C'è una via del centro storico eugubino che da qualche giorno è interdetta al traffico. E' via Fabiani. Egoisticamente chi ci abita - e non lo scrivo a caso - sta vivendo autentici momenti di pace e relax. Manca solo una crema solare, la sdraio e l'"omino" che vende il cocco a mezzogiorno. Meglio che una Spa.
Sì perchè durante l'anno, via Fabiani, è la strada costretta a sopportare il più alto, impattante e invasivo volume di traffico di tutte le traverse di corso Garibaldi. E credo che nel centro storico, in questa poco rilassante classifica, stia tranquillamente in "zona Champions".
Una situazione di impatto acustico-ambientale sempre più grave e sempre più sottovalutata.
Chiamarla strada poi è un complimento, fin troppo signorile. Le superfici ridotte come la pavimentazione che via Fabiani dà a vedere, hanno una sola definizione: mulattiera.
L'introduzione, un po' di parte - per una volta mi perdonerete - nasconde in realtà una riflessione di più ampio respiro. Avvalorata da quanto avvenuto sempre qualche sera fa, sempre in via Fabiani: dopo la chiusura, dovuta alla caduta del cornicione di una finestra dal secondo piano, la strada è rimasta sbarrata. Non si è visto più nessuno, e una sera - essendo rimasto chiuso il corso per la presenza, come avviene spesso d'estate, di un complesso piano-bar - diverse vetture sono rimaste praticamente bloccate in cima a via Maffei. Nessuno aveva avvertito con un segnale che non si passava, nessuno - in quell'orario serale - delle autorità preposte alla vigilanza, era reperibile. E così, dopo qualche esitazione e prendendo atto dell'assenza totale riferimenti a cui potersi affidare per avere risposta, gli automobilisti hanno preferito "rischiare": hanno tolto le transenne e sono transitati sotto il luogo della "caduta cornicioni".
Un episodio che nella sua estemporaneità la dice lunga sulla situazione attuale del centro storico eugubino. Dire che "cade a pezzi" non è più neppure metaforico. Quanto al rapporto con le istituzioni, si può riassumere in un punto interrogativo all'insegna dell'incertezza.
E' un po' come se Palazzo Barbi - dall'alto di un'austerità di almeno 3 secoli - avesse voluto lanciare il suo grido d'allarme. Fortunamente incruento. Un messaggio cifrato ma ben visibile.
La città, nel suo cuore pulsante, chiede maggiore attenzione (da privati come dal Pubblico) e i cittadini non possono più assistere ad una situazione di stallo che purtroppo si tocca in diversi settori.
I numeri del turismo, ad esempio, sono agghiaccianti: la speranza è che agosto inverta la tendenza, altrimenti il 2013 sarà destinato a diventare il vero annus horribilis.
L'operatività edilizia ed urbanistica è legata a 3-4 progetti che coinvolgono quasi esclusivamente aree d'espansione e centri commerciali: mentre il centro storico resta come "ingabbiato" tra strade fatiscenti, lavori lasciati a metà, "cattedrali nel deserto" ed ecomostri da sobborgo metropolitano. Un quadro non certo imputabile all'attuale reggenza (il Commissario D'Alessandro sta ascoltando parti sociali e assocategorie, ha incontrato Provincia e Regione, ma non può certo risolvere in poche settimane problemi annosi). Ma che non trova al momento spazio in alcun dibattito di quella classe politica che tra qualche mese tornerà a candidarsi alla guida della città.
L'unico aspetto consolante è che forse peggio di così non potrà andare. Ma è meglio non scoprirlo...
venerdì 26 luglio 2013
domenica 21 luglio 2013
Il tempo? Non è soltanto una lancetta che gira...
Il
tempo non è una lancetta che gira attorno ad un cerchio di 60
tacche.
E tutto quello di importante che riusciamo a costruirci e viverci dentro...
Quella è un’invenzione dell’uomo.
Il
tempo siamo noi. E tutto quello di importante che riusciamo a costruirci e viverci dentro...
Me l’ha ispirata una riflessione,
condivisa con un amico: e la canzone di Jovanotti (appunto “Tempo”)
ha fatto il resto. Mi era capitato di canticchiarla, ieri, forse come
retaggio di qualche zapping radiofonico captato passivamente in auto
mentre aspettavo al semaforo qualche ora prima. Mi succede così,
quando ho la testa immersa nei pensieri, ma non abbastanza perché
non si lascino filtrare da qualche nota. La musica non la ascolto, ma
mi passa, mi lascia qualche traccia, quasi che il cervello e l'anima musicale (che ognuno di noi ha dentro, ma che utilizza in dosi diverse) riescano a drenare frasi e si bemolle. E a distanza di ore, mi torna in
superficie, mentalmente, sotto forma di strofa da fischiare o
canticchiare in silenzio, da solo.
Gioco
oziosamente con i tasti dell’autoradio, mandando avanti le
stazioni, senza accorgermi neanche che frequenza mi capiti.
Preferisco la ricerca manuale, a quella dei canali pre-selezionati.
Non so perché, forse perché dopo tre-quattro “passate”, mi
ricordo a memoria la sequenza delle radio, le voci, i conduttori e i
jingle. Invece con la ricerca manuale, non sai mai cosa ti capita:
una specie di slot machine radiofonica, che può serbarti liete
sorprese (qualche pezzo anni ’70) o una disastrosa caduta
emozionale (qualche litania da una chiesa sconosciuta o un
improbabile conduttore con accento “donca” che ti spiega la
ricetta del giorno, presa da un copia incolla su google).
