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Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.
"Se avessi avuto davanti due brocche, una per te e una per tuo figlio, e ti avessero costretto a sceglierne solo una, quale avresti scelto?".
Non ho dubbi. "Ecco, il destino ha scelto per te".
Mi sono ripetuto spesso questa frase negli ultimi due mesi. Me l'aveva regalata il mio grande amico Guerrino Mischianti, telefonandomi una sera, pochi giorni dopo l'elezione (o meglio l'estrazione) di mio figlio a capodieci del cero piccolo di Sant'Antonio. Mi aspettavo che sarebbe stato un giorno speciale. Mai mi sarei immaginato di vivere però una giornata intensa e appagante come il 2 giugno successivo.
Un'intera giornata di emozioni. Intera nel senso vero della
parola. Perché a cominciare dalle una del mattino mi sono svegliato e
non ho ripreso più sonno. Girandomi e rigirandomi inutilmente su un
letto che non era mio, a conteggiare i secondi di una vigilia che in
fondo, non doveva essere mia. Ma che mi sentivo addosso,
inevitabilmente, come un pigiama umido di ansie, impazienze, gioie,
aspettative e punti interrogativi.
Nel passare inesorabile e inamovibile di quelle tre quattro ore prima che la sveglia facesse finta di destarmi, mi è scorsa di fronte quella che con un pizzico di vanagloria si tende a definire "carriera ceraiola". E mi sono ricordato, ad esempio, che da ceraiolo "attivo" non avevo mai perso un'ora di sonno per quella tensione che poi, mi avrebbe puntualmente abbracciato dalle 3 del pomeriggio. Finita la mostra. Contorcendomi lo stomaco, congelando le mani (ricordo che sul corso finivo per appoggiarle sulle mattonelle calde, per trovare un pizzico di tepore, quasi stessero fremendo pure loro per quello che stava per accadere...) e azzerando qualsiasi parvenza di salivazione. Tanto che dopo aver bevuto prima di uscire da casa, non facevo in tempo a scendere in strada che già una nuova sete mi assaliva.
Stavolta no. Ero lì a occhi aperti, sapendo di non aver alcuna chance di riaddormentarmi. Mi sono chiesto se sarebbe stato così anche per il mio Giovanni. Che nei suoi splendidi 12 anni avrebbe potuto vivere sicuramente più spensierato ma forse anche più preoccupato quella giornata speciale. Magari cercando proprio in suo padre un rifugio nel quale ripararsi da paure e timori, al quale chiedere consigli, sul quale appoggiare le proprie attese. Mi immaginavo fremente di seguirlo durante la giornata, restandogli attaccato tutto il tempo, rischiando di dimenticarmi magari la cavia prima dell'alzata, o di non svegliarmi al pomeriggio (incubo classico del ceraiolo). Insomma ero lì a intorpidir l'attesa certo che mi aspettava una giornata di angoscia pura.
Mi sbagliavo.
Il 2 giugno è stata una delle giornate più belle della mia vita. E qualunque cosa mi riservi ancora questo 2017 - che pure di soddisfazioni anche inaspettate, mi sta già dando - quel 2 giugno resterà incastonato in una bacheca intangibile. Autentica, pura, cristallina.
Come la spontaneità dei suoi protagonisti. I tre capodieci. Antonio, Giordano e appunto Giovanni. Sorridenti, leggeri, gioiosi. Mai stanchi, mai indecisi, mai banali nei loro gesti naturali.
Quasi che il ruolo di capodieci appartenesse loro ormai da tempo. Si potrà dire la stessa cosa dei piccoli capodieci che li hanno preceduti negli anni scorsi. Ma ovviamente non potevo seguirli con lo stesso sguardo, con la stessa magnetica attenzione.
Hanno imparato tanto, i tre capodieci da questa giornata. Ma ci hanno anche insegnato tanto. Con il loro essere veri, il loro essere ceraioli.
