Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

giovedì 19 maggio 2016

Quei pantaloni bianchi stracciati e vissuti... di un altro 15 maggio di vita

Voglio ricordamelo così, il 15 maggio di quest'anno. Con quello che resta dei miei pantaloni bianchi.
Un "assalto alla baionetta" al destino piovoso e diluviante di un giorno atteso un anno intero. Un'ascesa voluta, cercata, sofferta, dopo un contrattempo muscolare che mi ha impedito di godermi forse quella che sarebbe stata la più bella Callata.
Tenendo però indirettamente "a battesimo" un ragazzo che non conoscevo. Il caso ha voluto che fosse spuntato durante la mostra. Che fosse un "Moscone", proprio come la mia nonna materna. Quella nonna Artemia che mi raccontava come suo fratello Piero, morto in Africa dove stava facendo fortuna nel dopoguerra, faceva la punta davanti della Callata dei Neri con Sant'Antonio. Non conoscevo Luca, il ragazzo spuntato dal nulla.
Ma mi sono sentito di raccontargliela la storia dello "zio Piero". Sentivo che se qualcuno lo avesse fatto con me, mi avrebbe regalato una carica incredibile.
Anche se lui, ancor meno che me, aveva idea di chi fosse Piero Sannipoli. Morto di malattia incurabile a 6mila km da qui, più di 60 anni fa.

Il 15 maggio 2016 resterà quello della giornata a due facce: calda e assolata in Piazza Grande per l'alzata, fredda e grondante nella corsa del pomeriggio, soprattutto dopo il mercato.
Guardavo le facce dei miei amici di muta, prima delle girate: con loro ho condiviso due anni di piogge in Piazza Grande. 
Dove quando c'è il bagnato si gioca un altro sport. La testa conta ancor più delle gambe, si corre sopra un letto di uova, cercando di non romperle e di girare prima che venga fuori il pulcino.
Una giornata dai due volti. Perché non pensavo che per una manciata di secondi avrei passato la paura più grande dei miei 44 quindici maggio.

Curva della statua, passaggio dei Ceri. Sono le 6 appena scoccate. Arrivo rincorrendo il mio Sant'Antonio, dopo aver assistito a metà Callata al passaggio vorticoso dei giganti e varcato lo spigolo che innesta sul Corso allungo il collo per scorgere qualche fotogramma della corsa da dietro. Non guardo per terra, perché quando sei nella calca cammini come se sapessi dove mettere esattamente i tuoi piedi. Ma la calca della Statua, dopo il passaggio dei Ceri, evidentemente ha le sue trappole. Che non puoi e non devi sottostimare.
Sento sbattere uno stinco su un ostacolo, non faccio in tempo ad abbassare lo sguardo, che con l'altra gamba ne trovo un altro ancora più grande. Il tempo di voltarmi e mi ritrovo carponi sopra un groviglio di teste e di corpi senza volto. Colori diversi che si mescolano e mi inghiottiscono fino alla vita. Sento premere alle spalle e mi rendo conto in un secondo che quella spinta che mi arriva e' la calca di centinaia di persone che grondano dalla Callata. Senza nessuna possibilità di sapere cosa stanno schiacciando.
Provo a muovere le gambe ma è impossibile. Cerco di capire se per i due arti inferiori, almeno, posso evitare fratture o distorsioni.
Non trovo la forza di urlare anche se intorno a me tutti lo fanno. Cerco di mantenere un minimo di lucidità, anche se l'istinto vorrebbe esplodere. Posso solo voltarmi con la parte superiore del busto, l'unica in grado di muoversi. E vedo tante persone rivolte verso la Callata a braccia alte urlare, a chi scende di corsa, di fermarsi. Sennò è l'inferno.
Per un attimo prego qualunque cosa somigli al soprannaturale che quelle grida qualcuno le ascolti.
Mi giro ancora e vedo una ragazza riversa a terra con un keeway rosso. Non posso vederla in faccia: ce l'ha schiacciata sul pavimento bagnato del Corso, con almeno una ventina di persone sopra di lei, forse non può neanche gridare, visto che anche torace e diaframma non hanno spazio.
Comincio a pensare che da lì e' bene tirarsi fuori in una questione di secondi. Per evitare il peggio.
Ma come? Districarsi e' impossibile e si rischia di contorcersi ginocchia o caviglie in un tritacarne micidiale.
L'angoscia comincia a prendere il sopravvento quando sento alleggerirmi le spalle. Qualcuno evidentemente ha fermato l'emorragia di persone che si accalcano sopra. Ci si disincaglia uno ad uno. Si riacquista la calma. O forse, meglio dire, il raziocinio. Finché non sono fuori, però, non posso dirmi fuori.
Spingo con gli scarponi su qualcosa di più solido di un corpo sottostante, forse tocco terra, ed estraggo una gamba e poi rabbiosamente anche l'altra. Salto su da quell'ammasso di corpi, sguscianti come anguille appena pescate, e scappo via almeno 10 metri più avanti senza neanche guardare.
Saranno passati si e no, 30-40 secondi. Ma sono stati i più lunghi della mia vita.
Almeno di quella vissuta il 15 maggio. Più o meno la durata di una spallata. Molto peggio di una spallata. Sotto il cero, ho pensato, paradossalmente sei più "al sicuro".

