C'è chi ci arriva per molto peggio, in quelle salette. E dunque, non sono qui a lamentarmi. Ma semplicemente a dire che non avrei trovato affatto offensivo, nonostante la gigantesca incazzatura che avevo addosso, veder passare per quel corridoio un “ceretto” (per di più di Sant'Antonio) condotto da due infermiere. Fosse stato anche l'unico momento di svago e distrazione per le due operatrici... anzi, sicuramente mi avrebbe regalato un sorriso, l'unico possibile in quel momento.
Lo dico perchè questa foto è finita, suo malgrado, additata tra le “storture” dell'ultimo 15 maggio, quello virtuale, quello sospeso, quello del 2020. Un 15 maggio che ha regalato momenti, immagini, silenzi che ci porteremo dentro a lungo. E sui cui sarà opportuno ancora meditare.
Per fare da contraltare a urla, schiamazzi, e amenità varie, sentite in strada o lette sui social nel giro delle successive 48 ore.
Che non sarebbe stata la Festa dei Ceri che tutti gli eugubini attendono per un lungo anno, lo si sapeva ormai da settimane. Alla fine però ciò che rischia di restarci in mente del 15 maggio 2020, si riduce a poco più di mezz'ora di assembramenti, in un arco di spazio di 200 metri, in mezzo a corso Garibaldi. Da evitare, certo. Ma anche da ricondurre sui binari di una onesta ricostruzione.
Un sentiero di tracce lungo una giornata di celebrazioni e di silenzi, di rinunce e di cerimonie solitarie. Di flash e di momenti altamente simbolici ed emozionanti. Che nessuna vicenda di cronaca potrà comunque oscurare.
A partire dal risveglio già anomalo, non con il rullo dei tamburi, ma con i passi solitari del cappellano dei Ceri e del trombettiere, accanto al Sindaco, lungo il viale sassoso del cimitero. In un'atmosfera rotta solo dal cinguettio delle rondini e da qualche flash dei fotografi.
Per arrivare al pomeriggio, all'inattesa discesa del Vescovo dal Duomo a Piazza Grande dove in uno scenario spettrale, con il solo sindaco al centro della piazza, e il 60mo successore di S.Ubaldo a giungere a piedi, quasi avanzando in punta di piedi sul selciato della piazza generalmente brulicante nei 15 maggio precedenti: un vento, che si direbbe come programmato sulla scena, a scuotere il Gonfalone del Comune facendo da corollario ad una benedizione che sul piano emotivo e scenografico resterà una delle icone più forti di questa giornata.
E poi l'unico rito laico vissuto dal Triduo fino al 16 maggio: il Campanone. Quel battito interiore che, abbiamo scoperto, scuote e riempie le distanze, non solo chilometriche, ma anche sostanziali. Emoziona per ciò che rappresenta anche quando ciò che dovrebbe esserci, non c'è.
E infine l'ultima inaspettata appendice, l'ascesa in Basilica, a piedi, del Vescovo; che a piedi aveva scelto di fare il suo ingresso in Diocesi, arrivando da Assisi; e a piedi ha rinnovato il silenzioso omaggio anche nella serata del Venerdì santo.
Stavolta, affiancato sempre dal cappellano, per rendere l'omaggio annuale al Patrono, a nome di tutta la comunità: portando un piccolo cero, in un lumino rosso, che simbolicamente rinnovava il rito come nelle origini, quando gli eugubini, esattamente 860 anni fa, celebrarono il proprio Vescovo e protettore, morto il 16 maggio 1160, con una processione di candele. Di ceri.
Già, i Ceri. I grandi assenti di quest'anno.
Un vuoto incolmabile. Che nelle ore successive al 15 maggio, però, abbiamo visto riempire di rabbia e di fiele. Di umori tossici che rischiano di farsi sentire anche in futuro, di arrugginire l'anima della Festa. Di annebbiarci il cammino.
L'immagine della città è stata macchiata, su questo non c'è dubbio. Ma anche la Festa dei Ceri e l'eugubinità ne escono offese.
Troppo se ne è parlato, direi anzi blaterato. E spesso a sproposito, anche da parte di chi non ha titolo per farlo. Finendo per disegnare un'immagine distorta e banale di quella che, specie fuori dai nostri confini, si vorrebbe liquidare come “pazzia eugubina”.
Non è questa la “pazzia eugubina”.
Non è arrogante, anarchica, prevaricatrice, insensibile alle norme o comunque al rispetto del prossimo. Non si può confondere la nostra indole quasi dinastica (appunto la “sana pazzia”) con la sciatteria.
Il 15 maggio non è sinonimo di “posso fare quello che voglio, e nessuno può impedirmelo”. I nostri nonni e poi i nostri padri, non ce l'hanno trasmessa così.
Né possiamo farci dire, con tutta onestà, da chi non conosce la festa, come questa dovrebbe essere. Neppure quando la città è “all'angolo”, in alcune sue espressioni, semplicemente indifendibile.
“Spurgare” il 15 maggio dalla pervadente e minacciosa “pamplonizzazione”: o si fa d'ora in poi, o non ci si riuscirà più.
Senza demonizzare il sano bicchiere di vino, senza puntare il dito sullo “stare insieme” (dopo che questo sarà consentito dall'emergenza): ma dicendoci una volta per tutte che la nostra Festa è qualcosa di più alto, di più autentico, di più nobile che una “gazzarra” dove chi urla più forte alla fine ha la meglio.
Questo 15 maggio ci lascia un'eredità straordinaria: di insegnamenti e di indirizzo. Fortunatamente in tanti stanno cogliendo questi segnali. Soprattutto tra i giovani.
E non commettiamo neppure l'errore opposto: di esorcizzare sistematicamente ogni espressione apparentemente “fuori le righe”.
L'innocuo “ceretto” su una corsia ospedaliera, visto proprio dagli occhi di chi un anno fa stava lì, arriva a dimostrare una volta in più che la "sana follia" eugubina, proprio come la Festa, è qualcosa di più alto, arguto e imprevedibile, degli episodi di sciatteria sguaiata e prepotente (che di ceraiolo non hanno nulla) a cui non dovremo mai rischiare di assuefarci.
E poi chi non capisce questa foto, e non coglie il lato straordinario di questo gesto, ignorando quanta leggerezza possa regalare a chi indossa quel camice come a chi si trova in sofferenza, faccia almeno un favore alla propria ignoranza.
E taccia...
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