Mi è capitato di ricevere questa lettera, in modo del tutto casuale. E' interessante leggerla, proprio in questi giorni. Non solo perchè ha esattamente 61 anni, ma soprattutto perchè ispira una riflessione molto attuale. Per i suoi contenuti straordinari (ma non sorprendenti) e soprattutto per il suo firmatario.
sabato 21 agosto 2021
Da una lettera di Mario Rosati al dibattito di oggi sulla Festa dei Ceri. E una scelta di fondo: preservare il rito o la partecipazione coreografica?
venerdì 6 agosto 2021
Nell'Olimipiade dei record azzurri, il flop degli sport di squadra. E un rimpianto che porta al Campidoglio...
A testa alta anzi altissima, l'Italbasket che il suo prodigio lo aveva già compiuto e avrebbe avuto bisogno del coniglio dal cilindro per far fuori una potenza come quella francese. Forse l'unico rammarico è non aver creduto abbastanza di poter battere l'Australia nel primo turno guadagnandosi poi un avversario più morbido ai quarti.
Il Settebello non ha avuto fortuna pescando subito la Serbia nonostante non avesse perso neanche una gara. Al primo inciampo gli azzurri campioni del mondo si sono ritrovati sulla scaletta dell'aereo.
La squadra di Blengini manca un appuntamento che gli azzurri centravano da 29 anni, inizio era Velasco, Olimpiadi spagnole con il sestetto fresco di Mondiale che si fa sbattere fuori dagli yankees di Kiraly. Facile dire che è finito un ciclo. Purtroppo lo zar non è più lo zar, in attacco le rotazioni non hanno funzionato (peccato aver lasciato a casa Pippo Lanza) e a Juantorena non si poteva chiedere di più. Il vero rammarico è essere usciti contro un avversario sicuramente forte ma non impossibile come l'Argentina guidata da un alzatore che in Italia gioca da talmente tanto tempo che forse non ricorda più neanche la lingua madre.
Squadra giovane quella di Mazzarri con enormi margini di crescita ma incapace di declinare termini come umiltà, continuità e determinazione (specie nelle figure leader, o presunte tali, come Paola Egonu). Non poco, anche pensando agli Europei di scena tra 2 settimane.
Postilla finale per il calcio. Che non figura sul banco imputati solo perché le due nazionali non si sono neanche qualificate.
Dunque il bilancio è ancora peggiore, specie se si pensa al caso della under 21 uomini, dato che l'Europeo in cui è mancato il pass per Tokyo, si giocava in casa e (aggravante ulteriore) si era aperto battendo 3-1 la favoritissima Spagna salvo poi dilapidare tutto con la Polonia. Per la cronaca, tra un paio di giorni gli iberici che abbiamo "graziato", si giocheranno l'oro contro il Brasile.
In definitiva, se le due discipline più seguite dagli spalti e praticate sul campo (calcio e volley) fanno acqua alle Olimpiadi qualche domanda al Coni (ma anche in Federcalcio e Federvolley) dovranno pur farsela.
Nell'edizione Olimpica che consegneremo alla storia per i 20 minuti più adrenalinici della storia sportiva azzurra (e non solo) e forse per il record di medaglie da Roma 1960 ad oggi, il flop totale degli sport a squadre non può passare inosservato.
In fondo basterebbe ispirarsi a chi negli ultimi anni ha saputo fare passi da gigante. Nell'anno di Euro 2020 pare paradossale, ma parliamo del Regno Unito.
Con i Giochi Olimpici 2012, Londra e dintorni non si sono solo rifatti il look ma hanno riversato valanghe di sterline in impiantistica e settori giovanili. Guardare il medagliere di Sua Maestà nelle ultime 3 edizioni olimpiche per credere.
Dalle nostre parti invece l'unica chance chiamata Roma 2024 e' stata beatamente cestinata in un clima di piena idolatria demagogico-populista. Se nei prossimi anni mancheranno risorse da investire nello sport e nell'impiantistica, sappiamo, tra gli altri, chi ringraziare. Basta citofonare in Campidoglio.
martedì 13 luglio 2021
I colori di un Europeo da incorniciare: dal carisma del Mancio alla stampella di Spinazzola...