Il loro cadere e ripartire. Il loro ascoltare in silenzio, e il loro agire. Negli abbracci che si sono scambiati continuamente. Anche quando non era scontato aspettarseli. Ad esempio all'ingresso del chiostro. Ad esempio con la brocca in mano appena usciti dalle sale degli Arconi.
Il momento più bello? È stato un susseguirsi di istanti straordinari. Per Giovanni, ad esempio, e' stata la sveglia. Anche in questo, fuori dagli schemi. Che avrebbero suggerito magari, che si dicesse alzata o calata. Specie questa calata dei Neri. Palpitante e col thrilling di un imprevisto causato dall'imbecillità dei più grandi. Che ci fa sperare, da un lato, che i nostri figli non crescano mai.
No, la sveglia ha avuto un suo decorso singolare. Nell'attesa dell'arrivo dei tamburini, consumata da Giovanni e Alessandro nel giardino, dietro un tasso centenario che avrebbe fatto da quinta per la loro uscita (o meglio entrata) in scena. Non so cosa si siano detti in quella mezz'ora. Erano impeccabili nelle loro divise. Come lo sono sempre stati nel loro atteggiamento. Uniti come due fratelli.
Un capitolo a parte meriterebbe il loro rapporto di amicizia fraterna. Due piccoli grandi santantoniari, nell'affiatamento, nella sintonia, in quella spontanea simbiosi figlia di una comune appartenenza praticamente a tutto quello che la vita quotidiana può offrire ad un ragazzino di 12 anni: a scuola insieme, a basket insieme, con gli scout insieme, a chitarra insieme, e poi catechismo, il calcio a Madonna del Prato e ovviamente il cero. E se per Giovi potrebbe sembrare più scontato l'attaccamento alla camicia Santantoniara, la scelta di Alessandro (di famiglia sangiorgiara verace e appassionata) si erge come un esempio di determinazione e autenticità non comuni, soprattutto perché compiuta in tenerissima età. Guarda caso per l'amicizia, fin da allora fortissima, con Giovanni.
Forse avranno parlato anche di questo, non lo so, in quella mezz'ora di attesa in giardino, prima che i tamburi e il trombettiere squarciassero la quiete del cortile - che tre sere prima aveva ospitato tantissima gente in una serata bella, intensa e divertente. Vederli scendere di corsa dai tre scalini oltre il tasso, leggere nelle loro braccia alzate la gioia di questo giorno, l'incontenibile voglia di viverlo fino in fondo, mi ha dato quella serenità che non immaginavo solo poco prima nel letto insonne. Una sensazione ammaliante, come una carezza, che mi avrebbe accompagnato tutta la giornata.
A parte due picchi. Due picchi di emozione che non ricordavo più potessero toccarsi con il cero vicino. L'alzata e la Calata. Due momenti che per me hanno superato di gran lunga la rigidità delle attese vissute da Barbi o su le girate, quando il cero l'avrei dovuto prendere io.In quegli istanti ho avuto conferma che il rapporto con il cero non finisce. Cambia solo la sua dimensione. E la proporzione. Il cero portato è un mondo intimo, che vivi con te stesso. Una battaglia fatta di contrazioni muscolari e di incertezze emotive dalla quale puoi liberarti solo con il contatto diretto con la stanga. Finché non sarai lì sotto non avrai pace, ma dipenderà tutto da te. Quel peso e' tuo e solo tu potrai sbrogliartelo di dosso. Facendo quello per cui sei lì.
Il cero vissuto da padre ti porta su un altro pianeta. Che decuplica tutto quello che avevi vissuto e che pensavi potesse essere il massimo. Come se uno scalatore immaginasse di aver visto l'Everest. E poi scoprisse che c'è dietro una montagna alta il doppio. Ti sembra quasi di non aver fatto nulla, di essere lì per caso, di non poter intervenire, se non con qualche consiglio (se richiesto). E a fine giornata, ripensandoci, mi sono accorto che ho parlato pochissimo con Giovanni, di cero. Una frase durante l'alzata, e una prima della calata. Bastavano quelle evidentemente. Perché ha fatto tutto bene. E certamente meglio di come avrei fatto io, alla sua età.