Mi ritrovo con Matteo Passeri, il guardialinee. Mi dice: "C'eri anche tu li sotto?". Gli rispondo di si e sorridiamo insieme al pericolo scampato. Per un attimo ci è venuto di pensare all'Heysel.
Qualcuno, a noi, per fortuna ci ha aiutato, ci ha tirato fuori di lì.
Ma sono bastati questi 30 secondi e poco più per capire che il 15 maggio non bisogna distrarsi. Neanche se ti senti ormai navigato.
Faccio cento metri e sento parlare tre ragazze con una quarta. È sfinita come avesse fatto a piedi 50 km a gamba zoppa.
Ha il keeway rosso. Le chiedo se era lei sotto quel groviglio di persone. Mi dice di si.
Mi limito a dirle: "Ci è andata bene. Ho temuto grosso. Dobbiamo ringraziare qualcuno che ci protegge dall'alto".
Dal basso, invece, c'eravamo davvero cacciati in un brutto pasticcio. Che dopo 30 anni di cero non avrei mai pensato neanche di immaginare. Il 15 maggio 2016 mi ha insegnato anche questo.

Cosa resta di questo giorno, al di fuori del patema autobiografico?
Resta un cero di San Giorgio che si ferma in via Baldassini durante la mostra. Quasi a dire che non è una bestemmia pensare un giorno li' tutti tre i Ceri, prima dell'alzatella.
Resta una statuina di sant'Ubaldo sulla porta della chiesa. Quasi ad attendere l'arrivo dei suoi "fratelli di corsa", dopo aver dovuto subire l'imposizione di una mancata festa.
Resta l'impeto appassionante del coro dell'armata sangiorgiara, che solca la città prima della sfilata sfidando il mondo ceraiolo dall'alto di una fierezza invidiabile. Fierezza che i santantoniari, non da meno, hanno saputo aggredire e contrastare per la prima volta dopo anni ininterrottamente dal "sinistro avanti" di via Dante fino alla Cia.
E in mezzo, ci scappa pure una ginocchiata che ho dovuto affibbiare ad un improvvido sangiorgiaro poco sopra la seconda cappelluccia, rimasto a rimirare di spalle il suo cero, in mezzo allo stradone, quasi non sapendo che dietro, a due passi, ne sarebbe arrivato un altro. Dove mi trovavo a punta davanti. Sono rimasto punta davanti. Lui è' finito steso fuori dalla scia della nostra muta.
Non so chi sia. Ma se mi legge, sappia che non gli chiedo scusa.
Resta la gioia incontenibile della taverna santantoniara. Dove fino a tarda ora si canta e ci si bea di una corsa irrefrenabile, incomparabile e forse anche impensabile fino a qualche giorno prima proprio in quell'orto.

È il 15 maggio del "W i ceri grandi", la frase che leggo sul labiale dell'amico Matteo. Giocosa e dispettosa perifrasi che usavamo dirci abbracciandoci nel chiostro ogni anno, con la leggerezza di chi gioisce dell'ebbrezza di una giornata unica, dell'animosità di uno sforzo senza pari, del nirvana appena raggiunto. Goliardia anestetica e ironica sufficienza che si fondono in un fanatico grido. Rinnovatosi stavolta da lontano. Lui sulle stanghe, io tra la folla risalente. Ma leggibile, almeno ai miei occhi, come se quell'abbraccio ci fosse ancora.
È il 15 maggio delle lacrime agli occhi dell'amico Mirko, che durante la mostra mi confida di aver preso anche quest'anno un frammento di brocca da portare sulla tomba di suo padre. "Perché lui la raccoglieva sempre, e voglio onorarlo così perché so che apprezzerà questo mio dono".
È il 15 maggio di Maria Grazia e Roberto, due amici veneti, conosciuti per caso il luglio scorso, catapultati a Gubbio per pura curiosità, che ho accompagnato nel racconto della Festa dal "doppio" del 14. E innamoratisi follemente di questa città. Tanto da arrivare a piedi fino in Basilica sotto l'acquazzone: vezzo comprensibile per un eugubino, ma certo meno prevedibile da chi a Gubbio aveva passato finora meno di 2 giorni.
E' il 15 maggio di Mattia che per la prima volta lontano dalla sua città e dalla sua Festa scrive da Milano parole sofferte per dire grazie alla diretta di TRG. Ho pensato per un attimo anche a lui, la mattina, alle girate, incrociando con un saluto fugace suo fratello Filippo prima che entrasse. 

E, dopo questo turbinio di ricordi, non mi restano che quei pantaloni stracciati. Divelti dalla calca della Statua, infangati dalla salita al monte, annaffiati dalla gioia dei canti di ritorno in taverna. Dopo una corsa semplicemente sensazionale. Il cui unico difetto, (in senso egoistico, lo so) e' di essere "meno mia" che in passato.
Ma io c'ero. Anche quest'anno.
Con le mie emozioni. I miei brividi. I miei calzoni strappati e infangati. La mia camicia ormai tendente al grigio, il fazzoletto non più rosso ma rosato, gli scarponi da trekking ingombranti ma rassicuranti.

E la mia voglia di viverla. La Festa. Perché anche se la spallata non è più quella di un tempo, la Festa c'è e resta li. Aspettando solo di dominarci (per dirla con Giacche').

La Festa resta anche mia. O forse sono ancora più suo. Ancor più dopo questo 15 maggio, sento di appartenerle.

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