Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

lunedì 18 novembre 2024

Jannik Sinner: chiamatelo pure "L'Ingiocabile". E quella sensazione che il bello debba ancora venire...

L'aspetto più deteriore nei successi di un campionissimo è la convinzione, radicata gradualmente nei suoi tifosi, che la vittoria sia qualcosa di scontato. Il rischio con Jannik Sinner è gigantesco, come lo è la sua prestazione complessiva in questo 2024 semplicemente da incorniciare. Culminato, almeno nelle competizioni ATP; nella splendida vittoria alle Finals di Torino. Dove non è bastato un Taylor Fritz sontuoso e definitivamente sbocciato, per sbarrare la strada al "Fenomeno della Val Pusteria" (definizione che avremmo fino a qualche anno fa, immaginato per un campione di slittino).


Jannik Sinner in tre anni ha scalato le vette più ripide dell'Olimpo tennistico, portando l'azzurro dove mai avremmo nemmeno sognato: numero 1 al mondo, vincitore di 2 Slam, vincitore delle Finals e trascinatore della Nazionale alla riconquista, dopo 47 anni, della Coppa Davis. Lo racconteremo ai nipotini tra qualche anno a Natale dondolandoci davanti al camino...

Il segreto - che pare anche garanzia di continuità nella striscia straordinaria - sta soprattutto nella testa e nella mentalità di questo 23enne, cresciuto tra le vette dell'Alto Adige, in quella terra bilingue che visse la tragedia della Grande Guerra e che oggi è meta ambita degli amanti dell'alta quota e delle piste innevate più affascinanti. "Se perdo il giorno dopo mi alleno. Se vinco, il giorno dopo mi alleno". Il resto lo fa madre natura, che lo ha dotato di un talento sconfinato, ma anche di una capacità di abnegazione impareggiabile: lo dimostra la crescita tecnica su alcuni fondamentali che tre anni fa erano un limite (la battuta), la tenacia inflessibile con cui reagisce anche ai momenti più delicati, la capacità quasi robotica di sovvertire le situazioni più compromesse (già nella storia lo 0/40 sul 4/5 del secondo set contro Djokovic nella David 2023, da cui risalì per vincere il set e poi il match, regalando all'Italia la finale con gli australiani).


Per raccontare degnamente Jannik Sinner e le sue imprese servirebbe ampliare lo Zanichelli
con nuovi aggettivi. Ci rinunciamo in attesa di rinfrescare il suo palmares personale e di squadra. Già, perchè ora arriva la Davis. A Malaga l'Italia si presenta da detentrice del titolo, da aspirante vincitrice, da squadra da battere. Insomma c'è tutto per andare incontro ad una colossale trappola e ad una cocente delusione, se la mentalità non sarà quella di Jannik.

Sia da parte della squadra che della tifoseria: perchè se c'è un solo aspetto deleterio nelle straordinarie vittorie di un campionissimo - ormai già paragonabile ai fenomeni moderni dello sport azzurro, come Tomba, Valentino o Fede Pellegrini - è l'assuefanzione alla vittoriaChe invece resta la cosa meno scontata di questo mondo (chiedetelo agli americani del basket). A Malaga ci aspetta un'Argentina che non ha nulla da perdere, e se dovessimo andare avanti il team USA con il dente avvelenato e caso in finale probabilmente quella Spagna padrona di casa con il duo Alcaraz-Nadal, e soprattutto con il maiorchino che vorrà chiudere la carriera con l'ennesima coppa da alzare al cielo.

Non sarà facile ma c'è un dettaglio che rende ancora inebriante la sequela di trionfi di Jannik: la sensazione che sebbene il bottino sia già ricco come non mai... il bello debba ancora venire.

mercoledì 30 ottobre 2024

Quel 30 ottobre 1977: quando mi ritrovai nello stadio che si sarebbe chiamato Renato Curi...

Quel 30 ottobre avevo 6 anni e mezzo. Ho un pallido ricordo, forse tra i più acerbi che mi restino in memoria, di quella domenica grigia e piovosa allo stadio di Perugia, che si chiamava "Pian di Massiano". Quando mio padre mi portò a vedere la Juventus. Credo sia stata la prima volta per me.

Solo ammirare quelle maglie bianconere, dal vivo, capaci di materializzare le immagini sbiadite della tv di casa, opposte al rosso vivo delle casacche di una squadra che in fondo strappava simpatia e curiosità, suscitò un'emozione sconosciuta. Era tutto vero. Vedevo Zoff guidare la difesa, blindata dall'agonismo di Gentile, l'onnipresenza di Furino, l'eleganza di Scirea. E poi a centrocampo le falcate di Tardelli, la durezza di Benetti, le piroette laterali di Causio. E in attacco il carisma di Bettega e la suggestione di Boninsegna. Nomi quasi mitologici nell'immaginazione di un bambino che quei volti li aveva visti solo in una figurina adesiva: anche quella dalla fragranza e dal profumo inconfondibile.


Mancava solo la sigla di 90' minuto e la voce familiare, abbinata al sorriso come fosse quello di uno zio di fuori porta in visita domenicale, di
Paolo Valenti.
Sembrava di immergersi in un mondo parallelo, un avatar affollato e chiassoso, distante dalla quiete quotidiana della mia cittadina di periferia, focalizzato più dagli odori e dai fragori degli spalti che dalle immagini. Il fumo di marlboro che in tribuna si mescolava all'aroma delle noccioline, acquistate da goffi omini attempati, con berretto, barba incolta e accento meridionale, condannati a penetrare faticosamente l'intera superficie delle gradinate, gremite come un alveare brulicante. E il brusio delle masse che si trasformava in un boato non appena la palla dagli esagoni neri e il cuoio ruvido, si avvicinava al limite dell'area. Un vero circo fatto di sensazioni infinite.


