Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

venerdì 23 agosto 2013

Due, tre cose che ho imparato su Berlino: 1) Ich bin ein Berliner...

Non mi era mai capitato. Di essere da poche ore in una città e di esserne già magneticamente stregato.
Questa è Berlino. La Berlino di oggi.
Ho messo piede nella capitale teutonica da poche ore, metà pomeriggio, il tempo di sistemarsi nell'Alsterhof hotel di Augsberger strasse (dovrò segnarmi bene questo nome perchè con la metro diventerà sicuramente molto familiare) che già mi sento attratto da questa piattaforma emozionale di passato, presente e futuro.
Il passato non puoi toccarlo. Se non nelle sue ricostruzioni. Della Berlino di 70 anni fa praticamente non c'è più niente.
Se il più sanguinoso conflitto della storia doveva avere il suo sacrificio finale, ancor più che Hiroshima, sembra Berlino esserne l'emblema. Basta fermarsi qualche minuto di fronte la Chiesa votiva dell'imperatore Guglielmo (o meglio, quel che ne resta): il suo campanile, volutamente lasciato diroccato, è un groppo in gola. Come gli interni spettrali che accanto ai resti di qualche suggestivo mosaico, mostrano le foto. Del prima e del dopo il bombardamento finale nel 1945. Che ha raso al suolo la follia nazista e un'intera capitale. E che oggi la chiesa sembra ricordare con le sue macroscopiche ferite architettoniche.
E' questo "prima e dopo" che ti insegue, a Berlino.
Prima e dopo il bombardamento. Prima e dopo la guerra. Prima e dopo l'olocausto. Prima e dopo il muro.
Lentamente capisci che questa città è tanto aperta, tollerante, cosmopolita, generosa, funzionale, accattivante oggi. Quanto temibile, invisa e agghiacciante si è rivelata per anni.
Con il mondo, prima. Con se stessa poi.
Non puoi non innamorarti di una creatura così. Certamente non ti lascia indifferente. Se non la adori, finirai per detestarla. Non certo per ignorarla.
Questa è la sensazione delle primissime ore.

Inaugurate con un cupo e silente ondeggiare tra i pannelli della Topografia del Terrore, nell'area che ospitò i primi passi del III Reich, dove si consumarono i prodromi del regime più nefasto, dove si ideologizzò scientificamente lo sterminio di massa per antonomasia.
Mi fermo ad osservare. Non solo le foto in gigantografia che ritraggono storia e traducono angosce. Ma anche i volti dei passanti che come me non possono non restare fermi, fissi e contratti, a leggere (o interpretare nel mio caso, la traduzione inglese) quella storia che già si conosce. Ma che lì - dove tutto ha avuto origine - ha un altro senso ripercorrere.
Quando appoggi il tuo piede su quelle pietre capisci che la storia, anche la più tragica, non è un libro che si sfoglia. E' l'aria che si respira, e' la luce che rifrange su un angolo, è il colpo di tosse imbarazzato che ti giunge su un'immagine inquietante. E' il pensiero delle vite distrutte. E della cieca violenza.
E pensare che lì, a due metri, c'è ancora un pezzo di muro. Il Mauren Berliner, come lo chiamano qui. Come vedi scritto anche per terra, in quel perimetro che taglia la città, cicatrice inviolabile fino all'89, incancellabile anche negli anni a venire. Che ancora oggi un segmento di mattoni continua a delimitare. Per non dimenticare. Per non far finta che sia solo un'altra pagina di storia.
Questa è la sensazione delle prime ore. Di Berlino. Teatro di Storia.
Ore coltivate passeggiando fino a Check point Charlie. Quel lembo d'asfalto su cui per 30 anni si sono giocate, quasi a dadi, le sorti del pianeta. Dove un colpo di fucile sparato per sbaglio, avrebbe rischiato di scatenare un'incursione nucleare dall'altra faccia della terra.
Oggi Check point Charlie è un luogo turistico, con un Mc Donald's davanti e qualche figurante che per 2 euro ti sorride in divisa per una foto: meglio scorrere in un museo ti ricorda la durezza del regime DDR, la fatiscente idea di una prigione spacciata per uguaglianza, l'utiopia di una libertà negata in nome di un inesistente principio. Che in realtà era solo un feticcio. Sgretolatosi con la sua nomenklatura ipocrita insieme ad un muro.
Chiedere per credere. Parlare con un berlinese - o un tedesco dell'est - per farsi raccontare quei 29 anni. In cui non solo pensare, ma perfino  ristrutturare la propria casa significava essere controllati dal regime, che imponeva quali materiali utilizzare, quali forme assumere, cosa fare della propria vita. Perchè in quel regime le vite fossero tutte uguali.
Ecco, Berlino è stata questo. Regime prima, contro il mondo. Regime poi, contro se stessa.
E l'impressione, dopo appena mezza giornata vissuta e respirata come un soffio intenso, è che oggi la Berlino moderna, terrazza sul mondo, avanguardia di artisti, poeti e filosofi, stia riscattando quel ruolo di "matrigna" che per troppi anni la storia le ha assegnato.
Forse ancora un po' indigesta, ancora oggi, all'Europa. Ma magari anche in questo caso, basterà aspettare qualche giorno: qui si vota, a fine settembre. Caso mai non lo sapessimo, ce lo ricordano i pannelli elettorali... Cdu o Spd.
Che bello, penso per un attimo, mentre torno in albergo, dopo aver assaggiato la porta di Brandeburgo illuminata. Qui non si parla di Magistratura. Non ci si snerva con i conflitti di interesse. Non c'è più la Storia, gli ideologismi, le chiusure mentali, le barriere, con cui dover fare i conti.
Per questo, per tutto questo. E tanto altro... Hic bin ein Berliner...
 

