L’aula era quella di una scuola di periferia. I banchi,
piccoli e lucidi, come fossero le elementari. Una cattedra con la sedia diversa
dalle altre, quasi a differenziare, come sempre avviene, il ruolo di chi si
siede lì. Rispetto a chi lo ascolta.
Ho avuto un paio di minuti, non di più, per osservare questa
scena, che subito sono arrivati: entrando uno ad uno, mi si sono presentati,
porgendomi la mano, e abbozzando un lieve sorriso.
Come se mi conoscessero. O
se magari stessero pensando, se fossi davvero io il tizio che aveva scritto il
libro che avevano appena finito di leggere.
L’accento campano, più o meno lo
avevano tutti. Poi magari venivano dagli angoli più disparati di quella
straordinaria regione, che come nessun’altra, è carica di contraddizioni. Prima
fra tutte, l’umanità sconfinata della gente e l’ineluttabilità di migliaia di
destini.
L’aula era quella della sezione scolastica del carcere di
Spoleto, loro i detenuti del settore “media detenzione”. Che detto così non
vuol dire nulla, per chi arriva da fuori. Magari alla sua prima visita.
A quasi un anno dalla prima presentazione, mi sono trovato a
parlare di “Nel segno dei padri” di fronte ad una quindicina di persone recluse
chi più, chi meno, da qualche buon lustro.
L’incontro in carcere, organizzato
dall’associazione “FulgineaMente” di Foligno, nella sua meritoria azione sociale
anche all’interno delle case circondariali, lo aspettavo da quando mi era stata
definita la data. Ricordo che ad accennarmelo fu Ivana Donati, tra le
animatrici del gruppo, con un messaggio che mi arrivò mentre andavo a Treia, a
trovare mio figlio al campo scout. Era l’agosto scorso. Da quel giorno, non vedevo
l’ora che arrivasse questo giorno. Semplicemente perché non sapevo cosa
aspettarmi.
Ho parlato del mio libro, della storia di Guglielmina e
Peter, davanti ad ogni tipo di pubblico: da ambasciatori a studenti, da storici
a intellettuali, da politici a gente comune. Ho visto la commozione di qualche ottantenne, che ha rivissuto la sua infanzia. Lo stupore di qualche ventenne che credeva fosse la trama di un film. L'emozione di un quarantenne, che pensando al proprio di figlio, si è lasciato trasportare nei flutti di questa storia.
Ma erano tutti liberi. Liberi di
ascoltarmi o di andarsene a metà incontro. Liberi di andarsi a vedere i luoghi
narrati dal romanzo, piuttosto che dimenticarlo 5’ dopo il nostro incontro.
Loro no.
E non sapevo neppure come iniziare. Che mi metto a dire? E se mi capita di parlare
di libertà? Mi sono chiesto ingenuamente. Proprio con chi la libertà non ce
l’ha o addirittura, in qualche caso, non l’avrai mai più?
Il problema me l’hanno risolto subito. Per la prima volta,
tra le decine di presentazioni che ho avuto la fortuna di presenziare, da
Gubbio alla Sicilia, da Roma a Napoli, non ho avuto bisogno neanche di fare
introduzioni: dopo una brevissima premessa di Luciana Speroni, che ci
accompagnava, me e Franca, sono subito partiti loro. Con le domande. Una di fila all'altra. Quasi insaziabili. Fantastico. Sono
loro che hanno rotto il ghiaccio. Prima che la temperatura di quelle aule
scendesse da sola.
Mi parlavano di quella storia che doveva essere mia ma che
improvvisamente mi sembrava quasi distante. Perchè per come descrivevano i personaggi che li avevano colpiti, i fatti che erano rimasti impressi, le sensazioni che aveva generato "Nel segno dei padri", avevo come la sensazione che mi raccontassero una storia loro. E ad ogni domanda, inconsciamente, mi chiedevo, cosa
abbia davvero dato loro questa vicenda, questo libro, vissuto come tutti gli altri,
dietro queste sbarre. Cosa sia rimasto loro.
Ad un certo punto, spiegando che in fondo Guglielmina e
Peter si erano incontrati scoprendo di aver vissuto la stessa vita, e dunque
capendosi proprio per questo, uno di quegli improbabili “alunni”, tra i più veterani, a guardarlo di prim'acchitto, Lino (nome di fantasia) mi
fa: “In fondo questa storia è anche un po’ la nostra. Chi potrebbe capire quel
che proviamo qui dentro? A chi potremmo spiegare cos’è la vita qua dentro, se
non ad un altro che sta qui?”.
L’ho guardato fisso negli occhi. Poi mi ha confidato di essere un "senza fine pena" (ergastolo). Questa frase mi ha colpito
come un tuono. Ho accennato col capo ad una condivisione. Ho capito che in quel
libro aveva colto anche un pezzo della propria storia. Il respiro mi è
tornato dopo un po’. Anche se ho nascosto quel tumulto, rispondendo ad un’altra
domanda. Una dietro l’altra, mi circondavano di quesiti, nessuno banale. Con
una curiosità sincera, che si toccava. Con sorrisi accennati, quasi di complicità incipiente.