Il
tempo, già. Cos’è il tempo? Quante volte ce lo siamo chiesto?
Forse poco, forse mai. Magari perché non avevamo tempo.
Poco fa mi sono letto, sulla pagina "Nova" del Sole 24 ore, che è pronto in rampa di lancio il nuovissimo I-watch, la nuova frontiera della interconnessione informatica. Un pc-orologio che, stando agli esperti, finirà per cambiare le dimensioni del nostro "tempo".
Ma come? mi sono detto,. Già non abbiamo tempo di fare quel che stiamo faticosamente realizzando? Che ora esce fuori un marchingegno infernale che ci cambia tutto?
Ma davvero qualcosa o qualcuno (Steve Jobs o un suo discepolo) potrebbere cambiare il significato e la dimensione del nostro tempo?
Poco fa mi sono letto, sulla pagina "Nova" del Sole 24 ore, che è pronto in rampa di lancio il nuovissimo I-watch, la nuova frontiera della interconnessione informatica. Un pc-orologio che, stando agli esperti, finirà per cambiare le dimensioni del nostro "tempo".
Ma come? mi sono detto,. Già non abbiamo tempo di fare quel che stiamo faticosamente realizzando? Che ora esce fuori un marchingegno infernale che ci cambia tutto?
Ma davvero qualcosa o qualcuno (Steve Jobs o un suo discepolo) potrebbere cambiare il significato e la dimensione del nostro tempo?
Talvolta, domande così “banali” - così tipiche di una domenica estiva, trascinata in un felice otium tra una passeggiata, una lettura sul divano e un tuffo nella piscinetta dei bimbi - andrebbero fatte.
Se non altro a se stessi. Non tanto per riempire il foglio di un blog. Ma perché è dalle risposte a queste banalità che spesso si ricava la chiave o la risposta ai quesiti più nodali della nostra esistenza.
Cos'è davvero tempo? A vederlo e sentirlo, così, mi sembra quella dimensione che diamo ai nostri pensieri: un’unità di misura degli impegni quotidiani, gli appuntamenti, le scadenze, i ritardi (soprattutto questi, nel mio caso). Un lento susseguirsi di rintocchi silenziosi con cui scandisci la tua giornata.
Se non altro a se stessi. Non tanto per riempire il foglio di un blog. Ma perché è dalle risposte a queste banalità che spesso si ricava la chiave o la risposta ai quesiti più nodali della nostra esistenza.
Cos'è davvero tempo? A vederlo e sentirlo, così, mi sembra quella dimensione che diamo ai nostri pensieri: un’unità di misura degli impegni quotidiani, gli appuntamenti, le scadenze, i ritardi (soprattutto questi, nel mio caso). Un lento susseguirsi di rintocchi silenziosi con cui scandisci la tua giornata.
Se
dovessi (dovrei ma non riesco a farlo) elencare fin dalle 8 di
mattina la mole di faccende che in quella giornata mi ritrovo a dover
sbrogliare, finirei per ritrovarmi alla sera in preda al panico, non
avendo potuto risolverle tutte… E perchè?
Mancanza
di tempo, mi rispondo io. Almeno in apparenza.
In
realtà in quell’enorme serbatoio di energia – che viene a
mancarti – chiamata tempo, ciò che viene meno è ciò che conta
davvero. Lo spazio per le persone più care, per i gesti più
semplici, per riscoprire emozioni lontane e dimenticate, fatte di una
passeggiata, un profumo, una foto di qualche anno fa, una routine
dismessa.
Il
tempo, lui, in fondo, resta imperturbabile. E’ sempre lo stesso. Mica non
si muove, lui, il tempo. Non cambia ritmo, non modifica i suoi passi. Un secondo
segue l’altro ma non è mai quello di prima. Procede impassibile. Senza problemi di rughe e di "panza".
Puoi
fermarti, o correre. Puoi pensarci o mettere la testa da un’altra
parte.
Il
tempo fa la sua strada. Autonoma e incessante. C’era prima che ci
fossimo, ci sarà dopo che noi finiremo di esserci.
Penso
al tempo, e al suo inflessibile incedere, senza pause, senza
rilassamenti, quando mi trovo in un locale antico – può essere una
soffitta o magari un taverna, come quella che ho riscoperto qualche
giorno fa nei bassifondi di un palazzo nobiliare del centro storico
eugubino: mura cariche di muffa, oggetti impolverati, umidità
inossidabile. Avverto tutto questo con un senso di apprensione, tra
qualche domanda sciocca e uno sguardo incantato: da quanto quella
polvere sta infoltendosi, quanti giorni, quanta strada, quante
emozioni si sono accavallate nella mia pellicola personale, mentre
quel baule o quella cornice, quel pezzo di ferro macerato dalla
ruggine, lentamente deperivano.
Risposta
non ce n’è, ma è sufficiente chiederselo per capire che in
quell’atmosfera immobile è corsa via una vita (invisibile ma
esistente) che pur limitandosi a qualche granello di sabbia, è
proceduta di pari passo con la tua, di vita.
La stessa sensazione che percepisci dando uno sguardo alle suppellettili di una nave affondata (tra qualche giorno sarà il centenario dell’affondamento del Titanic), pensando che gli anni sono corsi via, ma quegli oggetti sono rimasti lì, incagliati in un abisso marino, ma capaci di resistere.
E di vivere, anche loro, in quell'abisso, il proprio tempo.