Doveva essere un pomeriggio gioioso anche se infastidito dalla pioggia torrenziale. Finì con un rientro cupo e silente
. Con mio padre che cercava nervosamente di carpire notizie dalla radio in auto, dopo che, solcando la folla in uscita dallo stadio, l'unica frase che scorreva nitida tra gli ombrelli sgocciolanti era: "Dicono alla radio che è morto...". Non sapevo esattamente neanche chi fosse. Non potevo sospettare la tragedia che si era da poco consumata. Non riuscivo a immaginare che da quel giorno in poi il suo nome sarebbe stato anche il nome di quello stadio, oggi così familiare: Renato Curi.

martedì 29 ottobre 2024

Il mio "Diario bianconero": quel 4-4 di S.Siro destinato agli annali. Ma è sbagliato definirla solo una partita pazza...


Alzi la mano chi avrebbe scommesso su questo risultato. Ma soprattutto chi avrebbe scommesso sul pari della Juve dopo 15' della ripresa. Il 4-4 di San Siro si candida a diventare una delle più memorabili sfide del Derby d'Italia: rocambolesca, imprevedibile, appassionante, fuori dagli schemi e dai pronostici. In un aggettivo, si direbbe pazza. Ma non è stato a mio avviso così. 
Non c'è follia in quanto accaduto al Meazza in 95 minuti (2 di recupero nel primo tempo, appena 3 nella ripresa) tra due squadre che hanno palesato qualità e limiti di questa stagione, in una sorta di realtà aumentata. 

Chi ne esce peggio è l'Inter che si guarda allo specchio - dopo aver pregustato la goleada contro i nemici di sempre - e si ritrova con tutte le sue rughe: non è la squadra robusta, rocciosa e impenetrabile di un anno fa, e almeno per ora incassa gol in tutte le gare. In più c'è un pizzico di presunzione, sufficienza e vanagloria di chi si sente basti lo scudetto sul petto, una seconda stella "tarocca" che con "un filo di gas" si possa bissare. Chi ne ha visti vincere 9 di fila sa invece che ogni anno si riparte da zero. E nulla può dirsi o darsi per scontato.

Chi ne esce rinfrancata - quasi fosse una vittoria - è la Juventus, splendida e contraddittoria creatura in divenire. Da qui alti e bassi di rendimento, costanza e solidità - riflesso anche di un'età media inferiore ai 24. Tanto che nel giro di 4 giorni i bianconeri  mostrano un gruppo fragile, pavido e passivo con lo Stoccarda, tornare audace, intraprendente e inesauribile con l'Inter. Con buchi paurosi in difesa ma fiammate incontenibili in attacco. Pochi lo avrebbero creduto: perchè continuano a mancare troppi giocatori (3/5 dei nuovi acquisti, ma in senso tattico il peso specifico di un Koopmeiners e soprattutto di Bremer incide molto di più); perchè una squadra che aveva nella difesa la sua certezza maggiore si è ritrovata ad annaspare dopo 60' con 4 reti sul groppone (di cui 2 rigori regalati) e altrettante evitate; perchè i riflessi del primo ko stagionale sembravano aprire incognite inquietanti. Le stesse scelte di Thiago Motta parevano togliere anzichè infondere sicurezza, forse pure alla squadra: l'insistenza quasi masochistica su un Danilo palesemente fuori giri, i cambi continui nelle scelte offensive (Vlahovic e Conceicao fuori dopo 1 ora in UCL, Yldiz fuori dai titolari a San Siro), rotazioni con tutti tranne che con Gatti, improvvisamente esodato. Insomma interrogativi aperti.

La reazione bianconera, dal 70' in poi, invece è stata prorompente e ha messo a tacere almeno i dubbi sul carattere del gruppo: nel momento peggiore della gara e della stagione, con l'Inter a sfiorare ripetutamente il quinto gol e Di Gregorio a ergersi a baluardo insperabile, la squadra ha trovato la forza di risollevarsi, trascinata dal giocatore più atteso e criticato (per altro giustamente) fino a quel momento. La doppietta di Kenan Yldiz ricorda i riscatti storici di suoi illustri predecessori, e può diventare il clic di questa sua stagione, e di quella della Juve, pur martoriata dalle sventure e troppo avvezza all'infermeria. Eppure non c'è nulla di folle in quello che l'estroso numero 10 turco ha realizzato. La parte inspiegabile di questa storia è dove fosse finito Yldiz finora. Contagiosa l'esuberanza tecnica e agonistica di alcuni suoi colleghi, da Cambiaso a Weah, ma soprattutto Chico Conceicao. Vero apriscatole delle difese, giocatore che si sta candidando al ruolo di "irrinunciabile".

Ultima nota di una serata in cui le ugole sono tornate a vibrare come nei tempi migliori, la dedichiamo al sig.Guida di Torre Annunziata. Reduce da panzane clamorose a Madrid in UCL, ha "tenuto" bene la gara - anche grazie all'atteggiamento delle due squadre - fino al 4-4. Poi ha messo in fila 2-3 decisioni inspiegabili che potrebbero apparire ininfluenti ma che la dicono lunga su come volesse evitare "problemi": il fischio a metà campo su Kalulu (che avrebbe aperto un contropiede 5 contro 3) è parsa una "chiusura preventiva" degna dei LoBello primi anni 70; i soli 3 minuti di recupero in una gara con 8 gol e tante sostituzioni ono parsi cervellotici. L'inerzia della gara era cambiata, verrebbe da dire. L'impressione è che l'arbitro volesse chiuderla prima possibile. Eliminando il rischio di qualche episodio da Var nei minuti conclusivi. Insomma, meglio togliere il disturbo prima che qualsiasi ipotesi di "rissa" scoppiasse nel saloon della Milano in smoking bianco (o nei successivi salotti del bon ton calcistico italico).

