questi è senza dubbio Roberto Mancini.

Essere leader non significa essere soli. Tanto che lui, il suo staff, se lo è scelto direttamente tra gli ex sampdoriani più fidati. 


A cominciare da Gianluca Vialli, esempio di vita prima ancora che di calcio. Il loro abbraccio e quelle lacrime, valgono più di ogni commento. In più Oriali e De Rossi, che hanno vinto Mondiali diversi in ere diverse, ma che sanno cosa serve per arrivare fino in fondo.


La sua calma quasi olimpica, così lontana dall'esuberanza che esprimeva da giocatore (cui la maglia azzurra non ha mai regalato soddisfazioni) ma anche competenza e determinazione, ne hanno fatto un personaggio di indiscusso carisma. Sta girando un video sul suo discorso pre-gara: “Sapete cosa dovete fare, non siamo qui per caso. Non pensiamo che quel che accadrà dipenderà dall'arbitro o dagli altri. Dipende solo da noi”.

Bellissimo. Anche se, confesso, certe immagini andrebbero lasciate nell'intimità di uno spogliatoio. Se il video ormai svela pure questo, non resta nulla di segreto, di fantasticamente nascosto, del “dietro le quinte” calcistico.


Era scritto che vincessimo. Forse era scritto da qualche parte. Venivamo da una cocente delusione (mancata qualificazione ai Mondiali). Come nell'82 l'Italia era reduce dal primo calcioscommesse, o nel 2006 da Calciopoli. Vicende diverse ma non meno traumatiche della “apocalisse tecnica” firmata Ventura-Tavecchio.


Era scritto perchè la finale era l'11 luglio. Una data che per un tifoso italiano non poteva essere macchiata da una sconfitta. Quell'11 luglio di 39 anni fa gli azzurri del “Vecio” Bearzot e soprattutto Paolo Rossi si consacravano, contro ogni pronostico. Già, Pablito. Non potevo non pensare che a pochi mesi dalla sua scomparsa, il destino non si sarebbe divertito a ricompensare i tifosi azzurri. 


Non a caso, è quanto accaduto anche agli argentini (sempre contro la nazionale ospitante), poco dopo la scomparsa di Diego Maradona. E in fondo, era accaduto anche nel 1994 ai brasiliani, che vinsero (sempre dagli 11 metri) contro di noi, ricordando la scomparsa di due mesi prima di un mito come Ayrton Senna.

Sarà tutto casuale? Ognuno la pensi come vuole. Io credo di no...