La stessa sensazione che percepisci dando uno sguardo alle suppellettili di una nave affondata (tra qualche giorno sarà il centenario dell’affondamento del Titanic), pensando che gli anni sono corsi via, ma quegli oggetti sono rimasti lì, incagliati in un abisso marino, ma capaci di resistere.
E di vivere, anche loro, in quell'abisso, il proprio tempo.
mercoledì 17 luglio 2013
La guerra raccontata con gli occhi di un bambino... Dal capolavoro di Cerami, al libro avvincente di Molesini...
Confesso un altro mio limite. Non avevo "coltivato" Vincenzo Cerami per quel che avrebbe meritato. E non lo dico perchè in queste ore si sta celebrando il ricordo di un grande autore e scrittore. Lo dico perchè basterebbe un'occhiata, anche fugace, a "La Vita è Bella" o ad "Un borghese piccolo piccolo" per cogliere la statura del personaggio. E trovare le motivazioni giuste per approfondirne la conoscenza, andare a sviscerare altri scritti, romanzi, creazioni, che certo potrebbero rivelarne ancor più fedelmente - proprio perchè meno "commerciali" - la preziosa autenticità.
Mettiamoci anche le colonne sonore, in particolare l'indimenticabile motivo di Piovani, che ho avuto la fortuna di assaporare dal vivo, eseguito dal maestro al pianoforte, nel "Concerto Sotto l'Albero" di qualche anno fa. Potendo apprezzare anche la relativa semplicità di gesti, atteggiamenti e autoironia del compositore romano.
E così Dario, l'amichetto di Pietro, e' di "quelli che hanno ucciso Gesù" (la vulgata che in quel tempo bollava gli ebrei) "e forse proprio per questo ha le orecchie a sventola. Sente i numeri".
Ma anche limitando la perlustrazione del personaggio alla semplice visione del film premio Oscar di Benigni si finisce per cogliere uno dei tratti salienti della straordinaria personalità di Cerami. La capacità - di per sè ironica e originale - di far raccontare il dramma in modo quasi giocoso, insolito, inaspettato: attraverso gli occhi e la fantasia di un bambino. Un'operazione che potrebbe apparire banale, riduttiva e invece si rivela gigantesca. Perche' la semplice idea non basta, se non si avesse sensibilità, qualità e capacità di riprodurre un racconto, un insieme di dialoghi, un groviglio di parodie, con il linguaggio giusto e la dinamica perfetta, scelta per "La vita è bella".
Piovani saluta il pubblico eugubino "Concerto Sotto l'Albero 2008" |
Un po' come fosse questo l'imprinting che l'esperienza di quella immortale pellicola cinematografica avesse prodotto sui suoi stessi artefici.
Quel motivo musicale apparentemente soave, beffardamente triste è in realtà gioioso. Perchè a rivederlo bene, in fondo, quel film ha un lieto fine, un messaggio positivo. Quel bimbo, che racconta un'avventura spacciata quasi per una gita a Disneyland sotto le reali spoglie di un lager, tornerà a casa. E avrà una vita, anche a costo di doverla vivere senza suo padre. E in fondo anche per il Benigni padre - che saluta con un sorriso tristemente divertito il figlio nella penultima scena - confidare nella salvezza del piccolo diventa consolante.
La guerra non può essere mai motivo di sorriso. Non puo' divertire n'è ispirare ironia. Ma il capolavoro di Cerami ribalta i punti cardinali di questo assunto, ricordandoci che nessuna guerra, per quanto deflagrante possa essere, potra' chiudere le porte e seppellire del tutto l'humanitas.
Miete le sue vittime, lascia per strada le sue cicatrici. Ma consente di guardare avanti.
"La vita è bella" - titolo quanto mai intrigante in questo rincorrersi di contraddizioni - è tutto questo.
Sarà puro caso, ma proprio nei giorni in cui si saluta Vincenzo Cerami, sono alle prese - fortunatamente - con un libro che molti versi mi riallaccia al su capolavoro cinematografico. "La primavera del lupo" di Andrea Molesini. In comune apparentemente solo l'ambientazione temporale: ovvero gli ultimi giorni della Seconda Guerra mondiale. Non siamo in un lager, ma nel Nord Italia, che si prepara all'arrivo degli americani.
La trama avvincente della fuga di un improbabile gruppo di persone - tra cui un bimbo ebreo - viene non solo proposta attraverso gli occhi fanciulleschi di un inconsapevole orfano, ma - e qui sta la peculiarità e l'essenza frizzante del narrare di Molesini - con la sue stesse parole. Con quelle frasi prive di punteggiatura, fatte di pensieri a voce alta, di perifrasi interminabili, di paragoni assurdi, di dialoghi che mescolano la fantasia dei bimbi con la cruda realtà di cui loro stessi diventano vittime coscienti.
E così Dario, l'amichetto di Pietro, e' di "quelli che hanno ucciso Gesù" (la vulgata che in quel tempo bollava gli ebrei) "e forse proprio per questo ha le orecchie a sventola. Sente i numeri".
E Dio "non arriva mai quando lo chiami, ma quando vuole lui".
La fuga dei due bambini, guidata da una finta suora (un'avvenente donna travestita per scappare dai fascisti) e da un soldato tedesco disertore, custode di un segreto tenuto gelosamente dentro una borsa, appassiona eccezionalmente non solo per il ritmo degli accadimenti, ma proprio per l'effervescenza del racconto. Che alterna il diario di Elvira (suor Elvira che poi nelle pagine finali, tolti i panni della suora, diventa zia Elvira) con il racconto in prima persona di Pietro.
Un bimbo troppo piccolo per capire fino in fondo l'orrore della guerra, ma già abbastanza grande per trovare la forza, il coraggio e l'energia per sfuggire dal destino della stessa.