Tutto meno che pazzo, insomma, questo 4-4. E non ci sarà tempo di rifiatare: che già Juve e Inter ci dovranno dire subito, da mercoledì, come sono uscite da questo impensabile Derby d'Italia. Se più forti o più snervate. 

mercoledì 23 ottobre 2024

Il mio "Diario bianconero": lo Stoccarda è come un hacker su una Juve in versione Halloween. Ora serve resettare, E trovare un buon antivirus...


Almeno abbiamo capito di dov'era l'hacker che in settimana ha fatto credere per qualche minuto che la Juventus avesse acquistato Arda Guler. Sicuramente di Stoccarda. La Juventus peggiore di questa stagione cade per la prima volta, davanti al suo pubblico, e lo fa in modo fragoroso. Perchè l'1-0 dei tedeschi, arrivato al 92', è bugiardo. Perchè l'assoluto protagonista della serata, Mattia Perin, ha evitato un'imbarcata epocale. Perchè la squadra di Thiago Motta - mai indecifrabile e in confusione come stasera - è parsa la versione Halloween di se stessa. Con 10 giorni d'anticipo... La zucca è quel che resta di Juventus-Stoccarda: doveva essere una carrozza, si sperava nella terza vittoria su 3, e un'ipoteca almeno sui playoff di Champions. Bisognerà rivedere i piani. Ma cosa è mancato ai bianconeri? L'elenco è lungo, e si farebbe prima a dire cosa ha funzionato (a parte Perin). 

Pronti, via e i tedeschi tengono la Juve nella sua metà campo per 6 minuti e 50 secondi consecutivi. Con la Lazio era andata meglio (3 minuti), ma i demoni in rosso danno subito la sensazione di correre il doppio della velocità media del campionato italiano. Sempre in affanno, i bianconeri, sempre a rincorrere l'avversario, sempre secondi su ogni contrasto o pallone vacante. Difficile far girare la partita con questi presupposti. Il gioco dal basso prediletto dal tecnico ex Bologna è il grande assente della serata: lo Stoccarda l'ha studiata bene ma ha anche dimostrato che con applicazioni essenziali, l'attuale Juventus si può sterilizzare sul nascere. Basta schermare Fagioli - l'unico a dare lucidità alle poche trame di gioco - tenere sulle fasce (anche con qualche fallo in più che nel primo tempo l'arbitro ha seraficamente tollerato) e ripartire subito. Nella ripresa cambia qualcosa nell'inerzia del match: non a caso, con un Locatelli più sostanzioso, un Cambiaso ormai irrinunciabile per lo schieramento bianconero, un Weah di gamba. In avanti invece buio fitto. Vlahovic non ha palloni giocabili, Yldiz sembra ormai addentrato nelle nebbie di una dimensione auto-ipnotica, forse dettata da quel 10 che pesa (e qui la responsabilità sta anche in chi glielo ha dato), o forse da una sopravvalutazione di base. Morale, a farne le spese è Conceicao (misteriosamente escluso dopo 1 ora) e anche Vlahovic (per togliere riferimenti, ma di fatto eliminando l'unico uomo gol della squadra). Il tocco magico finale - dopo l'espulsione di un Danilo inguardabile - è l'inserimento di Rohui, anzichè di un Gatti che resta a sedere 97' in una gara così sofferta, come fosse un classe 2005-2006 di cui invece l'undici in campo era fin troppo guarnito. 

Dispiace. Soprattutto per Mattia Perin, eroe della serata, eroe silenzioso, protagonista di una prestazione ciclopica. Un portiere che legge - e lo ammette con l'aria di chi ti risponde se gli chiedi come sia sfogliare un vocabolario - e senza il quale stasera sarebbe finita 4-5 a zero (rigore parato escluso). Di sicuro sarebbe rimasto lo zero. Perchè di tiri in porta, nello specchio ma anche vicino, questa Juve non ne avrebbe fatti neanche giocando altre 2 ore.

Non è il momento di fare processi. Ma un'analisi lucida. Perchè è proprio la lucidità quella che è mancata in campo e in panchina. Non per mettersi in discussione (che non farebbe male), ma per trovare intanto un filo logico a dare un volto concreto all'attuale Juventus, senza appellarsi ad alibi che pure ci sarebbero (senza Koop, Nico e il Bremer che mancherà ancora a lungo). Gli assenti però resteranno ancora assenti per qualche gara. 

E quindi una chiave Thiago Motta ora e Giuntoli a gennaio, dovranno pure trovarla. Senza necessariamente rifugiarsi in una gestione dell'organico più simile a una squadra di C che deve fare minutaggioServe resettare subito, con un ctrl/alt/canc mentale e perchè no, anche tattico. Non solo perchè incombe San Siro, ma anche per non gettare alle ortiche il capitale di "credibilità" e autostima che questa squadra e questo gruppo si stanno faticosamente costruendo. Con un giusto bagno di umiltà (a cominciare dal tecnico) potrebbe pure diventare un passo falso salutare. Potrebbe. Ma serve l'antivirus giusto...


sabato 19 ottobre 2024

Giocare bene non conta nulla, se non si vince. Cosa ci dice Juve-Lazio, il primo "corto muso" stagionale

Suonano quasi come profetiche le parole di Thiago Motta alla vigilia di Juve-Lazio. "Giocare bene? Non è questione di estetica. Se si gioca bene, si ha più probabilità di vincere. Ma giocare bene è anche difendere bene, pressare bene, ripartire bene".  