Non dimenticherò i 10 minuti accanto alla barella in piazza grande, o i 10 minuti appoggiato alla chiesa dei Neri nel pomeriggio. Con mio padre vicino che brandiva la mazzetta (se la sarebbe portata dietro fino in cima al monte, per scavijare il cero, come gli aveva chiesto suo nipote) ed era tranquillo. O forse lo sembrava. E io che mi chiedevo dove trovasse le energie per esserlo. Non dimenticherò il rumore delle brocche infrangersi in terra, e quei ceretti farsi faticosamente largo tra la stupida folla che si accalcava ostacolandoli. Non dimenticherò il volto concentrato, impaurito ma lucido di mio figlio fermo a metà calata davanti al groviglio di persone in quei pochi istanti in cui venivano rialzati gli altri due ceri. E quelle frasi che gli urlavo da un metro ma lui non sentiva. E poi via, di nuovo i ceretti pronti a ripartire e involarsi sulla curva de la Statua. L'ansia di raggiungerlo faticosamente tra la folla, lungo tutto il Corso, fino alle colonne di Barbi dove sapevo sarebbe uscito. E non dimenticherò la sensazione appagante, di gioia e di soddisfazione nel chiostro. Per una giornata vera che il destino ci ha regalato.
Non solo a me ma alla mia famiglia, per una festa che non è stata solo di Giovanni, ma di Vittoria e delle sue cugine, belle e orgogliose a fare da miss lungo la sfilata, del nonno, fremente e partecipe come non mai, durante tutto il giorno (l'ho visto sbucare sorridente dietro la barella in piazza Grande e ho capito che il suo cuore era carico di adrenalina), di Stefano, che a 30 anni esatta dalla sua brocca, gli ha dispensato consigli e raccomandazioni anche su cosa mangiare.
O di mia madre i cui unici consigli erano per un segno del padre in più, di quelli che il giorno dei Ceri, prima di uscire di casa, mi inumidivano la fronte, facevo in fretta e furia quasi controvoglia, ma in fondo, dentro, sapevo di volere e non poterne fare a meno.
Il 2 giugno è stato tutto questo. E forse anche molto altro, che ora non mi sovviene. Resta l'immagine di uno stendardo, bellissimo, che non vorrei mai togliere (per un giorno l'ho lasciato da solo, togliendo tutti gli altri), nato dalle mani sapienti di Elvira e dal tocco artistico di Pinzaja, generosi come lo è stata Caterina, per i paramenti della divisa.
Il 2 giugno non tornerà. Ma c'è stato, ed è stato ancor più bello di come l'avrei voluto. Una di quelle giornate che ti tolgono le energie, tutte. Tanto da renderti praticamente impassibile anche se, appena il giorno dopo, ad esempio, la tua squadra del cuore perde malamente una finale di Champions attesa da due anni. Chissenefrega (almeno per adesso) mi sono detto. Se le energie torneranno, se l'anestesia del 2 giugno finirà, forse sentirò un po' di dolore. Per ora c'e solo spazio per un po' di nostalgia e per un enorme grazie. Un po' a tutti. A cominciare da Ilaria, che dietro le quinte sa guidare la scena meglio di un direttore d'orchestra. E per tutto ciò che non ha riguardato la corsa, ha meriti che vanno molto di la di quelli del sottoscritto.
E il grazie va anche e soprattutto a Giovanni. Che si è regalato e mi ha regalato questo 2 giugno. Senza copione ma con la spontaneità che appartiene a questa piccola parentesi finale. Che fa della Festa dei Ceri piccoli l'unica espressione degna di offrire una speranza per il futuro di questa comunità. La speranza che questa generazione mantenga la bellezza di questo giorno. Non solo per vivere i Ceri. Ma per se stessa.
"Non vedo l'ora che siano i Ceri, babbo". Anch'io non vedo l'ora Giovi. Ed era qualche anno che non me lo dicevo più...
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