La guerra vista dai bambini. Vissuta e pagata cara dai bambini. E che, come bambini, anni dopo, conduce due protagonisti vittime della stessa, ad un gesto spontaneo e straordinariamente grande. Unico ed esemplare.
Stavolta Molesini non c'entra. Sto parlando di un'altra storia. Che spero un giorno di poter (e soprattutto di saper) raccontare...
lunedì 15 luglio 2013
La Boldrini, "Miss Italia", la Fiat e il Mulino bianco...
"In Europa sarebbe difficile vedere uno spot nel quale il papà e i figli sono a tavola e la mamma è in piedi per servirli. In Italia invece è normale vedere una donna servire".
Parole del Presidente della Camera dei Deputati. Ormai Laura Boldrini sembra diventata incontenibile. Una sorta di fiera irascibile, una Giovanna d'Arco col bollino (e senza casco) blu, che contro (quasi) tutto e tutti, non manca giorno per colpire con uno di suoi interventi. Che poi - accanto ad affermazioni incontrovertibili - ce ne siano alcune non del tutto coerenti con il ruolo, è questione secondaria. Che negli stessi casi, somiglino a esternazioni dal vago e nostalgico sapore "sessantottino", è solo una nostra deprecabile interpretazione. Che, infine, la Presidente sia espressione di un partito che oggi si dichiara di opposizione ma che senza l'apparentamento al famigerato PD sarebbe ramingo al di fuori dell'arco parlamentare, è dettaglio poilitico insignificante.
Già perchè il Presidente della Camera - veste teoricamente super partes che in passato è stata calzata da altre donne non certo prone ma diametralmente diverse dalla Boldrini sul piano caratteriale (Nilde Jotti) o su quello partitico (Irene Pivetti) - dovrebbe di ruolo istituzionalmente dialogare con tutti.
L'attuale numero 1 di Montecitorio non pare pensarla sempre così.
Preferisce evitare un incontro con l'ad di Fiat, Marchionne, ufficialmente per impegni precedentemente presi. E soprattutto perchè la Presidente della Camera è "dalla parte dei lavoratori".
Ora Marchionne non sarà un campione di simpatia, probabilmente dovessimo scegliere un compagno di burraco guarderemmo altrove, prenotare un'ora a tennis con lui neanche a pensarci: ma la Fiat è pur sempre quell'aziendina che ancora oggi (chissà per quanto?) dà lavoro anche in Italia - certamente dopo aver usufruito di molte leggi made in Italy fatte su misura come neanche i gessati dell'Avvocato. La Fiat non è certamente una onlus, Marchionne non gareggerà mai per il Nobel della pace. Ma non andare neanche a parlarci, che significato ha? Risolve forse una delle precarie questioni intorno alle quali si macerano i lavoratori di Termini Imerese?
Oggi la Presidente - sulla quale a questo punto avrei timori perfino a dire che una "donna affascinante" (perchè rischierei di passare per "maschilista") - si compiace che la Rai non trasmetta più "Miss Italia", kermesse a suo dire che svilisce il ruolo della donna. E aggiunge, che perfino la pubblicità stereotipata del "Mulino bianco" - quella della famigliola sorridente e pettinata che fa colazione tutta insieme, con la mamma che porta a tavola i biscotti - è quasi uno schiaffo alla parità femminile.
Premesso che non sono un fan di "Miss Italia" - e la sua mancata messa in onda non cambierà di mezzo minuto l'eventuale insonnia di settembre - e premesso che lo spot del "Mulino bianco" raffigura una realtà ormai rara (perchè quasi del tutto estinta, cioè quella della famiglia - nell'unica accezione che questo termine ci offre), ci sarebbe da considerare un aspetto non secondario: che se davvero "Miss Italia" creasse i danni che le vengono attribuiti, l'operazione benedetta dalla Presidente pasionaria è di pura facciata.
Semplicemente perchè "Miss Italia" non finisce qui - per dirla alla Carlo Conti - ma continua. Solo che non si vedrà sulle reti di Mamma Rai. Insomma un po' come la polvere in salotto quando arriva la benedizione pasquale del parroco: si alza il tappeto, e si spazza sotto.
Il gioco è fatto (e la coscienza è pulita). Comunque consoliamoci: per una "Miss Italia" che esce, non mancheranno quiz e reality show con fesserie congeneri che entrano ( a partire dal gioco dei pacchi che, ahimè, sarà affidato al simpaticissimo Flavio Insinna, che nonostante questo continua a beneficiare di tutta la mia stima).
Nei quali format non sarà il ruolo della donna, ma l'intelligenza di uomo e donna messi insieme ad essere sottoposto alla berlina...
P.S. Non ricordo se a pranzo o a cena a casa mia sia io o mia moglie a "servire a tavola". Non ci ho mai pensato, semplicemente perchè non ho considerato questo gesto "servile" nè nei suoi confronti nè nei confronti dei miei figli. Semmai lo considero un Servire in senso nobile. Che è sinonimo di dare e di darsi nel più alto dei suoi significati. Ma questa forse è un'idea che in certe aree - vicine alla Presidente della Camera - e in certe epoche - cui sembrano ispirarsi i ragionamenti - non ha alcun diritto di cittadinanza. Neanche con lo ius soli...