Non passano più di 24 ore che va in scena Juventus-Lazio, di sicuro la vittoria più sofferta di questo inizio stagione: perchè ai bianconeri non basta giocare più di un'ora con un uomo in più. Si assiste ad un continuo e incessante giro palla sterile. Nessun giocatore che sia in grado di saltare l'uomo, di creare una minima superiorità. Latitano gli spunti di Yldiz da una parte e Cambiaso o Weah dall'altra. Con la differenza che uno indossa la numero 10, proprio perchè dovrebbe fare la differenza. Ma dopo le prime giornate e l'exploit nel debutto di Champions, del fantasioso trequartista turco non si è avuta più traccia incisiva. Confinato in modo un po' malinconico su una fascia sinistra da cui non riesce mai ad uscire se non con retropassaggi. 

Che sarebbe stata una serataccia si era capito subito: la squadra di Thiago ci ha messo 3' per uscire dalla propria metà campo. Tre minuti. E la palla lo ha varcato su un retropassaggio laziale. Ha faticato la Juventus. Maledettamente. E alla fine l'ha spuntata con un po' di fortuna - l'autogol di Gila - con la qualità di una sola giocata - l'azione che ha procurato il rosso a Romagnoli - e la tenacia che l'ha portata a cercare comunque il gol, sebbene senza grande efficacia. Gli ingressi di Fagioli, più tonico che in Nazionale, e Danilo hanno dato una spinta in più. Bene Vlahovic - l'unico a crederci sempre, sfortunato nell'azione della traversa interna (è il quarto legno in campionato per lui) - ottimo Kalulu - che non fa quasi più notizia - benino Douglas Luiz più del solito nel vivo della manovra anche se ha "rischiato" la frittata consueta, con un gesto di reazione in mezzo all'area sfuggito al Var ma non agli occhi del ds laziale Fabiani, che ha dedicato l'intero dopo-partita a questo episodio. Non bisogna essere Silvan per immaginare che in settimana si parlerà prevalentemente di questo.

Alla fine si vince per "corto muso": un anno fa, diciamocela tutta, per un 1-0 così Allegri sarebbe stato massacrato. Bontà sua, se la riderà al Gabbione. Thiago Motta quasi presagiva che dopo qualche 3-0, le bollicine di Champions e l'inciampo interno con il Cagliari al primo (e finora unico) gol subito, si doveva mettere in conto anche questo. Meglio così. Almeno si attenuerà lo scontro tra "crociati" del bel gioco e "infedeli" del risultato a prescindere. Il bel gioco (che poi chissà cos'è...) non serve a nulla, se poi non arrivano i 3 punti. Forse a Bologna poteva bastare. In bianconero proprio no. Neppure in una stagione "di transizione" e assestamento. Neppure se giochi senza 5 titolari, di cui uno appiedato per una decisione sconfessata dagli stessi vertici arbitrali. Ma senza che il Giudice sportivo (o magari il Presidente della Federcalcio) pensasse di graziare eccezionalmente un evidente "non reo". 

Altro che Var, altro che simulazioni. La vera simulazione sta proprio in questa ipocrisia. Di chi va in tv a commentare le decisioni, ammette gli errori, ma il referto è Bibbia. Continuare a dimenarsi per questo teatrino è esercizio inutile.

lunedì 14 ottobre 2024

Jannik, un 2024 da "alieno". Nonostante la Wada e in attesa di un novembre appassionante...


Più forte di tutto e di tutti. C'è poco da fare.
Jannik Sinner in questo 2024 è un alieno nel tennis mondiale. Non lo dicono soltanto i numeri - quasi 12 mila punti nella classifica ATP, con Alcaraz secondo che "arranca" a 7.000 - le vittorie nei tornei (7 in questo anno solare, di cui i suoi primi 2 Slam, Australia e US Open), non lo dicono solo i successi contro i migliori della graduatoria (ormai resta "giocabile" solo con Alcaraz e Medvedev, mentre anche Djokovic è alla sua quarta sconfitta nelle ultime 5 sfide con l'altoatesino), o il primo posto garantito fino a fine 2024. Lo dice soprattutto la straordinaria tenuta mentale del ragazzo di Sesto Val Pusteria, che gioca, macina punti e vince nonostante il macigno psicologico del ricorso della Wada, la famigerata agenzia antidoping, gli penda in testa come la più ingombrante delle spade di Damocle.

Tenuta mentale: sta qui la vera differenza tra il rendimento fenomenale di un campione del tennis destinato a lasciare il segno per anni e quello di un semplice fuoriclasse, che spesso affiora, esplode, brilla ma come una cometa di quelle che, d'improvviso scompare all'orizzonte al minimo inciampo psicologico. La storia del tennis ne è strapiena.  Sinner è mentalmente un robot : " Se perdo il giorno dopo mi alleno. Se vinco il giorno dopo mi alleno ". Un mantra psicotico che si ripete quotidianamente. Lo priverà pure degli "anni migliori" ma forse il vero segreto della sua prorompente scalata nell'olimpo del tennis in appena 3 anni, sta tutta qui. Sorride poco - e di questi tempi anche meno - non si abbandona a proclami o dichiarazioni roboanti, anzi fa dell'umiltà uno status identitario: basti sentire le sue parole dopo ogni successo, sempre prodighe di riconoscimenti a chi gli sta vicino, allo staff, ai collaboratori. E spesso anche agli avversari, che lo hanno "migliorato".