Era successo una sola volta, prima ancora che nascessi. E in situazioni molto diverse (non esistevano neanche i supplementari, la semifinale l'avevamo vinta con la monetina come neanche nel vicolo sotto casa avremmo mai pensato, e la finale con la Jugoslavia venne rigiocata il lunedì dopo uno scialbo 0-0). E senza l'impatto mediatico di oggi.
Le emozioni di domenica, però, resteranno impresse a lungo nelle nostre menti, avranno una loro identità: perchè anche se sono stati i rigori a regalare la Coppa – come già avvenuto nel 2006 – l'escalation è stata diversa.
Come quegli istanti di incertezza dopo la parata finale di Donnarumma (neanche lui aveva capito subito di aver vinto, non è un robot fortunatamente) che avranno lasciato interdetti milioni di italiani.
Lo confesso: dopo l'errore di Jorginho non ci speravo più. Quei secondi che separavano il fischio dell'arbitro dalla sua lenta e saltellante rincorsa, li ho trascorsi a gridargli di guardare il portiere, come se potesse sentirmi: se segnava, eravamo campioni. Niente da fare. E mentre lo vedevo scuotere la testa per l'errore imperdonabile, davo per scontato un epilogo simile a 5 anni fa quando l'eccessiva esuberanza dal dischetto di Zaza e Pellè, ci costò il passaggio in semifinale, potendo andare addirittura avanti 3-1 nei rigori coi tedeschi.
Invece stavolta è andata bene. Perchè quando vinci ai rigori devi dire solo questo: “è andata bene”. Con molta meno filosofia, invece, si digerisce il concetto che “è andata male” quando si perde. E la mia generazione lo sa: avendo trascorso i suoi 20 anni, fino quasi ai 30, a disperarsi per le puntuali sconfitte degli azzurri dagli undici metri.
E' andata bene anche avere in porta un “sacramento” come Gigio Donnarumma. Che sarà pure gestito da un manager avido e senza scrupoli, ma è prezioso per il calcio italiano come il David di Michelangelo lo è per Firenze.
Ora andrà a prendersi 60 milioni in 5 anni a Parigi e tornerà presto ad essere meno simpatico: ma quando la Nazionale potrà affidarsi a lui, non dovrà temere neanche l'epilogo dei rigori. Come ha detto Mancini “due almeno ne para. O li fa sbagliare” (che è quanto avvenuto puntualmente con Olmo e Rashford).
Poi è ovvio, anche qualcuno dei nostri deve metterli dentro.
A proposito: chapeau per Bernardeschi e Bonucci.
Prima ho volutamente citato l'ex gigliato: in fondo è il suo il gol che ha deciso la finale...
Uno dei giocatori più bistrattati dell'ultimi quinquennio, sbeffeggiato dai suoi tifosi forse più che da quelli avversari, reduce da un paio di stagioni semplicemente da cancellare. Ha giocato le sue gare all'Europeo in punta di piedi, senza strafare, ma facendo il suo. Un palo col Galles, e qualche spunto. Molta diligenza tattica. Nulla di eccezionale ma anche libero da quelle paure che in bianconero sembravano traviarlo. Poi si è presentato 2 volte sul dischetto, in una semifinale e in una finale europea: ci vogliono gli attributi per questo, altro che.
Mi ha ricordato De Rossi che sul dischetto in finale coi francesi andò nel 2006 dopo 4 turni di squalifica. A chi gli chiese: “Ma tiri? Se sbagli ti massacrano”. “Sto peggio a guardare gli altri tirare senza prendermi la responsabilità” rispose.
Bonucci, sul fronte attributi, invece non è una novità.
E' un po' il Materazzi di questi anni: amato-odiato dalle tifoserie, in Nazionale mette tutti d'accordo. Gol pesanti i suoi, quelli buoni e quelli annullati (aveva già segnato al Belgio ma in leggero offside), ma soprattutto anche qui grandi spalle (o se preferite, togliete la s) ad andare sul dischetto. Dove ha avuto in azzurro alterne fortune (errori con Spagna e Germania ma anche il pari sempre con i tedeschi 5 anni fa, quando tirò in gara semplicemente perchè avevamo finito i giocatori in grado di stare in piedi).