Parole del Presidente della Camera dei Deputati. Ormai Laura Boldrini sembra diventata incontenibile. Una sorta di fiera irascibile, una Giovanna d'Arco col bollino (e senza casco) blu, che contro (quasi) tutto e tutti, non manca giorno per colpire con uno di suoi interventi. Che poi - accanto ad affermazioni incontrovertibili - ce ne siano alcune non del tutto coerenti con il ruolo, è questione secondaria. Che negli stessi casi, somiglino a esternazioni dal vago e nostalgico sapore "sessantottino", è solo una nostra deprecabile interpretazione. Che, infine, la Presidente sia espressione di un partito che oggi si dichiara di opposizione ma che senza l'apparentamento al famigerato PD sarebbe ramingo al di fuori dell'arco parlamentare, è dettaglio poilitico insignificante.
Già perchè il Presidente della Camera - veste teoricamente super partes che in passato è stata calzata da altre donne non certo prone ma diametralmente diverse dalla Boldrini sul piano caratteriale (Nilde Jotti) o su quello partitico (Irene Pivetti) - dovrebbe di ruolo istituzionalmente dialogare con tutti.
L'attuale numero 1 di Montecitorio non pare pensarla sempre così.
Preferisce evitare un incontro con l'ad di Fiat, Marchionne, ufficialmente per impegni precedentemente presi. E soprattutto perchè la Presidente della Camera è "dalla parte dei lavoratori".
Ora Marchionne non sarà un campione di simpatia, probabilmente dovessimo scegliere un compagno di burraco guarderemmo altrove, prenotare un'ora a tennis con lui neanche a pensarci: ma la Fiat è pur sempre quell'aziendina che ancora oggi (chissà per quanto?) dà lavoro anche in Italia - certamente dopo aver usufruito di molte leggi made in Italy fatte su misura come neanche i gessati dell'Avvocato. La Fiat non è certamente una onlus, Marchionne non gareggerà mai per il Nobel della pace. Ma non andare neanche a parlarci, che significato ha? Risolve forse una delle precarie questioni intorno alle quali si macerano i lavoratori di Termini Imerese?
Oggi la Presidente - sulla quale a questo punto avrei timori perfino a dire che una "donna affascinante" (perchè rischierei di passare per "maschilista") - si compiace che la Rai non trasmetta più "Miss Italia", kermesse a suo dire che svilisce il ruolo della donna. E aggiunge, che perfino la pubblicità stereotipata del "Mulino bianco" - quella della famigliola sorridente e pettinata che fa colazione tutta insieme, con la mamma che porta a tavola i biscotti - è quasi uno schiaffo alla parità femminile.
Premesso che non sono un fan di "Miss Italia" - e la sua mancata messa in onda non cambierà di mezzo minuto l'eventuale insonnia di settembre - e premesso che lo spot del "Mulino bianco" raffigura una realtà ormai rara (perchè quasi del tutto estinta, cioè quella della famiglia - nell'unica accezione che questo termine ci offre), ci sarebbe da considerare un aspetto non secondario: che se davvero "Miss Italia" creasse i danni che le vengono attribuiti, l'operazione benedetta dalla Presidente pasionaria è di pura facciata.
Semplicemente perchè "Miss Italia" non finisce qui - per dirla alla Carlo Conti - ma continua. Solo che non si vedrà sulle reti di Mamma Rai. Insomma un po' come la polvere in salotto quando arriva la benedizione pasquale del parroco: si alza il tappeto, e si spazza sotto.
Il gioco è fatto (e la coscienza è pulita). Comunque consoliamoci: per una "Miss Italia" che esce, non mancheranno quiz e reality show con fesserie congeneri che entrano ( a partire dal gioco dei pacchi che, ahimè, sarà affidato al simpaticissimo Flavio Insinna, che nonostante questo continua a beneficiare di tutta la mia stima).
Nei quali format non sarà il ruolo della donna, ma l'intelligenza di uomo e donna messi insieme ad essere sottoposto alla berlina...
P.S. Non ricordo se a pranzo o a cena a casa mia sia io o mia moglie a "servire a tavola". Non ci ho mai pensato, semplicemente perchè non ho considerato questo gesto "servile" nè nei suoi confronti nè nei confronti dei miei figli. Semmai lo considero un Servire in senso nobile. Che è sinonimo di dare e di darsi nel più alto dei suoi significati. Ma questa forse è un'idea che in certe aree - vicine alla Presidente della Camera - e in certe epoche - cui sembrano ispirarsi i ragionamenti - non ha alcun diritto di cittadinanza. Neanche con lo ius soli...
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mercoledì 10 luglio 2013
La favola di Giaccherini... anche se oggi il principe, se può, si vende pure la zucca...
Non tutte le favole finiscono in carrozza. O meglio.
Qualche volta la carrozza non e' esattamente quel che si attendeva o
sognava.
Nel calcio di oggi, poi, finisce pure che il principe non solo non aspetti più Cenerentola. Ma se capita l'occasione, vende pure la zucca.
Il piccolo grande Giaccherini se ne va. Lascia la Juventus e vola in Inghilterra dove ad attenderlo ci sarà il Sunderland (squadra di Paolo Di Canio), un'anonima maglia biancorossa (che ad Emanuele ricorderà chissà magari la Vis Pesaro da bambino) e un meno disprezzabile contratto da 2 milioni di euro l'anno.
Perché anche Cenerentola, se vuole, sa farsi pagare bene.
La favola di Emanuele Giaccherini parte dalla Romagna più tipica, quella dei viali alberati o del lungomare dove il profumo della piadina si confonde con l'aroma delle creme solari. Non e' un gigante, non e' un fuoriclasse, e non ha bisogno di incontrare Mourinho per capirlo. Gli piace il calcio, come a milioni di ragazzini, ma e' piccolino. Probabilmente il più piccolo dei suoi amici, quello che le prime volte in spiaggia rischia di finire sempre in porta o magari un po' sbeffeggiato da qualche sbruffoncello di passaggio.