Anche a Shangai ha sciorinato prestazioni superbe, magari poco spettacolari, se non in qualche scambio rocamolesco, ma lineari, solide, con un gioco da fondo campo sfiancante per l'avversario, e recuperi prodigiosi spesso conclusioni con passanti lungolinea o diagonali impensabili. Difficile pure azzardare un paragone col passato, tanto è distante la qualità, l'intensità e la tipologia del tennis moderno con i fuochi d'artificio estetici di un Mc Enroe o il servent volley di un Edberg. Djokovic lo ha praticamente eletto suo erede. E tanto basta.

Tornando alla Wada, l'assurdo ricorso nei confronti di Sinner per una squalifica che avrebbe dell'incredibile - e creerebbe un precedente ridicolo racconto da condizionare praticamente la carriera di ogni tennista in futuro - concluderà il suo iter solo tra dicembre e gennaio. Prima ci saranno le Finals di Torino (il Master che manca ancora nella bacheca di Jannik, nel quale lo scorso anno sconfisse mirabilmente Djokovic al primo turno, per poi buscarle dallo stesso serbo in finale) e poi la Coppa Davis, che in questo 2024 si preannuncia quanto mai avvincente: con l'Italia detentrice che punta allo storico bis ma con la Spagna che ospita l'atto finale della rassegna a Malaga, quanto mai agguerrita. 

Oltre ad Alcaraz, la nazionale iberica presenta in squadra quel Rafa Nadal che chiuderà la sua straordinaria carriera puntando proprio a riportare a casa l' iconica insalatiera. Una sfida tra titani e un passaggio di consegne generazionale. Per Sinner anche una rivincita dopo l'assenza non senza polemiche alle Olimpiadi di Parigi. Non resta che allacciarsi le cinture e aspettare novembre...

giovedì 10 ottobre 2024

Quando il modello organizzativo di un'impresa... è una stella a cinque punte (BR)

Può essere assunto a modello di gestione imprenditoriale, lo schema organizzativo di una delle più violente e sanguinarie associazioni criminali del nostro Paese, come le Brigate Rosse? A quanto pare sì, stando ad un sorprendente incontro che il PalaCongressi di Rimini ha ospitato all'inizio di questa settimana.

La prima volta all'Hospitality Day - evento preliminare al TTG 2024 di Rimini, l'expo sul Turismo più importante in Europa - è un mix di panel dal tenore differente ma tutti di grande interesse, grazie alla regia di Mauro Santinato.

Dalla verve ironica di Edoardo Raspelli, penna salace e spietata sulle recensioni della ricettività, all'introspezione profonda e universale del prof. Umberto Galimberti, che solo al termine di un appassionante viaggio da Platone all'era post moderna, conclude sull'"etica del Viandante" (che era il tema del suo intervento).



Ma l'incontro più inatteso, anche se dal titolo intrigante, è con Giancarlo Carniani - responsabile di HIA (Hospitality innovation academy): "Cosa ho imparato dalle Brigate Rosse - la cura dei dettagli altri riflessioni". Il suo racconto, con una doverosa premessa che non vuole apparire indulgente verso le responsabilità gravissime dell'associazione criminale, protagonista tra l'inizio degli anni 70 nel nostro Paese, profila un parallelo provocatorio e audace tra l'organizzazione di una struttura imprenditoriale (turistica e non) e quella adottata in modo "scientifico" dall'organizzazione terroristica simbolo estremo degli Anni di Piombo.



A cominciare dalla scelta del simbolo, con un'operazione che oggi definiremmo di vero marketing: quella stella a cinque punte, avvolta da un cerchio, diventa un sigillo inconfondibile, che finisce per attecchire nell'opinione pubblica e in particolare nel mondo di potenziali "azionisti" delle BR: quello operaio.



E così si arriva alla strutturazione delle BR che ricalca, con denominazioni diverse, la piramide di una spa: la "Direzione strategica" (composta dagli ideatori delle BR) è un moderno CDA, il Comitato esecutivo (dei Moretti e delle Faranda) è una sorta di Direttivo, mentre le varie "colonne" in cui si suddividevano le BR città per città equivalevano ai reparti produttivi. Infine i brigatisti sono comparati ai lavoratori. E' un a narrazione coinvolgente quella di Carniani, che snocciola aneddoti - come i primi rapimenti, e l'escamotage trovato dalla famiglia Costa (quelli di Costa Crociere) per quantificare il riscatto nella liberazione del rampollo di famiglia (1,5 miliardi di lire, esattamente l'ammontare dell'assicurazione stipulata per i rapimenti).


Non può mancare poi una ricostruzione certosina, quasi maniacale, del rapimento di Aldo Moro la mattina del 16 marzo 1978, dai dettagli sconosciuti ma curati senza trascurare alcun passaggio, alle casualità che ne ha contraddistinto la dinamica: le gomme forate al fioraio che stazionava ogni mattina all'incrocio tra via Fani e via Stresa, per evitare che arrivasse; i rapitori travestiti da stewart dell'Alitalia; la signora che qualche minuto prima dell'arrivo delle auto di Moro chiede informazioni su un volo da Fiumicinio, due mitra che si inceppano, di cui uno risalente addirittura al periodo della Resistenza. Senza dimenticare, come le indagini nelle settimane successive, finirono per sottovalutare alcuni dettagli: come quel nome Gradoli, spuntato fuori da una fantomatica "seduta spiritica" a cui partecipò il futuro premier Romano Prodi. A nessuno venne in mente di controllare gli appartamenti romani di via Gradoli (dove in effetti era recluso Moro) ma fu setacciata la frazione viterbese di Gradoli. Ovviamente senza risultato.



