Ognuno forse ha un suo motivo per celebrare i 100 anni della Grande Guerra.
Il mio si chiama Stefano Marinelli, classe 97, tenente, a 18 anni, in prima linea...
A casa non raccontò mai nulla di quanto visse in quella trincea, se non della gioia di entrare a cavallo a Trieste: e della bellezza irresistibile di alcune triestine (che l'asperità delle battaglie lasciate alle spalle devono aver sicuramente accentuato).
Ma le rughe sulle mani, gli abbracci caldi carichi di bene a noi nipoti, il sorriso tenero di chi aveva visto l'inferno ed era riuscito a tornare, erano lì, quasi a renderne testimonianza silenziosa.
Nè cambiarono le cose con la seconda guerra mondiale (fece pure quella): se non la sua anagrafe (di anni ne aveva 40), se non la destinazione (il Montenegro anzichè il Monte Grappa), se non il fatto di avere oltre che una moglie, mia nonna Anna, anche un figlio (mio padre) che lo attendeva a casa.
E che chiamava teneramente "Giorgetto" nelle cartoline inviate dal fronte, per far sapere che andava tutto "bene". Che quando sei in guerra, non significa vincere o perdere. Ma: "Ancora sto nelle condizioni di poter tornare".
Ho pensato spesso a quelle cartoline, che mio padre conserva tuttora nel suo ufficio, quasi fossero souvenir da luoghi di vacanza. In fondo è proprio quello - l'azienda di famiglia - il luogo dove poi il nonno Stefano ha consacrato la sua esistenza, dedicando tutto se stesso alla famiglia, all'impresa di famiglia, al futuro della famiglia, restandoci ancorato, su una sedia all'ingresso, anche ultraottantenne, con quell'aria sorniona ma anche saggia con cui squadrava ogni cliente all'ingresso. Non mancando di apostrofare tra sè e sè quelli meno "affidabili"... (Oggi praticamente, secondo i suoi antichi e nobili canoni della "parola data" o della "stretta di mano che vale più di un contratto", sarebbero in pochi a salvarsi).
Ci ho ripensato spesso leggendo soprattutto "Il tempo migliore della nostra vita", uno dei cinque libri finalisti del premio letterario "Campiello", scritto da Antonio Scurati, che ho avuto il piacere di conoscere e intervistare, insieme agli altri quattro autori, il 22 luglio scorso, in un caldo ma appassionante pomeriggio di letteratura, vissuto alla Sala dell'Arengo di Palazzo dei Consoli: la prima volta della "cinquina" a Gubbio.
Scurati racconta la breve ma intensa esistenza di Leone Ginzburg, uno degli intellettuali più integerrimi (oltre che colti) del secolo scorso, capace di opporsi al totalitarismo culturale non con le armi, ma con la cultura. Capace di fondare una casa editrice ancora oggi importante (la Einaudi), pur dovendo lavorare nell'ombra, in quanto perseguitato (era ebreo, di origini russe). Capace di lasciare tracce indelebili nella cultura del nostro Paese, pur essendone rifiutato dal sistema di cui si ritrovò a far parte. Tra i tanti "no" che ebbe la forza di pronunciare - rinunciando ad una brillante carriera universitaria, essendo già ordinario ad appena 25 anni - un "si" prevalse su tutto: quello di continuare a lavorare per la cultura.
Ma la storia di Ginzburg - e di sua moglie, Natalia, che poi ispira anche il titolo del libro - viaggia parallela con le storie delle due famiglie dell'autore, di Antonio Scurati: i Ferrieri di Napoli, la famiglia materna, e gli Scurati della Brianza, quella paterna.
Le loro vite, pur anonime, pur sconosciute, lontane dai riflettori della fama e dagli altari della cultura letteraria, hanno potuto ergersi a testimonianza viva e autentica di quel tempo. Con le paure, i timori, le angosce attraversate. Ma anche gli amori, le gratificazioni, gli entusiasmi, i sogni che pur quell'epoca difficile - quale ogni guerra si rivela - aveva prodotto.
Tanto da rendere quella generazione "paradossalmente fortunata" agli occhi di chi, oggi, vive sostanzialmente nell'agio e nella quiete di una pace eterea (rispetto alle bombe che quotidianamente sconvolgevano Napoli come la Lombardia, sia che fossero "alleate" o tedesche). Una serenità, quella odierna, senza brividi, senza ideali per cui battersi, con una generazione di mezzo (la nostra) "condannata" a convivere con i piccoli sussulti di una cronaca quotidiana orfana di eroi, ma soprattutto di ideali. Incapace di intravedere, nel caotico susseguirsi di informazioni e notizie, fitte come una scarica di mitragliatrice, gli scossoni della Storia. Che ormai è rimasta solo quella dei libri.