Una scena simile a quella a cui ho assistito anche quest'anno osservando un gruppo di pargoli (e trovando un'insospettabile forza di non reagire ed evitare qualsiasi intervento, perché da certe prepotenze e' importante riuscire a tirarsi fuori con le proprie forze e soprattutto intelligenze...).
Giaccherini deve essere stato uno di questi bimbi, un po' sfigati nelle proporzioni ma tenaci, poi cresciuto sarà entrato nelle file di giovanili locali (Cesena o giù di li) per ritrovarsi neanche ventenne confinato a Bellaria, in una squadra che era un mix tra giovanotti ormai esperti (Tasso, in B molti anni, Giacometti per una vita capitano del Gubbio) e qualche giovincello alla ricerca di una qualche consacrazione (Marchi anch'egli eugubino, o un tale Juanito Gomez, uno dei tanti argentini alla ricerca di gloria italica).
"Dove vuoi che vada a finire uno come me?" si sarà chiesto il piccolo Emanuele quel giorno in cui voleva smettere, trovarsi un lavoretto, ritagliarsi finalmente un po' di tempo con gli amici, la ragazza e qualche salto in discoteca in più del solito.
Non so chi, non so cosa, ma quel pensiero e' sfumato, se ne e'andato.
Emanuele ci ha creduto e ha trovato un inaspettato mentore in Pierpaolo Bisoli, a Cesena. In maglia bianconera - un colore che diventerà profetico - riesce finalmente a realizzarsi, sembra aver trovato un ruolo, una dimensione, una capacita' realizzativa e quella versatilità tattica che oggi e' il valore aggiunto di parecchi calciatori.
Diventa uno dei punti di forza del Cesena neo promosso in serie A e dopo un'amichevole al "Barbetti" contro il neo promosso Gubbio in serie B, con in campo l'ex ternano Candreva e l'ex folignate Parolo (anch'egli pupillo di Bisoli), la chiamata della Juve. E' l'agosto 2011.
In meno di due anni, per Giaccherini arriva la scarpetta fatata, succede di tutto, nel bene e nel meglio. Come in una centrifuga felice di successi, arrivano le presenze in A, i gol, gli apprezzamenti con tanto di due scudetti, la definitiva consacrazione, l'exploit tecnico e tattico. E la maglia azzurra. Il gol record dopo 19" contro Haiti e il Maracana'. Il Brasile e la fiondata alle spalle di Julio Cesar che ha ammutolito la torcida.
Prandelli non e' uno che non può notare gente come Giaccherini. Quei personaggi che sono tutto meno che personaggi, di cui non conosci neppure la voce - tanto rare sono le interviste - ma che sai benissimo come possono muoversi in campo. E quanto possano darti.
La storia del calcio - e dello sport - e' zeppa di Giaccherini in ogni latitudine. Perché le vittorie non possono fare a meno dei gregari.
Come le favole non possono fare a meno di Cenerentola.
Che poi Cenerentola diventi una principessa per sempre e viva felice e contenta tutto il resto dei suoi giorni, questo lo lasciamo alla fantasia dei fanciulli. Senza neanche soffermarci a pensare come sia finito l'idillio con il principe.
Nella realtà del calcio di oggi, il pragmatismo ci dice che se la zucca diventa carrozza, quella va subito pesata. E messa all'asta. A beneficio del primo emiro di passaggio.
Giaccherini salpa. Qualcuno forse non se ne accorgerà.
Secondo me, finirà silenziosamente per mancarci. In attesa di ritrovarlo, pimpante come sempre, in maglia azzurra...
Nel calcio di oggi, poi, finisce pure che il principe non solo non aspetti più Cenerentola. Ma se capita l'occasione, vende pure la zucca.
Il piccolo grande Giaccherini se ne va. Lascia la Juventus e vola in Inghilterra dove ad attenderlo ci sarà il Sunderland (squadra di Paolo Di Canio), un'anonima maglia biancorossa (che ad Emanuele ricorderà chissà magari la Vis Pesaro da bambino) e un meno disprezzabile contratto da 2 milioni di euro l'anno.
Perché anche Cenerentola, se vuole, sa farsi pagare bene.
La favola di Emanuele Giaccherini parte dalla Romagna più tipica, quella dei viali alberati o del lungomare dove il profumo della piadina si confonde con l'aroma delle creme solari. Non e' un gigante, non e' un fuoriclasse, e non ha bisogno di incontrare Mourinho per capirlo. Gli piace il calcio, come a milioni di ragazzini, ma e' piccolino. Probabilmente il più piccolo dei suoi amici, quello che le prime volte in spiaggia rischia di finire sempre in porta o magari un po' sbeffeggiato da qualche sbruffoncello di passaggio.
Una scena simile a quella a cui ho assistito anche quest'anno osservando un gruppo di pargoli (e trovando un'insospettabile forza di non reagire ed evitare qualsiasi intervento, perché da certe prepotenze e' importante riuscire a tirarsi fuori con le proprie forze e soprattutto intelligenze...).
Giaccherini deve essere stato uno di questi bimbi, un po' sfigati nelle proporzioni ma tenaci, poi cresciuto sarà entrato nelle file di giovanili locali (Cesena o giù di li) per ritrovarsi neanche ventenne confinato a Bellaria, in una squadra che era un mix tra giovanotti ormai esperti (Tasso, in B molti anni, Giacometti per una vita capitano del Gubbio) e qualche giovincello alla ricerca di una qualche consacrazione (Marchi anch'egli eugubino, o un tale Juanito Gomez, uno dei tanti argentini alla ricerca di gloria italica).
