Questo 2019 ha dato un nuovo senso a quella che ormai da molti viene chiamata “attesa”: che è anche il momento più intenso della festa, destinata poi a evaporare in pochi istanti.
Ecco,
non tutte le attese sono indimenticabili, qualcuna fa eccezione.
Me
ne accorgo mentre scrivo con il solo dito indice della mano destra,
come facevo in modo incerto una trentina di anni fa sulla Olivetti
del prof. Chiocci nei miei primissimi contributi scritti per il
notiziario di Radio Gubbio.
L’attesa
ha tanti volti, e questo 2019 me ne ha fatti scoprire di nuovi. Di
alcuni ne avrei fatto volentieri a meno. Come una carrellata di flash
che tornano a mente e che per la prima volta ho finito anche per
immortalare, ogni volta che un dettaglio, un’immagine, uno scorcio
mi colpiva. La mano non è quella del fotografo, ovviamente. E oggi,
più che mai, menomata com’è, fa difetto. Ma chi avrà la bontà
di scorrere queste righe saprà tollerare…
Il
senso geometrico dei Ceri disposti in perpendicolare con le lunghe
tavolate della sala dell’Arengo: scendendo dalla saletta dei
Campanari, era il 13 maggio, dopo aver accompagnato la troupè di
RadioRai3 per la trasmissione “Le meraviglie”, sono stato
stoppato da questo contrasto: era come se quelle lunghe lame dorate
fossero raggi solari dai quali la sala veniva irradiata. Magari il
buon Peppe Battistelli (meglio noto come “Peppe torcolo”),
autentico regista dell’organizzazione e disposizione dei tavoli per
l’enorme banchetto della Tavola bona, non lo avrà fatto apposta.
Ma a me l’immagine ha ispirato questo calore. Pensando soprattutto
alla temperatura in questa sala due giorni dopo…
Due
momenti scandiscono la mia personale attesa il 14 maggio:
irrinunciabili. Il pennone dei santantoniari nella piazzetta di
S.Antonio, che quest’anno ho rischiato di perdere causa “lungaggini
lavorative”. Fortunatamente non è successo e anche se ogni anno,
alla fine, il tutto si riduce ad una semplice liturgia ripetitiva,
bagnata da uno spumante finale, da santantoniaro non potrei farne a
meno. E’ un chupinazo più intimo ma indispensabile.
Che
qualche ora dopo lascia il posto ad un altro tassello dell’attesa a
cui sono fedele da anni: l’allegra sfilata della banda dopo il
“doppio” del Campanone, che da piazza Grande porta al Corso. Quel
“fazzoletto puntato davanti” ha un ritmo speciale, un’intensità
unica, un suono diverso, tutto suo; sicuramente dovuti al fatto che
siano le 19.45 del 14 maggio: ma sarebbe un delitto perderselo, con
tutto quel che dentro comincia a muoversi…
C’è
anche spazio talvolta per frangenti più intimi. Legati ai ricordi. E
a quei brividi che poi tornano, il 15 maggio, anche se in forma
indiretta. E così quest’anno, quasi per caso, mi sono ritrovato in
cima al corso verso le 6 di sera, il 14 maggio. Quel paesaggio lunare
che il giorno dopo sarebbe stato affollato di colori e
imprevedibilità, mi ha stregato per qualche istante: tanto da
sedermi sul piccolo scalino sotto la statua di S.Ubaldo a osservare
quella quiete. Con la nostalgia di chi non potrà più immergersi
come un tempo nella tempesta del giorno dopo.
L’attesa
serale, poi, è fatta di musica, sbimbocce, allegria e quel senso di
impazienza leopardiano. Che fa del sabato il giorno migliore, e del
piacere dell’attesa (che è esso stesso piacere) un gradevole
slogan pubblicitario. I 3-4 brani della Fausto band nel cortile di
casa (foto di Marco Signoretti) sono diventati un sipario immancabile e sempre gradito. Ci si
mescola, volti conosciuti con qualche turista capitato per caso. O ci
si rivede, dopo 6 anni, come con i due amici veneziani del mio
vecchio compare di Barbi, Leo Nafissi, ad assaggiare un impensabile
piatto di passatelli in brodo. Fuori stagione, se fosse maggio
davvero.