E poi il capitano: Giorgio Chiellini. Un giocatore immenso, con quel viso da vecchio artigiano della pedata che tradisce invece l'indole di un ragazzotto vigoroso ma signorile, spietato nelle marcature quanto sportivo e sorridente con gli avversari, appena un frangente anche in gara consente di smorzare la tensione. Uno che abbraccia tutti, e non sai se nel frattempo ti prende le misure, che "gigioneggia" durante il sorteggio dei rigori con la Spagna come dovesse giocarsi un gelato a briscola, uno con laurea e master, destinato a ruoli dirigenziali: nella Juve o direttamente in Federazione.
Uno che davanti al Capo dello Stato non ha dimenticato l'amico Davide Astori. Che volle salutare, insieme alla squadra bianconera, unica presente, l'ultima volta al funerale, pur essendo poche ore prima in campo proprio a Londra contro il Tottenham di Kane.
Questa Coppa ha anche il volto di Jorginho, brasiliano di nascita ma che in Italia è calcisticamente cresciuto, partendo dalla periferia e dalla serie C, passando per la B (con il Verona anche a Gubbio) e arrivando a vincere nello stesso anno Champions League ed Europeo. Infallibile dagli 11 metri, proprio in finale ha dimostrato che non si giudica un giocatore da un calcio di rigore. Specie se a risputartelo fuori è un palo interno. Dopo 20' temeva (e noi con lui) di aver finito il torneo. Due ore dopo era sul dischetto. Giocatore monumentale sul piano tattico, che raccoglie l'eredità di gente come Ancelotti, Albertini o Pirlo. E che purtroppo le big italiane non hanno saputo intercettare prima che arrivasse il magnate russo del Chelsea.
La serie C e la serie B: quanti talenti inespressi vegetano in queste lande pedatorie senza la giusta fortuna?
Come i Grosso, Materazzi e Gattuso venuti dalla C e diventati campioni del Mondo, i tre talentuosi azzurri dimostrano come basti cercare bene, cercare ovunque, cercare con intelligenza nei meandri del calcio italico, per trovare talenti. Anzichè riempire le nostre categorie di anonimi e non sempre volonterosi stranieri, che non servono più neppure per qualche abbonamento pre-campionato.
Due righe le merita Federico Chiesa: che a differenza dell'omonimo Bernardeschi, arrivava da una stagione top, dove già aveva dimostrato che più alte sono le vette, e più il figlio da'arte sfoggia un'abilità di scalatore dolomitica. L'Europeo lo ha consacrato come top player. Unico azzurro capace di spaccare una partita, di creare un pericolo dal nulla, di dare scompiglio alla monotonia, invertire un'inerzia. I gol che ha siglato parlano per lui: istinto e classe, capacità di osare.
Se invece dovessi trovare un'immagine simbolo di questo trionfo, ricercando un semplice oggetto, penserei alla stampella di Leonardo Spinazzola: l'alfiere umbro di questa splendida pattuglia azzurra, grande protagonista fino ai quarti con le sue scorribande a sinistra (degne di un Cabrini o per restare agli ex grifoni, di un Fabio Grosso). La fortuna non lo ha aiutato neanche stavolta, resterà fuori a lungo, ma questo non gli ha impedito di restare protagonista anche fuori dal campo.
Diventando uno dei motivi che hanno spinto la squadra a dare di più; tornando a Wembley dopo un'operazione subita in Finlandia; affiancando la squadra nel momento più decisivo e finendo prima di tutti sul podio, con quelle grucce che dicevano tutto su quanto questo gruppo fosse unito, granitico, più forte di qualsiasi avversità.
Ma se in questa Italia senza primedonne, con Bonucci "capocannoniere" a 3 e tutti gli altri appaiati a 2 reti (nell'ordine, Immobile, Insigne, Chiesa, Locatelli, Pessina e mettiamoci pure Bernardeschi) esiste un leader, questi è senza dubbio Roberto Mancini.
Essere leader non significa essere soli. Tanto che lui, il suo staff, se lo è scelto direttamente tra gli ex sampdoriani più fidati.
A cominciare da Gianluca Vialli, esempio di vita prima ancora che di calcio. Il loro abbraccio e quelle lacrime, valgono più di ogni commento. In più Oriali e De Rossi, che hanno vinto Mondiali diversi in ere diverse, ma che sanno cosa serve per arrivare fino in fondo.
