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martedì 12 agosto 2014

Un Paese che sa di Tavecchio...

Sembra che Moody's abbia abbassato il rating dell'Italia dopo l'ufficializzazione di Carlo Tavecchio alla guida della Figc. Non tanto per i valori economici del nostro disastrato Paese, ma per la coerenza  della sua classe dirigente.
Per carità - visto quel che accade anche fuori dai nostri confini - sono in pochi a poterci dare lezione. Ma il Belpaese si diverte a fare di tutto per mettersi sotto i riflettori, nelle peggiori tonalità.

Il calcio, che non è più un gioco ormai da decenni, resta un'industria simbolo dell'Italia. Non a caso splendeva di luce propria negli anni Ottanta, riuscendo a rappresentare la faccia opulenta di un Paese "da bere" che stava però cartolarizzando il proprio presente (dopo aver messo in freezer il futuro delle prossime generazioni, almeno quello pensionistico). Dal flop di Italia '90 - sportivo e soprattutto di programmazione e infrastrutture - la parabola è stata una discesa quasi costante e inarrestabile, intervallata da qualche sussulto agonistico (Mondiali 2006, Europei 2012), che a vederla oggi, appare come l'eccezione che conferma l'andazzo.

Oggi il mondo del pallone è lo specchio del vuoto italico: di quello economico-finanziario e soprattutto di quello valoriale.
Carlo Tavecchio, nuovo Presidente Figc, è alla guida della Lega Dilettanti dal 1999: di lui non si ricordano in 15 anni riforme o iniziative epocali, ma neanche spunti o idee tali da perorarne l'improvvisa candidatura alla guida del Calcio italiano, dopo le dimissioni di Abete, abbattuto, insieme a Prandelli, dall'inzuccata di Godin.
Tavecchio è paradossalmente diventato famoso per un infortunio topico nel descrivere un problema reale - empasse tipica di chi ha responsabilità decisionali, capire i problemi ma non essere capace neppure di rappresentarli verbalmente. E la sua ormai mitica scivolata su "optì Poba" ha trasformato quello stesso problema reale (troppi stranieri) in una boutade che ha fatto il giro del mondo, con sberleffi annessi.
Se fosse quello il suo manifesto politico-programmatico somiglierebbe ai cartelli murali "Più tasse per Totti", ideati dal centrosinistra per scalfire la supremazia mediatico-populista del Cavaliere, con risultati - fuori dai Tribunali - sempre modesti.

La vicenda Tavecchio è paradigmatica di un Paese che non solo non sa cambiare, ma preferisce affidarsi al "brizzolato sicuro". E detto da chi scrive (che brizzolato ormai è quasi a tutti gli effetti) non può essere presa come una "pro domo sua". Ma se di un padre si potrebbe aver bisogno, il nonno non serve a dare la sterzata. Tutt'al più la ninna nanna.
La scelta della gran parte del calcio italiano assume piuttosto i connotati della classica scommessa gattopardesca: lasciare nella stanza dei bottoni un signore con l'aria da zio bresciano di secondo grado, da cui ti aspetti una barzelletta o un aneddoto con il suffisso "Ai miei tempi"... più che una strategia risolutiva della crisi atavica di un movimento di milioni di praticanti. Non a caso a votarlo sono stati soprattutto coloro che vogliono cambiare perchè in fondo nulla cambi: buona parte delle società di A, tutta la B e la Legapro. La fantomatica Lega pro.
Un coro così stranamente oceanico da far apparire Demetrio Albertini più affidabile di quanto anche la sua esperienza federale non dica. Se non altro per motivi anagrafici (che pur da soli non dovrebbero bastare).

Pasolini ripeteva fin dagli anni Settanta che l'unica religione ormai praticata domenicalmente, era quella del pallone di cuoio.
Il calcio non è più ormai vicenda domenicale (metà delle partite si giocano negli altri giorni). Ma ora l'Italia ha un suo nuovo "sacerdote". Lasciando stare le sue omelie, speriamo almeno riesca a dire messa fino in fondo. Non saremo nel coro. E caso mai, al rosario penseremo da soli...

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