E infine alcune riflessioni sui caratteri "innovativi" di questa piramide organizzativa delle BR: una sola linea e condivisa; una sostanziale parità di genere (le donne decidevano e in alcuni casi hanno inciso molto più degli uomini), e infine la cosiddetta "compartimentazione". Ovvero, la limitazione informativa tra un livello e l'altro dell'organizzazione: tanto che, al passaggio dell'ostaggio tra i rapitori e coloro che ne avrebbero "curato" la detenzione, solo i secondi sapevano dove sarebbe stato condotto. Esattamente come dovrebbe avvenire in un'organizzazione aziendale: una linea direttiva, parità di genere, e la conoscenza di finalità e obiettivi limitata a chi decide le strategie.



Insomma uno storytelling appassionante - che (ho avuto modo di dire allo stesso Carniani, salutandolo alla fine) meriterebbe un palcoscenico teatrale forte di un parallelismo di incredibile efficacia narrativa.

lunedì 7 ottobre 2024

La Juventus si fa male da sola. Marinelli le dà il colpo di grazia. Ma a che serve un Var così?

Prima o poi doveva arrivare. Il primo gol incassato, dopo quasi 630', è però di quelli pesanti: perchè il rigore di Marin regala il pari al Cagliari allo Stadium, mozza 2 punti alla Juventus e segna il quarto pareggio dei bianconeri (terzo in casa) nelle prime 7 giornate. Ma cosa ha detto davvero l'inatteso (e immeritato) 1-1 dei bianconeri, in una partita dominata da possesso palla, tiri in porta, fantomatiche XG e una valanga di rimorsi? 

Intanto che per oltre tre quarti di gara c'è stata praticamente una sola squadra in campo. Il cui unico difetto (a parte una divisa di gara inguardabile) è stato quello di non capitalizzare mole di gioco e occasioni. Poi che Thiago Motta ha dato un'identità tattica alla squadra, anche cambiando gli interpreti centrali (Locatelli e Thuram al posto di Mc Kennie e Fagioli nella zona nevralgica, Mbangula al posto di Yldiz). Inoltre che alcuni big contesi in estate e attesi in stagione, sono ancora lontani dalla forma migliore: Koopmeiners si muove bene ma ancora non vede la porta, Douglas Luiz non vede il campo prima di un'ora e quando entra la sua velocità resta quella di un 33 giri.

Problemi di integrazione, di amalgama, di rodaggio. Che quando cambi più di mezza squadra oltre all'allenatore, ci stanno. E si ingantiscono però quando la percentuale realizzativa delle occasioni è ancora col freno a mano tirato. Il primo tempo di una partita come Juventus-Cagliari non può chiudersi 1-0. A stare stretti ci sarebberi due gol di scarto, in tempi ideali forse anche 4. E così una delle più antiche leggi del football recita semplice: "Se non la chiudi, dai una mano al tuo avversario a rimetterla in sesto". E il Cagliari - graziato soprattutto da Vlahovic a porta vuota - non si è fatto pregare, alzando il baricentro nell'ultima mezz'ora e "trovando" come un jolly l'azione del penalty, con Piccoli che addirittura stoppa male, si allarga e da posizione innocua per la porta bianconera, pesca un fallo sull'ingenuo contrasto di Douglas Luiz: alla seconda frittata in quattro giorni nella propria area. Neanche fortunato il brasiliano: che avrebbe potuto "svoltare" la sua domenica e forse questo inizio stagione, se solo Vlahovic avesse appoggiato in rete il tap in con portiere steso a terra, procurato proprio dalla bordata da fuori area dell'ex Aston Villa. Ma quando la luna gira storta, si incarta tutto. E anche un normale confronto in area - che con lucidità si potrebbe gestire "accompagnando" l'avversario a lato - diventa una clamorosa buccia di banana.

La perla infine la regala il mio omonimo Marinelli: che esibisce un rosso cervellotico e frettoloso con uno scatto che neanche Jacobs a Tokyo avrebbe pareggiato. Non si adombra l'ipotesi che se la caduta non provochi rigore non debba per forza essere pure sanzionata. Ricordando poi che per contrasti lievi come quello tra Conceicao e Obert (difensore ruvido che dopo aver picchiato per tutto il match non ha rimediato neanche un giallo), la scorsa stagione fioccarono rigori a iosa per altre squadre (ricordate Lautaro con l'Udinese, il soffio di vento e il dischetto?).

Ci si chiede a che serva il VAR se deve richiamare l'arbitro quando decide a 3 metri di distanza di non comminare il rigore (quello su Piccoli) e non dà segni di vita su un'azione in velocità captata dal direttore di gara a non meno di 50 metri di distanza. Con l'ombra di un doppiopesismo inconscio (chiamatela "sindrome da zebra"), e il doppio danno dell'inferiorità negli ultimi 8 minuti di recupero più l'assenza del furetto portoghese in Juve-Lazio. Un sistema - questo VAR - che anzichè risolvere i problemi più spinosi ha finito per ingolfare anche quelli più limpidi. Annebbiando le idee degli arbitri bravi, regalando alibi a quelli più scarsi. E finendo per privilegiare chi protesta più e meglio di atutti (grazie a chi glielo lascia fare nella stagione in cui in teoria solo il capitano dovrebbe conferire con il referee). Ne usciremo? Dopo 7 giornate non c'è da essere troppo ottimisti...

venerdì 4 ottobre 2024

C'erano una volta le curve criminali già sparite dai media. Mentre da Dormund un'altra curva lancia un monito chiaro...