In questo parallelismo, in questo doppio binario a distanza, mi sono ritrovato, pensando proprio a mio nonno Stefano. Lui che, poco più che 17enne, si ritrovò al fronte a dover fare i conti con le granate e le pallottole degli austro-ungarici. A mettere il suo mattone silente e coraggioso sul muro della storia di un Paese che - allora non sapeva - l'avrebbe a mala pena commemorato 100 anni dopo. Dimenticandosene pero' nel lungo frattempo.
Lui, anonimo tra tanti, ha fatto la storia, La sua e quella del suo Paese. Ma in fondo - mi convinco - l'ha fatta anche dopo.
Come potrebbe raccontare un'altra cartolina, che conservo ancora a casa: l'Autorimessa Grand'Italia, tra le primissime imprese nell'incipiente mondo dei motori, che il nonno Stefano amava, con il suo curioso numero di telefono, appena ad una cifra, il 9.
Anche quella è stata storia. In quella logica di costruzione miniaturizzata di un processo sociale, economico, di vita - dagli anni Sessanta ai giorni nostri - che non ha meno valore, nè peso specifico, delle sortite in trincea. E del trionfo di Vittorio Veneto.
Se noi oggi siamo, siamo anche grazie ai sacrifici di chi ci ha preceduto: e i sacrifici non sono solo quelli patiti in divisa.
Avevo appena 13 anni quando mio nonno se ne è andato, una sera d'autunno del 1984.
Mi mancano le sue coccole, i pranzi delle "battiture" dove ci portava a S.Martino in Colle, i vizi che ci regalava (perfino un cavallino pony che chissà quanto mai avrà durato). Ripenso perfino alla sua mollica inzuppata nel vino che ci faceva assaggiare di nascosto a piccole gocce, da bambini, prima di pranzo (evitando accuratamente l'ira di mia madre o mia nonna quando se ne accorgevano).
Mi sembra ieri. Mi sembra ancora di avvertire il calore di quelle mani enormi segnate dagli anni, che hanno imbracciato fucili e maneggiato volanti, che hanno infilato divise militari e imbracato tute da lavoro, che hanno applaudito e accarezzato. Che hanno sudato e vissuto.
E ogni tanto ci penso. Non so se il nonno Stefano avrà schivato mine, granate, colpi di baionetta; non so quanto avrà stretto i denti nel gelido anfratto delle trincee; non so quanto avrà maledetto quella guerra o quanto avrà gioito alla sua conclusione, fiero com'era di onorare comunque la bandiera italiana e la Patria (una parola che oggi si sente vibrare solo per le competizioni sportive ma che andrebbe recuperata nel suo significato più vero, senza "ismi" che ne offuschino il valore).
So di sicuro che nessun ordigno, nessuna bomba, nessuna pallottola chirurgica avrebbe potuto ferirlo mortalmente come fece la scomparsa di sua moglie, Anna Andreoli, quasi 70 anni dopo. Dopo una vita vissuta insieme.
Lasciandolo solo, nonostante una famiglia accanto, nonostante una vita epica alle spalle, nonostante la forza di un fisico possente, un po' logorato ma ancora carico di orgoglio e tenacia.
Quell'assenza, inevitabile ma anche improvvisa (perché non ci si può mai abituare alla mancanza di chi ti vive accanto per una vita) ebbe l'effetto di una mazzata capace di tramortire anche un gigante.
In realtà in quel 1984 era rimasto semplicemente solo. Malinconicamente solo, a "vegetare" senza meta, senza una spalla, senza un perchè. E senza neanche più un passato da raccontare. Solo, con l'unico desiderio di ricongiungersi con sua moglie, pochi mesi dopo...
Per ironia del destino, accade la stessa cosa ai due miei nonni materni, 10 anni dopo. Con la stessa triste sequenza e analogo epilogo, a distanza di pochi mesi.
Ed ecco che la vita, accanto alla morte, ci rivela la sua essenza: quelle che chiamiamo "glorie" e ricordi di un passato straordinario, alla fine lasciano l'ebbrezza di una foto o una medaglia. E durano il tempo di un istante, se la memoria assiste; mentre il cuore fatica a scuotersi.
Gli affetti, gli amori, le poche persone che davvero danno senso alla nostra esistenza, sono quelle per le quali davvero si vive. Le uniche per le quali si respira, Sono quelle senza le quali ci si spegne... Senza bisogno di avere pallottole da schivare.
domenica 26 luglio 2015
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