Se mi avessero detto qualche tempo fa "cosa sarebbe per te un anno senza Ceri?", avrei risposto d'istinto: "Un anno perso".
Ne ho avuto un minimo sentore l'anno scorso, quando un improvvido infortunio alla mano sull'alzata mi è costato tutta la "mostra": ovvero, il momento più coinvolgente e appagante, soprattutto per le spalle dei ceraioli ormai vicini ai 50...
Misuriamo la nostra vita con due cose: un calendario e un termometro emotivo.
Molti anni li ricordiamo per non più di 3-4 accadimenti. Tra questi, in ordine sparso, per un eugubino, non manca quasi mai il 15 maggio.
Abbiamo amicizie, legami, ricordi che sono avvinghiati a questa data. Senza la quale non esisterebbero.
Abbiamo persone di cui non conosciamo neppure il nome, ma solo "come je dicono". Che il più delle volte è un appellativo sentito in taverna.
Conserviamo sorrisi, abbracci e aromi che si confondono. Se non fosse che solo in quei momenti li riusciamo a decifrare.
Mescoliamo colori, profumi, brividi, che accompagnano la nostra memoria e ci proiettano a luoghi, angoli e scorci familiari per poche settimane. Vissuti e assaggiati davvero solo quel giorno.
E' un capodanno dell'anima, il 15 maggio. Per ogni eugubino. Che non solo tende a dividere il proprio calendario mentale (prima e dopo i Ceri) ma che a quel giorno affida l'eredità di una piccola personale memoria; come un microchip, sottocutaneo, la cui pellicola corre parallela alla nostra esistenza. E la pervade silenziosamente per 364 giorni.In quel nastro ritrovi un cammino individuale ma condiviso. Prezioso e intangibile. Di cui custodisci gelosamente ogni reperto, come gli scatti sbiaditi di alcuni album fotografici che un vecchio ceraiolo non scambierebbe per nessuna contropartita bancabile.
In questo film ideale, compaiono persone che rivedi solo una volta all'anno.
E poi quelle che vorresti ancora avere accanto, solo per ciò che hai vissuto con loro in pochi istanti; solo per ripercorrere insieme pochi secondi. Per rimestare i sapori più improbabili della mostra, avvinghiare i lembi di una camicia, assaggiare il salmastro di un sudore, inghiottire il rimbombo dei passi che si avvicinano. E ti offuscano.
Cancellando per pochi attimi ciò che sei, cosa hai fatto fino al giorno prima, o cosa ti attende dal giorno dopo.
Per implodere e poi esplodere. Per sentire te stesso. Pervaso.
Di emozione, di paura, di coraggio. Di vita.
E il 2020? Non so cosa racconteremo ai nostri nipoti di questo 2020. Forse nulla di tutto questo. Forse qualcosa di speciale: perchè non c'è, o perchè qualcos'altro lo avrà sostituito.
E a chi ci dovesse apostrofare con un "Tutte ste storie per una festa di un giorno che salta...", risponderei:
"Non abbiamo rinunciato ad una festa, ma al nostro nome, al nostro Capodanno, alla nostra identità. E non solo per un dovere civico più grande. Ma per onorare chi ce l'ha trasmessa come mai avremmo immaginato, nella più alta delle sue espressioni: la rinuncia. Che in questo 2020 e' rispetto, solidarietà e senso di responsabilità. Valori tutt'altro che estranei a questo giorno. E a tutte le sue indecifrabili follie. Questo 2020 ci insegnerà qualcosa di gigantesco. Che mai avremmo immaginato.
Che l'assenza è in realtà un esserci e un sentire ancora più forte e intenso. E in fondo preparatorio di quando tutto tornerà.Pensiamoci bene. Avremmo dovuto stare soli, il 15 maggio. Soli, distanti e silenti.In realta' nulla si può fare da soli, il 15 maggio. Neanche pisciare alle 6 meno 5.
Torneremo. Come tornerà la vita. Che in fondo, è proprio ciò che questa festa porta da sempre, dentro e fuori di sé, in trionfo.
Una riflessione che condivido e che visto altri commenti, per fortuna credo minoritari, mi rasserena.
RispondiEliminaGrazie
Meravigliosa, W i Ceri, eterni
RispondiEliminaBene, è proprio così, Giacomo!
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