Il
mio 15 maggio ceraiolo è un’istantanea che ho voluto rubare alla
concentrazione e alla tensione di quel momento, prima di affidare
telefono e cianfrusaglie ad un amico accanto: chi sa di cero può
capire, cosa passi intorno ad una immagine così, rubata al volo nel frangenti dell'attesa. Cosa ci sia in
quelle mattonelle arancio, a quelle scarpe variopinte (che nascondono formicolii di nervosismo irrefrenabile), a quei pantaloni bianchi, con qualche
frangia rossa che traspare. Non c’è bisogno di guardare in faccia
chi indossa quella divisa, per capire cosa stia passandogli dentro in
quel momento. Basta osservare la possanza di quella stanga poggiata
sul selciato color aragosta.
Che sembra quasi silenziosa, illuminata da un faro proveniente da chissà dove. Come se tutti stessimo lì, ad attendere l'apertura di un sipario.
Che sembra quasi silenziosa, illuminata da un faro proveniente da chissà dove. Come se tutti stessimo lì, ad attendere l'apertura di un sipario.
Sono rimasto avvinghiato a quella stanga parecchi minuti. Speravo andasse
tutto per il meglio. Soprattutto l’alzata. Per Sant’Antonio e per
Lucio capodieci. E quel contatto prolungato mentre si consumava il
cerimoniale dell’investitura e quindi la discesa di ceri, santi e
brocche, era come un abbraccio con un amico di sempre. Di quelli che
ti danno coraggio ma ti imprimono anche fiducia. Ti trasmettono forza
e incoscienza. Ti dimostrano che ogni anno si riparte da zero, conta
poco quello che è stato nei 30 anni precedenti. Con quella stessa
stanga. Il bello è anche questo: mettersi in gioco, ogni anno con un
anno in più, senza sapere cosa ti attenderà di lì a poco.
L’alzata
è stata perfetta ma di lì a poco la Festa dei Ceri mi avrebbe dato
l’ennesima conferma di come tutto sia imprevedibile, incalcolabile
e fatalmente nuovo. L’attesa doveva essere finita, ed invece ne è
iniziata un’altra. Fastidiosa e insostenibile: con il volto di uno
schermo della sala d’aspetto del pronto soccorso. Dove sono stato
per un’ora prima di entrare, e un’altra ora prima di una
radiografia.
Su quello schermo, quasi ironicamente, c’era scritto “In attesa”. Quell’unico numero uno, in codice verde, ero io.
Morale,
sono tornato a Gubbio alle 16. Perdendomi in fondo quella che in
realtà è la fase più appagante, intensa e direi sostanziale del 15
maggio: la mostra. Oggi posso dirlo con cognizione di causa: mi sono
mancate le decine di tappe, molte le stesse, alcune nuove, dove
sorrisi, abbracci, brindisi e un assaggio di quel che si passa al
volo, scandiscono le ore successive all’alzata. Nello stomaco si
mescola di tutto, dolce, salato, croccante, vini di ogni tipo e
gradazione, bollicine dentro e bollori fuori. Ma soprattutto si
assaggia il calore di chi ti attende per una girata, un ricordo, e
qualche volta una lacrima. O semplicemente per il gusto di stare
insieme. Ecco, senza tutto questo, è una Festa dei Ceri a metà. O
forse anche meno. Ora lo posso dire.
Un unico momento, di questa menomazione, sono riuscito a salvare: l’omaggio in piazza Bosone, S.Lorenzo nella toponomastica ceraiola, dove oggi abita mio fratello e dove storicamente ha vissuto mio nonno Pompeo: la sua tromba, che ha scandito i ritmi di una trentina di Feste dei Ceri tra gli anni 20 e gli anni 50, oggi riecheggia negli squilli di mio cugino Ettore – trombettiere per un decennio a sua volta. E il cero di Sant’Antonio rende omaggio al nonno Pompeo con me e mio fratello di punta e mio padre a capodieci.
Tutto
questo non avrei potuto perderlo, fossi anche con una gamba sola.
L’attesa
oggi dovrebbe essere finita. Invece ha i contorni di una stecca in
estensione che dovrò tenermi per 2 mesi: sperando che quel piccolo
minuscolo tendine, che ha deciso di andarsene per conto suo - non so
come, in che modo, se cadendo o aggrappandomi alla stanga, oppure per
la foga di rientrare sotto e completare quella girata a cui tenevo
morbosamente per tanti motivi – torni al suo posto.
La
falange se ne farà una ragione. E io con lei.