La sua calma quasi olimpica, così lontana dall'esuberanza che esprimeva da giocatore (cui la maglia azzurra non ha mai regalato soddisfazioni) ma anche competenza e determinazione, ne hanno fatto un personaggio di indiscusso carisma. Sta girando un video sul suo discorso pre-gara: “Sapete cosa dovete fare, non siamo qui per caso. Non pensiamo che quel che accadrà dipenderà dall'arbitro o dagli altri. Dipende solo da noi”.
Bellissimo. Anche se, confesso, certe immagini andrebbero lasciate nell'intimità di uno spogliatoio. Se il video ormai svela pure questo, non resta nulla di segreto, di fantasticamente nascosto, del “dietro le quinte” calcistico.
Era scritto che vincessimo. Forse era scritto da qualche parte. Venivamo da una cocente delusione (mancata qualificazione ai Mondiali). Come nell'82 l'Italia era reduce dal primo calcioscommesse, o nel 2006 da Calciopoli. Vicende diverse ma non meno traumatiche della “apocalisse tecnica” firmata Ventura-Tavecchio.
Era scritto perchè la finale era l'11 luglio. Una data che per un tifoso italiano non poteva essere macchiata da una sconfitta. Quell'11 luglio di 39 anni fa gli azzurri del “Vecio” Bearzot e soprattutto Paolo Rossi si consacravano, contro ogni pronostico. Già, Pablito. Non potevo non pensare che a pochi mesi dalla sua scomparsa, il destino non si sarebbe divertito a ricompensare i tifosi azzurri.
Non a caso, è quanto accaduto anche agli argentini (sempre contro la nazionale ospitante), poco dopo la scomparsa di Diego Maradona. E in fondo, era accaduto anche nel 1994 ai brasiliani, che vinsero (sempre dagli 11 metri) contro di noi, ricordando la scomparsa di due mesi prima di un mito come Ayrton Senna.
Sarà tutto casuale? Ognuno la pensi come vuole. Io credo di no...
lunedì 17 maggio 2021
Dopo questo nuovo 15 maggio di "vuoto", una sola speranza: rivederli appena possibile...
Che 15 maggio è stato in questo 2021?
Beh se non sapevamo come ricordarcelo ci ha pensato il monte Foce a lasciare il segno.In fondo quello sciame sismico neanche troppo vistoso, nell'intensità (scossa massima 3.9) e speriamo nella durata (tocchiamo ferro) ha attenuato i rimorsi per un secondo anno di assenza. Chissà, magari, in condizioni pre Covid, questo fenomeno tellurico, unito alle misure di sicurezza ormai aumentate fin dal 2018, avrebbe potuto consigliare a qualche autorità di intervenire. Mentre eravamo tutti a S.Lucia pronti a partire per la sfilata (l'ora della scossa maggiore più o meno è stata quella).
Stavolta a differenza di altri anni, non voglio raccontare cosa sia stato per me questo 15 maggio.
In fondo non ho neanche messo gli stendardi.
Quest'anno no. Nell'aria avvertivo qualcosa di più ammorbante, una sensazione di torpore piatto, quasi il riflesso di una rassegnazione diffusa. Un appannamento delle menti e forse anche dei cuori che altrimenti non si spiega se non con una sorta di assuefazione all'assenza. Non è elaborazione del lutto. È consapevolezza che ciò che di più prezioso si aveva da "toccare", ancora per un bel pezzo sarebbe rimasto lontano. È dura da digerire. Lo è ancor di più oggi, qualche giorno dopo.
Ho utilizzato una metafora prettamente ceraiola per descrivere questo 15 maggio: lo scorso anno eravamo come quel ceppo che "tribola" ma intravede da lontano la muta che gli darà il cambio; quest'anno ci si sente come quello stesso ceppo che, si', ha superato la muta... ma il cambio non gliel'hanno dato. E non sa per quanto ancora dovrà stringere i denti...
Una città stravolta, dalla fatica di attendere il suo "Capodanno dell'anima", senza il brio che ti dà una prima volta (l'anno scorso in fondo lo era) ma solo la certezza di essere condannati a rinunciarvi ancora.
Per quanto ancora?
La domanda è legittima.
Eppure proprio in questi giorni si avverte sempre più diffuso un desiderio. Lo scorso anno appariva più una provocazione. Ora assume una veste più concreta. Perche' necessaria, e sempre più diffusamente sentita.
Parlo della Festa dei Ceri a settembre.
Un'utopia?