Avrei voluto scrivere di calcio. Calcio giocato. Di una Juventus che torna a brillare in Coppa, che vince e può godersi solo in parte la gloria meritata in terra germanica, causa infortunio da lungodegente del suo difensore migliore. Una squadra, quella di Motta, che non conosce mezze misure (o pari a reti bianche o tre gol nel sacco altrui) ma comunque sempre con l'imbattibilità da preservare. E questo è già un record per Thiago Motta. Mentre il Dusan Vlahovic tanto bersagliato - anche dal sottoscritto - con tre partite a rete è capocannoniere di serie A e assoluto protagonista di Champions.

Non scriverò di calcio perchè il calcio c'entra poco con quello che sta accadendo da qualche giorno intorno a Inter e Milan. E anche indirettamente intorno alla Juventus. La Procura di Milano è uscita allo scoperto dopo l'escalation delle ultime settimane, con una serie di vicende scabrose venute alla luce e che hanno portato anche ad un omicidio a inizio settembre - quello di Antonio Bellocco, membro di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, legato ai gruppi ultrà dell'Inter, ucciso da Andrea Beretta, altro leader della Nord nerazzurra, durante una lite a Cernusco sul Naviglio.


Oggi si toglie definitivamente il velo ad una realtà inquietante, con 19 arresti da parte della DDA di Milano. Un mondo ignorato fino a qualche tempo fa e sottostimata per le implicazioni che ne sono connesse. Che le curve di molte squadre di serie A fossero covo di malintenzionati, non è un inedito. Che ci fossero individui che hanno poco a che fare con la fede di una squadra e molto di più con affari e traffici assai remunerativi, non è una novità. Il vaso di pandora che si è appena scoperchiato - e forse siamo solo all'inizio - nasconde però una verità più profonda, radicata e perversa, di quanto potessimo immaginare. Fatta di rapporti stretti tra personaggi direttamente legati alla 'ndrangheta, e i vertici dirigenziali e tecnici dell'Inter. Con buona pace di quello smoking bianco sfoggiato al "Meazza" da Materazzi poco meno di 20 anni fa per gridare al mondo: "Noi siamo quelli puliti".

Non entro nel merito dell'inchiesta. La fiducia nella Magistratura c'è sempre. Sebbene i rappresentanti, in particolare, della Giustizia sportiva abbiano fatto di tutto in questi ultimi 18 anni per metterla seriamente a repentaglio, se non altro per una scarsa "uniformità di manovra" tra una società e l'altra, con misure assunte in tempi e modalità decisamente diverse a seconda di chi si trovasse sul banco degli imputati. E il pm chiamato a giudicare questa vicenda, che beatamente si fa immortalare con la cover di una delle società indagate - e varie foto in atteggiamento molto amichevole con i vertici delle stesse - non depone a favore di una netta "inversione di tendenza". Per chi dovesse tacciare questo mio pensiero di partigianeria juventina, ricordo come il procuratore sportivo Chinè (nella foto) abbia agito in pochi mesi a carico della Signora sul processo plusvalenze, mentre i faldoni relativi a Roma, Napoli (con il clamoroso caso Osimhen) e milanesi giacciono impolverati dentro qualche cassetto di una sua scrivania. Dormienti. 

L'aspetto che interessa piuttosto è quello mediatico. Perchè dopo i primi giorni in cui, in modo inedito, le prime intercettazioni comparivano su quotidiani e social - che non potevano ignorare una storia così pesante macchiata anche da un omicidio - la vicenda è pian piano sfilata a pagina 25 quando non siamo neppure a fine settimana. Ricordo bene i titoli del tipo: "Agnelli parlava con i mafiosi", a descrivere una ricostruzione nella quale, va ricordato, ci si dimenticò presto che fu proprio Agnelli a denunciare le infiltrazioni malavitose nella curva della Juve (beccandosi gli strali di molti suoi tifosi e il fango della stampa avversa, perfino quella di proprietà Exor). In questo caso, dopo 2 anni, non notiamo altrettanto accanimento nei confronti di chi non solo non ha denunciato, ma è stato smascherato da intercettazione inequivocabili nell'atto ben poco collaborativo di "avvertire" i presunti tifosi che potevano essere intercettati o filmati. Senza contare altre implicazioni (relative a biglietti, vendita esclusiva di birre, e quant'altro). A casa mia si potrebbero perfino profilare gli estremi del favoreggiamento. Sui media abbiamo letto solo che "le società sono parte lesa" e che ora - ci assicurano - "collaboreranno con i magistrati" (grazie). Tutto normale? Tutto finito?

Stando ai resoconti della stampa, sembra di sì. La speranza è che la giustizia faccia il suo corso - e questo vale sempre - che la veemenza giacobina con cui vennero trattate situazioni meno gravi di questa, sia definitivamente riposta (e non da rispolverare nella prossima occasione, a seconda di chi sarà implicato). E che se ci sono rilievi per i quali intervenire con squalifiche o sanzioni sportive, non restino nella mente e nelle speranze di chi vorrebbe vedere un calcio più credibile.  