"Dove vuoi che vada a finire uno come me?" si sarà chiesto il piccolo Emanuele quel giorno in cui voleva smettere, trovarsi un lavoretto, ritagliarsi finalmente un po' di tempo con gli amici, la ragazza e qualche salto in discoteca in più del solito.
Non so chi, non so cosa, ma quel pensiero e' sfumato, se ne e'andato.
Emanuele ci ha creduto e ha trovato un inaspettato mentore in Pierpaolo Bisoli, a Cesena. In maglia bianconera - un colore che diventerà profetico - riesce finalmente a realizzarsi, sembra aver trovato un ruolo, una dimensione, una capacita' realizzativa e quella versatilità tattica che oggi e' il valore aggiunto di parecchi calciatori.
Diventa uno dei punti di forza del Cesena neo promosso in serie A e dopo un'amichevole al "Barbetti" contro il neo promosso Gubbio in serie B, con in campo l'ex ternano Candreva e l'ex folignate Parolo (anch'egli pupillo di Bisoli), la chiamata della Juve. E' l'agosto 2011.
In meno di due anni, per Giaccherini arriva la scarpetta fatata, succede di tutto, nel bene e nel meglio. Come in una centrifuga felice di successi, arrivano le presenze in A, i gol, gli apprezzamenti con tanto di due scudetti, la definitiva consacrazione, l'exploit tecnico e tattico. E la maglia azzurra. Il gol record dopo 19" contro Haiti e il Maracana'. Il Brasile e la fiondata alle spalle di Julio Cesar che ha ammutolito la torcida.
Prandelli non e' uno che non può notare gente come Giaccherini. Quei personaggi che sono tutto meno che personaggi, di cui non conosci neppure la voce - tanto rare sono le interviste - ma che sai benissimo come possono muoversi in campo. E quanto possano darti.
La storia del calcio - e dello sport - e' zeppa di Giaccherini in ogni latitudine. Perché le vittorie non possono fare a meno dei gregari.
Come le favole non possono fare a meno di Cenerentola.
Che poi Cenerentola diventi una principessa per sempre e viva felice e contenta tutto il resto dei suoi giorni, questo lo lasciamo alla fantasia dei fanciulli. Senza neanche soffermarci a pensare come sia finito l'idillio con il principe.
Nella realtà del calcio di oggi, il pragmatismo ci dice che se la zucca diventa carrozza, quella va subito pesata. E messa all'asta. A beneficio del primo emiro di passaggio.
Giaccherini salpa. Qualcuno forse non se ne accorgerà.
Secondo me, finirà silenziosamente per mancarci. In attesa di ritrovarlo, pimpante come sempre, in maglia azzurra...
sabato 6 luglio 2013
"Cate, io". Una storia che ci riguarda... A prescindere da quel che ci dice la bilancia...
Caterina e' una ragazza di 17 anni. Vive in un mondo tutto suo. Il mondo delle "non-persone". Così le chiama, quelli come lei. Gli obesi.
E vive in una cittadina di provincia, Urbania. Che potrebbe stare in qualsiasi latitudine nel nostro Belpaese perché rispecchia lo stereotipo del paese marginale ma intimo, in cui tutti si conoscono. E questo e' il problema di Caterina.
Quello di nascondere e nascondersi da un mondo che, ne e' certa, la etichetta e la respinge. Perché quando si muove, quando inizia la sua lotta quotidiana per entrare nei vestiti e soprattutto quando esce di casa, Caterina inizia a combattere una guerra silenziosa, un conflitto di quelli pesanti, da linea maginot, dove conquistare qualche metro nella considerazione dei propri amici significa mettere sul piatto un sacrificio immagine di autostima.
Il libro di Matteo Cellini "Cate, io" - vincitore del premio Campiello opera prima ( dedicato agli autori al loro primo libro) - sarà presentato mercoledì a Gubbio, alla Biblioteca Sperelliana. Starà a me, che ho appena finito di leggerlo, porre alcune domande, quesiti, riflessioni all'autore per un racconto che scorre via veloce, scritto in modo agile e forbito al tempo stesso, intelligente e acuto - come la protagonista - che sotto lo spesso strato di adipe, nasconde quasi gelosamente un patrimonio di sapienza, cultura e sensibilità davvero straordinarie.
Ma al tempo stesso mescola con un'energia conflittuale verso il prossimo così alta da impedirle di distinguere chi cerca di stare vicino, per amicizia sincera o per affetto spontaneo, e chi invece la ignora o la bistratta come troppo spesso accade a chi non risponde ai canoni estetici dell'oggi. Sono tutte persone. Comunque distanti e differenti dal pianeta delle "non persone".
Tanto da affliggersi continuamente, nel dover sopportare gli sghignazzi, le battute, gli sguardi irridenti di coetanei e non. Tanto da dover scegliere il posto nel bus piuttosto che a scuola, a contatto di finestrino o di muro, per non doversi mostrare su ambo i lati. Tanto da dover paragonare ad una sorta di traversata del mar Rosso ogni suo passaggio nel corso centrale di Urbania. Un microcosmo così asfittico e provinciale, per una ragazza che trascorre il tempo libero leggendo Pirandello, che perfino Urbino, a pochi chilometri di distanza, sembra assumere le dimensione di una metropoli. In cui mimetizzarsi appare meno problematico.