Pensiamoci insieme per un attimo.
Abbiamo bisogno, per tanti motivi, per tante rinunce, per tanti sacrifici attuali e futuri, che i nostri cuori tornino a pulsare.
Se ne parlerà nelle prossime settimane? Sembra di sì (i capodieci hanno accennato questa consultazione ai ceraioli, non meglio precisando in quale forma, spero nei toni più sereni e condivisi possibili). L'importante è fare presto. Per decidere prima che diventi un tormentone estivo, come quelli che ballavano beatamente fino a 2 anni fa.
Qui provo a utilizzare il mio spazio per condividere con voi quel che penso.
Da ceraiolo, ceraiolo santantoniaro, ceraiolo che non ambisce più (ahimè) alla spallata, ormai a 32 anni di distanza dalla prima (un pezzo da punta dietro sui Pinoli, improvvisato, buttato nella mischia nonostante i rimbrotti di un poco convinto Enzino Menichelli). Ma che desidera come tanti altri, tornare a respirare "l'aria dei Ceri". Che per chi è come noi è meglio di un vaccino.
Già, l'aria dei Ceri. Che è vero, è un'aria di primavera. E questo sarebbe un punto a vantaggio dei "tradizionalisti", quelli che non sentono e non vogliono sentire parlare di Ceri a settembre. Che l'anno scorso avevano pure le loro ragioni, legittime, ma che stavolta non mi sento di condividere.
A parte le battute meteo, le vere motivazioni per cui mi piacerebbe prendere in considerazione l'ipotesi dei Ceri a settembre sono altre. Con una premessa doverosa: nessuno vuole "votarsi al massacro", ci devono essere le condizioni per festeggiare come sappiamo la nostra Festa. Nulla però fa pensare che tra poco meno di 4 mesi (tanto ci separa da settembre) il quadro epidemiologico e soprattutto vaccinale non arrivi a consentircelo. Specie dopo che 30 mila persone in piazza a Milano, quasi un mese fa, hanno prodotto zero contagi.
Ci sono 3-4 motivi che fin dall'anno scorso mi hanno spinto a pensare a settembre.
Il primo è proprio la situazione di settembre 2020, quando senza vaccini, l'estate ci aveva portato al livello minimo di contagi e diffusione del virus. Il che fa pensare che quest'anno con la vaccinazione in corso, tra 4 mesi il quadro possa essere ben più favorevole (certezza che non possiamo avere invece per maggio 2022).
Secondo perché nella storia dei Ceri ci sono gia' stati episodi eccezionali per i quali la Festa non si è celebrata il 15 maggio. Giusto 100 anni fa, per non andare troppo indietro, la Festa del 1921 si svolse il 22 maggio (il 15 c'erano le elezioni politiche) e i tremendi scontri tra socialisti e fascisti crearono il caos tanto che furono le donne a portare i Ceri in cima al monte arrivando a notte fonda.
Ma soprattutto: i Ceri a settembre sarebbero un segnale di risveglio straordinario per un'intera comunità, uno sbocciare pre autunnale (ma in realtà di una "nuova primavera"), che tutta Gubbio attende con ansia dopo un anno e mezzo di restrizioni.
Perché sono l'unico vero segnale, anzi l'unica vera "scossa", che le nostre coscienze e la nostra anima potranno cogliere nel cammino verso il ritorno alla normalità.
Un ultimo dettaglio, da non sottovalutare, mi fa pensare a come siano auspicabili i Ceri a settembre: sarebbe una festa vera, e al tempo stesso una vera festa.
Anche perché, e così chiudo, nessuno ci garantisce che poi il 15 maggio 2022 si faranno i Ceri.
Teniamoci stretta l'unica certezza che ci resta: di avere ancora la festa più bella del mondo
Da custodire ma anche da condividere e tenere viva prima che diventi un'abitudine.
Noi tutti sentiamo il bisogno di ritrovare energia, vitalità, voglia di riprendere e di ripartire. Come dopo una caduta. Quella ripresa, quella ripartenza, per noi eugubini, può esserci soprattutto quando rivedremo i Ceri.
Appena possibile, e se possibile, proprio il prossimo 11 settembre: condividendo il desiderio di tornare alla normalità e l'amore per questo rito. Che sa essere se stesso anche nell'eccezionalità degli eventi. E delle date.