C’è pure chi mi ha chiesto di Gubbio, della fontana dei
matti. E di come funzionasse questa storia che ti danno la patente. Che poi
con Guglielmina e Peter non c’entrava nulla.
C’è chi ha parlato della libertà.
E di come “anche il cielo ha un colore diverso, fuori di qui. L'ho capito la prima volta che sono uscito per una breve licenza”.
E c’è chi mi ha
chiesto di tornare. Per raccontarmi anche la sua storia. “Anche se forse non
interesserebbe a nessuno”. “Perché no?” gli ho ribattuto, riferendomi alla sua
storia. Sarei rimasto delle ore a parlare con loro.
In carcere però anche il tempo è contato. Ci aspettava un
altro incontro, in un’aula non distante. Stavolta con appena 4 detenuti. E
anche noi eravamo quattro. Non ho mai avuto un contatto così diretto, immediato
e coinvolgente con il mondo del carcere.
Ci ero stato una sola volta, a Capanne, per un motivo
decisamente più evasivo: una partita di calcio tra giornalisti, detenuti e
consiglieri comunali perugini. Lasciamo stare le ironiche battute che potrebbe
fare qualche lettore, ma fu un bel pomeriggio di sport e socialità. Però con i
i detenuti non scambiammo nemmeno una parola: sia perché la metà di quella
squadra era magrebina (qualcuno con una fascia bianca penzolante in testa che
ricordava le immagini dei kamikaze sui film del Medio Oriente) sia perché quando
giochi a calcio, pensi a giocare e a divertirti. E se c’è spazio per un tackle, non c'è sicuro per farsi una riflessione.
A Spoleto è stato diverso. Nel secondo incontro si è parlato
solo in parte di “Nel segno dei padri”: uno dei quattro detenuti è in realtà
diventato scrittore dietro le sbarre. Ne ha scritti 36 di libri, in quasi 30
anni (mi ha confidato che è lì dall’88 e che uscirà nel 2020). Si è parlato
tanto e il freddo pungente di quell’aula angusta, pur penetrandoci minuto dopo
minuto, non faceva una grinza. “Vorremmo far capire a chi sta fuori che noi
siamo persone. Persone che hanno pagato fino in fondo il proprio debito con la
giustizia” ha detto. Quasi presagendo i pregiudizi con cui dovrà fare i conti
tra due anni, quando la parola libertà, per lui, tornerà ad avere un senso.
Chi è vittima e chi carnefice? Un interrogativo che diventa
dilemma quando un’esperienza come questa ti tocca nel profondo. E ti lascia
l’immagine più umana di chi, prima di entrare lì, ha sicuramente commesso degli
errori. Anche gravi. Anche arrivando a mutilare l’esistenza altrui. Rovinandola per sempre. Mai dimenticarsi delle vittime.
Ma di
uomini comunque parliamo. E l’uomo è ciò che comunque resta da salvare – o se
possibile, recuperare - quando ci si macchia anche della più ignobile delle
azioni.
Uscendo, con Franca e Luciana, insieme a Maria e Alessandra,
giovanissima scrittrice che come me è arrivata un giorno per caso da queste
parti, e ora sta ciclicamente svolgendo un’attività di riflessione insieme ai
detenuti, abbiamo parlato di questo pomeriggio, a dir poco inusuale. E di
quanto incontri come questo sappiano dare. Energia, emozione, consapevolezza.
Più di quanto non si sia coscienti di aver dato, a persone che forse attendono
come un vaticinio l’arrivo di qualcuno che semplicemente parli con loro.
Neanche per un minuto mi sono chiesto quali reati abbiano
commesso per essere lì. Che senso avrebbe saperlo? Il solo chiederlo, finirebbe
per presupporre un giudizio. E per vacillare sul sottile cornicione che si
affaccia nel baratro del pregiudizio.
Non mi importa sapere il nome di queste persone, la loro fedina
penale, i loro trascorsi. Magari qualcuno potrei rintracciarlo anche su
google.
Che differenza fa? Ho parlato con quella costola di umanità che mi interessava
conoscere. E che mai avrei sospettato potesse così fortemente turbarmi. Con quegli sguardi, un po’ curiosi, un po’ affannati, che a tratti
accennavano un sorriso ironico, ma anche amaro, che continuerò a portarmi dentro.
In attesa magari di un’altra sortita. Perchè dopo che sei stato lì, per una volta, tempo un paio d'ore, quando esci, non è più lo stesso. E forse neanche tu, sei più lo stesso.
“Se vuoi, io sono qui. Tanto non mi muovo” mi ha detto Lino
prima di salutarmi, stringendomi la mano. Non so quando, ma sento che ci rivedremo.
Ogni incontro con i detenuti è un'esperienza coinvolgente e sconvolgente. Nel carcere tutto acquista una dimensione diversa che non è facile da spiegare a chi non vi è mai entrato. Tu lo hai fatto ed hai capito. Spero che tornerai ancora.
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