Una storia che nelle prime pagine pare inverosimile ma che invece rivela una realtà spesso misconosciuta nella foresta adolescenziale dei giovani d'oggi. Il complesso per il proprio aspetto fisico, troppo spesso risolto in disagio e in patologie, che si chiamino bulimia o anoressia poco cambia.
In Caterina c'e qualcosa in più. C'e l'intelligenza ma anche un pizzico di aristocratica presunzione che intimamente la porta a schedare il pubblico che ha di fronte, dai genitori agli amici fino ai prof, con la stessa inconscia superficialità di cui spesso lei stessa e' vittima.
Se gli altri si fermano ai suoi chili di troppo, lei parte da questi per ribattezzare l'intero mondo che la circonda come carente, in debito perenne con quello come lei.
Caterina vive due mondi: quello familiare e quello extra familiare. A casa e' Caterina, appena fuori diventa Cate-ciccia o la miriade di soprannomi che la sua mole ispira.
Finche... Finche' non compie una scoperta, fin quando non giunge al limite del baratro, fin quando non tocca con mano la realtà.
Arrivando finalmente a capire che - come le spiega la professoressa di letteratura (una donna per la quale Caterina va in estasi letteraria ma dalla quale resta fortemente delusa per un episodio) - il mondo e' fatto di maschere. Ognuno e' la maschera di se stesso, e' il personaggio che gli altri dipingono ma anche anche noi stessi finiamo per rappresentarci addosso.
Senza capire che prima ancora che pretendere amicizia, sensibilità, comprensione e affetto dagli altri, dovremmo essere noi a chiederci: cosa ho fatto per pretendere questi sentimenti?
Un libro che finisce per metterci un po' allo specchio. Senza bisogno di sentirci con qualche chilo di troppo.
giovedì 4 luglio 2013
L'Italia non e' tutta escremento. Ma quando e' ora, la memoria può aiutarci...
Il Quirinale: tra i pochi luoghi ancora credibili? |
Ci rifletto su e concludo che con una perifrasi - come gli studi giurisprudenziali (altrimenti inutili) mi hanno suggerito - si può schivare qualsiasi rischio. "Il nostro Paese, a ben guardare e a ben sentire, emette un'irresistibile esalazione nauseabonda". Specie quando a rappresentarlo sono personaggi che con un briciolo di etica, prima ancora che di estetica, si sarebbero dovute ritirare in disparte per manifesta "impresentabilita'".
Tranquilli, non ammorberò la giornata estiva con altri sermoni politici. Perché in fondo, in quella definizione di "impresentabile" potrebbero finirci in tanti, di ogni colore e risma, da Roma a Milano, giù giù fino non dico all'Equatore... Ma anche Perugia e perfino la nostra Gubbio.
Cosa rende impresentabile una persona?
La sua impudenza, la sua straordinaria capacita' di ritenersi indispensabile per le sorti del genere umano (locale o nazionale poco cambia), la sua ostinata pervicacia a rimanere nei ruoli e nei luoghi che ha offeso con il proprio comportamento, la sua supponente sicumera che la gente dimentichi tutto e si beva le frasi scolpite di vittimismo, qualunquismo, perbenismo e populismo... come fossero una lemonsoda da sorseggiare in uno dei chioschetti bordo spiaggia qui a Tortoreto.
La riflessione e' oziosa e prettamente estiva ma figlia del mio pigro vagare tra siti, blog, pagine di quotidiani nazionali e spifferi (travestiti da dispacci) di notizie locali provenienti dai borghi natii selvaggi della mia Umbria.
Oggi ho conosciuto un tizio che a pochi chilometri da qui coltiva 40 ettari di cachi e una ventina di prugne (mi ha spiegato che danno meno rischi per le grandinate fine estate, perché c'e mercato anche per le prugne destinate all'essicazione). Uno che crede ancora oggi fortemente nel ruolo dell'agricoltura, di quel settore non a caso definito Primario, di cui l'Italia - e tutte le sue conglomerate articolazioni istituzionali (il più delle quali poco lungimiranti) - sembra essersi dimenticata.
Mi ha raccontato la sua storia, l'impresa che ogni giorno compie nel condurre la sua impresa, nel districarsi tra banche asfittiche, istituzioni ingolfate, normative illeggibili, fornitori e clienti morosi. E perfino l'incognita grandine ad agosto.
Sono gli eroi silenziosi di un paese che se non e' "nauseabondo" del tutto lo si deve a chi ancora ogni mattina si alza e crede in quello che fa. Senza pretendere un monumento. Ma pretendendo, quello si, di poter lavorare. Contando sulle proprie capacita', senza bisogno di spintarelle, ma senza intralci. E senza dover assistere ad amici degli amici che quando serve, ottengono la via preferenziale.
Un Paese che intanto sappia riconoscere gli "impresentabili". Non perché c'e una corte o un giudice che li definisce tali, così come ha dichiarato reato definire questo stato alla stregua di un escremento.
Ma perché la memoria faccia semplicemente il suo dovere. Permettendoci di ricordare - quando sarà il momento - chi ha contribuito a farci avvertire delle esalazioni nauseabonde, da Roma a Gubbio (poco cambia) e con quale ipocrisia si ripresenti confidando in qualche operazione di maquillage politico-partitico.
Un po' come l'abbronzatura che si riporta da due settimane di vacanze (magari con meno pioggia di quella vista quest'anno): ti fanno sentire bene, ti fanno sembrare in gran forma.
Ma prima o poi la pelle tornerà a schiarirsi...
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