E' il giorno del trionfo lungo i Campi Elisi, Vincenzo Nibali veste la maglia gialla nel giorno più bello per il ciclismo italiano: dopo 16 anni, dopo Marco Pantani, un altro italiano trionfa nella Grand Boucle.
Sarebbe fin troppo scontato ora sciorinare retorica e luoghi comuni su un successo che riaccende l'entusiasmo del nostro Paese per le due ruote più mitiche, che ispira paragoni importanti (e forse ingombranti) per il campione messinese.
Ci piace pensare che il successo di Nibali sia da dedicare a quell'Italia silenziosa che pedala.
Silenziosa proprio come il ciclista siciliano, di cui non si ricordano nè tweet nè frasi da prima pagina, ma che in quattro anni (gli stessi con cui ad esempio la Nazionale di calcio ha messo in fila due umilianti eliminazioni ai Mondiali) ha messo insieme qualcosa come la Vuelta (Giro di Spagna - maglia rossa) , il Giro d'Italia (maglia rosa) e ora il Tour de France (maglia gialla), in un crescendo cromatico di vittorie esaltante.
Nell'anno, questo 2014, che lo ha visto anche trionfare nel campionato italiano (vestiva il tricolore prima di indossare la maglia jaune, anche in Francia).
Un'Italia che non chiacchiera e soprattutto non urla, ma che fa.
Un'Italia che serve, non solo in questa domenica di trionfo - nella capitale di quei francesi che difficilmente si appassionano alla vittoria di un italiano - ma che è indispensabile anche in tutti gli altri giorni.
Serve tacere e soprattutto serve pedalare, perchè il presente (e il futuro) del nostro Paese non avrà discese ma solo grandi e impervie salite.
Ci vorrà classe, grinta e anche un po' di incoscienza - proprio come Nibali - per scalarle. L'incoscienza di chi non ha fatto troppi calcoli, andandosi a prendere la maglia gialla già il secondo giorno del Tour e l'ha tenuta, con l'intervallo di 24 ore appena, fino all'Arco di Trionfo.
E il giallo, quel colore magico con cui Pantani - tutt'altro che antidivo come il messinese - si era ossigenato perfino il pizzetto per salire sul gradino più alto del podio transalpino.
A proposito di calcio: il giallo (banana) rischia di diventare anche il colore dell'autogol più clamoroso del presidente in pectore della nuova Figc, quel Carlo Tavecchio, personaggio che sembra uscito da una commedia di Pozzetto, forse condizionato (negativamente) dalla quasi avvenuta elezione, si è abbandonato ad una metafora assolutamente evitabile su calciatori extracomunitari che altrove "mangiano banane e in Italia sono titolari".
Ora è iniziativa la ronda web di attacchi e critiche al dirigente federale.
Il problema, ancora una volta, sono le chiacchiere: quelle che avrebbe potuto e dovuto evitare Tavecchio - infortunandosi in una perifrasi forse troppo complessa - e quelle che seguiranno nei prossimi giorni non tanto sul programma e sugli obiettivi di una sua eventuale candidatura, ma solo e soltanto su questa infelice uscita.
Certo, è quanto meno arduo immaginare a capo di una Figc - chiamata a "combattere" la violenza negli stadi e spesso il razzismo negli striscioni - chi incappa in queste topiche. Alla vigilia di una stagione nella quale perfino le amichevoli (vedi Lazio-Perugia di ieri) sono l'occasione per scatenare i peggiori istinti degli immancabili vandali da stadio.
E' pur vero che non è da una frase, come da un rigore, per dirla alla De Gregori, che si dovrebbe giudicare un dirigente. Il quale, per primo, anche se ormai 70enne, dovrebbe aver imparato a tacere... in certi momenti. Proprio come Nibali: silente e a pedalare.
Che la nostra Italia prenda esempio...
domenica 27 luglio 2014
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