Il passaggio saliente del celebre discorso di JF Kennedy pronunciato il 26 giugno 1963 (esattamente 50 anni fa) sulla porta di Brandeburgo, concluso con l'immortale frase: "Ich bin ein Berliner" (Io sono un Berlinese). Questo il passaggio finale del suo discorso, fatto a due anni dall'innalzamento del muro con cui l'Urss e la Ddr vollero segnare l'isolamento dall'Occidente.
« Duemila anni fa l'orgoglio più grande era poter dire civis Romanus sum (sono un cittadino romano). Oggi, nel mondo libero, l'orgoglio più grande è dire 'Ich bin ein Berliner.' Tutti gli uomini liberi, dovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino, e quindi, come uomo libero, sono orgoglioso delle parole 'Ich bin ein Berliner!' »
JFK

1 commento:

  1. Veramente forte. Ancora dopo oltre un secolo il graffio brucia ancora. La guerra poi, ha rappresentato una prima parentesi, un round, perché le vicende internazionali clamorose derivanti dai sottili (e vertiginosi) equilibri suppliti che hanno angosciato per decenni le vite di tutti, sapevano dello stesso sangue e veleno. Eppure come hai ben sottolineato tu, abbiamo avuto menti brillanti a trascinare fuori, a tratti coi denti e in ginocchio, quel pesante fardello. Uno è stato JFK, l’uomo rimasto in vetrina, colui che, amato o odiato, consigliato o no, ha concesso l’apertura di spiragli di luce. Non dimentichiamoci che un anno dopo la costruzione di quel Muro, a Cuba venivano puntati missili contro gli USA. Fu una questione di libertà,credo... di sottili equilibri mantenuti costanti dalla buona volontà di persone rimaste a noi (alla storia) sconosciute. Ci sono stati momenti, nella risoluzione di quella tensione, in cui ha contato solamente il buon senso, il desiderio di libertà nel senso più profondo ed universale del termine. Secondi in cui solo gesti, sguardi, messaggi in codice hanno chiarito ogni equivoco immaginabile. Il discorso di quel giovane (presidente) americano a Berlino aveva scosso le coscienze di molti, anche in Unione Sovietica, dove peraltro c’era un vecchio (il Segretario Krusciov) russo per niente ottuso a mio parere. Ma la situazione politica sovietica che vigeva ci è nota. Quel desiderio di libertà di allora ha avuto una eco che ha spaccato le orecchie (e le cortine) di molti. Ha evitato un’altra guerra in cima ad una escalation paurosa. Per grazia di Dio oggi ci è concesso l’accesso a informazioni che, fino a 20 anni fa (o anche meno), era proibito e questo ci riconsegna il significato più alto del discorso di Kennedy. Scegliere la libertà…o essere liberi di scegliere…è ciò che ci fa evolvere.
    Michela

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