Un'ultima curiosità: a Dortmund nell'ultimo mercoledì europeo, è comparso un enorme striscione in curva: "Uefa Mafia". I tifosi - quelli che si ribellarono alla narrazione sulla Superlega come la "fine del calcio della gente" - stanno aprendo gli occhi: qualcuno ha pagato un modo di guardare al futuro del calcio, che avrebbe cancellato il monopolio Uefa sulle competizioni internazionali. Una corte Europea ha sancito che non può esserci questo monopolio. E per tutelarsi, la Uefa si è inventata una nuova formula della UCL che richiama stranamente quello che doveva essere la Superlega. Coincidenze, sicuramente solo coincidenze. Come quelle che hanno visto la Juventus unica società sanzionata pesantemente per le plusvalenze, esclusa dalle Coppe, taglieggiata di almeno 100 milioni dal bilancio 2025. Ma il messaggio che arriva da Dortmund è chiaro: il tempo delle favole è finito. Tra non molto la verità verrà fuori. E sarà esposta in curva. Proprio come a Dortmund. 

giovedì 3 ottobre 2024

Una Juventus eroica. Un 3-2 firmato TM che è impresa da tatuare: contro tutto e contro tutti...

Stellare. Fatico a ricordare una vittoria così rocambolesca, entusiasmante, eroica della Juventus in Europa. In 10 contro 11, dopo aver perso nei primi minuti il miglior difensore (chissà per quanto...), essere andata sotto 2 volte, la seconda con l'uomo in meno e con un rigore causato da quello che doveva essere (e ancora non è) l'uomo in più. Ribaltato in casa sua il Lipsia che in Bundesliga sta andando alla grande, e che davanti ha un "Marcantonio" sloveno prossimo oggetto dei desideri di mezza Europa.

Sarà che i 3-2 sono risultati che ispirano sempre grandi imprese (non solo nel calcio, ne ricordo qualcuno anche nel tennis e nel volley). Sarà che vincere fuori casa in Champions non è mai facile. Ma fatico a trovare una gara dei bianconeri così trascendentale negli episodi e nella sceneggiatura, da suggerire un paragone. Come pathos emotivo, il ricordo torna all'adolescenza e ad un 2-1 al S.Andrews Park di Birmingham, primavera 1983, con la banda del Trap che batte in casa i campioni d'Europa in carica dell'Aston Villa, grazie ad un guizzo (sfuggito pure alla diretta di Telemontecarlo) di Pablito e ad una corsa sfrenata di Boniek lanciato divinamente da divin Michel. In tempi più recenti un altro 2-1 in terra inglese, sul campo del City con le prodezze di Morata e Mandzukic. Ma mai in 10, con infortuni pesanti, rigori negati, rossi esibiti, rigori subiti e un'escalation di episodi che a mezz'ora dalla fine lasciava presagire al peggio del peggio.

La Juventus vittoriosa sul campo del Lipsia - annunciato come primo vero test probante per la squadra di Thiago - non solo conferma la regola del 3 (se segna ne fa 3, altrimenti è 0-0) ma afferma una propria identità e al tempo stesso la capacità di evolversi tatticamente. Solida, rocciosa e impenetrabile in Italia (dove ancora non ha subito gol dopo 540'), intraprendente, audace, financo spregiudicata in Europa, dove neppure le vicissitudini negative sul campo tedesco hanno suggerito di arretrare il baricentro. Non è tanto vincere, che è già tanto, ma cercare di farlo nelle condizioni in cui era "ridotta" la Juve ieri a 15' dalla fine che dà la cifra di una "mentalità" evoluta. E capace di adattarsi camaleonticamente al contesto europeo. Perchè il Lipsia, a casa sua, non è il Como o il Verona, ma neppure la Roma, l'Empoli e lo stesso Napoli. E poco importa se negli ultimi 20 minuti (10 regolamentari più gli assurdi 9 e mezzo di recupero del mediocre transalpino Letexier) i bianconeri, nella splendida terza maglia di quest'anno, abbiano patito le pene dell'inferno. Vincere soffrendo è uno step necessario per qualsiasi grande squadra che aspiri a diventare grandissima.

Eh sì perchè questo 3-2 a Lipsia assomiglia a quegli esami di maturità che regalano consapevolezza e mentalità a tonnellate. Al netto dei referti medici che si attendono messianicamente (soprattutto su Bremer), la Juve "scopre" di avere non solo un complesso straordinariamente robusto ma anche individualità sorprendenti nella qualità della prestazione: un Fagioli sontuoso a guidare il centrocampo (con Locatelli, finora top player, rimasto 90' in panca), un McKennie infaticabile e versatile, capace di trasformarsi da mediano a terzino senza cedere 1 cm agli avversari. E su tutti la coppia difensiva, con un Gatti che non è più da wow e un Kalulu candidato a vincere il premio "Edgar Davids" del II millennio. Davanti poi c'è un Dusan Vlahovic sensazionale nella capacità di accendersi, dopo un primo tempo anonimo in cui comunque poteva procurare un rigore solare; nella imperiosità di incidere e nella volontà di farlo con due gol diversi ma entrambi gioiello. E un Conceicao ubriacante: che solo a pensare di fare quel gol (e poi farlo) fa capire di avere una "maleducazione" tattica e una proprietà tecnica sconfinata. 


La foto della serata è nello sguardo tarantolato di Thiago Motta che si avvinghia su Conceicao e viene travolto dal groviglio di abbracci della panchina, rimediando anche un bernoccolo. Quella concitazione travolgente diventa consapevolezza. Forza. Solidità.


Per carità, non mancano anche in questa memorabile serata le note stonate (un Luiz svagato che entra in infradito e procura rigore come se stesse giochicchiando sulla spiaggia di Copacabana, o un Yldiz ancora acerbo per certe contese ad alto spessore). Resta però dominante la sensazione dell'impresa. Contro tutto e contro tutti. 

Che proprio per questo, ha un sapore ancora più... da Juventus.