Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

giovedì 31 dicembre 2015

Il 2015 se ne va? Ora tocca al 2016 fare il suo dovere...

Di solito il 31 dicembre l'atmosfera ha un sapore diverso. 
Impaziente e nostalgico al tempo stesso. 
Quest'anno no. 
È stato un anno di silenzio. Il perchè non me lo chiedo neanche. Non saprei rispondermi. 
Ci penso e in queste ultime ore mi dico che non ho grande nostalgia di questo 2015. 
Non perché non abbia riservato esperienze speciali, giornate da ricordare. Anzi,  ripercorrendolo posso trovare momenti di quelli da incorniciare e adagiare sulla mensola centrale dei miei ricordi.

Ad esempio il 2015 ha i colori del tramonto di S.Vito Lo Capo. Di un sole che sembra quasi appoggiarsi sulla cima del faro più a ovest della Sicilia. Che è stata una delle scoperte (o meglio, riscoperte) più esaltanti di questi ultimi 12 mesi. Una vacanza dall'aroma mediterraneo, capace di deliziarti con le spezie di un pane cunzato assaggiato su una delle calette della Riviera dello Zingaro e con la dolcezza di un gelato al pistacchio gustato nelle passeggiate serali nelle viuzze del centro storico. 

Il 2015 è anche la corsa affannata per aprire una porta. Un venerdì santo che non sarà mai come gli altri. La porta e' quella di ingresso a est della città, la porta di S.Agostino, dove a un'ora e poco più dalla processione, sono riuscito a far passare l'auto con a bordo mia sorella e soprattutto mia nipote Caterina, che aveva una gran fretta di venire al mondo. Il sorriso che mi regala ogni volta che la vedo, come quello dei mii figli, e' uno spot alla vita. E alla voglia di viverla con l'impazienza che appartiene ad ogni capodanno. 

Le luci, i colori, il caotico caleidoscopio vissuti per due volte ad Expo - l'evento dell'anno, nel quale una volta tanto la nostra piccola grande Italia ha fatto la sua gran bella figura con tutto il mondo - fanno da contraltare alla quiete silente di tante passeggiate intorno alla mia Gubbio, o lungo i tratti del sentiero francescano che l'intelligente vena organizzativa di Maggio Eugubino e Piccolaccoglienza hanno scelto come tappe delle proprie iniziative. 

E poi il 2015 e' stato un anno insolitamente ricco di teatri: La Fenice, con la serata della finale del Campiello e il fascino da Rondò di una Venezia sublime e un po' ruffiana di inizio settembre, capace di stregarti anche solo con una indimenticabile colazione in terrazza. 

E la Scala di Milano, perlustrata in una domenica mattina grazie alla complicità dell'amico Max che ci ha aperto un dietro le quinte inaspettato, finendo per ritrovarci all'interno dell'enorme regia luci che sovrasta il lampadario maestoso della platea.
 
Il 2015 è stato un anno da dimenticare per chi ama come me il rossoblu': dagli altari alle polveri e' quello che la nostra Gubbio calcistica ha toccato con mano nel breve volgere di 4 anni. 4 anni luce quelli che ci separano da un 2011 che forse proprio per questo resterà irripetibile.

Ma quest'anno si era aperto con la personale sfida impossibile alla brocca, ritrovandomi ancora a incrociare la strada insieme a due amici, stavolta sottoposti al giudizio dei ceraioli. Giudizio che ho accettato, che mi ha comunque riservato soddisfazioni e gratificazioni, che non mi ha allontanato dalle persone con cui sono cresciuto sotto la stanga e mi ha avvicinato ancora di più a me stesso. Se il cero e' una straordinaria metafora di vita, le delusioni che il cero ti riserva sono solo delle sfide per capire dove puoi ancora arrivare. E cosa puoi ancora apprezzare, a 44 anni, del tuo cammino sotto la stanga: ad esempio un altro 20enne che si affida a te per la sua prima Callata dei Neri. 
Ecco, il 2015 e' anche quella corsa infinita (nei pressi c'è sempre la porta di S.Agostino) il rumore degli scarponi (giuro di averli sentiti) che filtra nella spessa coltre del boato in cui ti immergi, quasi tuffandoti da una delle piattaforme che poi avrei calpestato nelle tonnare di Sicilia. E l'abbraccio alla fine, di quegli abbracci che non si raccontano. Nascono da soli, e non sono ripetibili. 

Dopo tutto questo verrebbe da chiedersi allora perché questo anno che se ne va non lascia impronte nostalgiche.
Semplicemente perché avrei voluto che accadessero delle cose. Ma non sono accadute. Che cambiassero delle situazioni, che non si sono modificate. Che il 2016 potesse avvicinarsi sotto certi auspici... Ma ho la sensazione che non sarà così.
Eppure... Continuo ad essere fiducioso. 
L'anno si è chiuso con un'intervista-chiacchierata (come mi piacer definirle) con una persona che ho conosciuto quest'anno. Un imprenditore un po' filosofo e un po' sognatore. Di quelli che però alcuni sogni hanno saputo anche realizzarli. Non è Cucinelli (che pure ho intervistato un paio di volte quest'anno), del resto non è l'unico ad avere buone idee e a sognare un futuro migliore.
Donare e stupire: sono due dei punti cardinali che ha provato a spiegarmi l'interlocutore di pochi giorni fa, su una panchina del Teatro Romano. 
Ecco, mi sono chiesto quanto ognuno di noi - e soprattutto la nostra comunità - abbia difficoltà a donarsi, a donare. E a regalare stupore. 
Per certi versi ho l'impressione che la nostra Gubbio non sia più capace nemmeno di saperli ricevere e capire certi doni (spero di sbagliare), troppo occupata spesso a coltivare invidie e polemiche, disfattismo e apatia.
Ci sono le felici eccezioni (penso alle 100 ramazze e al tanto volontariato che pullula da queste parti), ma c'è anche la netta sensazione che troppe potenzialità restino inespresse: perché non sappiamo unirci. Ma sappiamo benissimo quale è la formula algebrica per dividerci. Su tutto. 
Non voglio farmi un augurio per il 2016. Può sembrare banale. 
Forse l'unico - oltre alla salute per me e i miei cari - è di trovare un po più tempo e maggiori stimoli anche per tornare qui, su questo blog. Per fare una delle poche cose che mi gratifica davvero... Scrivere. Ecco, il 2015 è stato strano anche per questo. Ho scritto meno del solito. E allora, tanti saluti 2015...

venerdì 21 agosto 2015

L'estate sta finendo. Anche se è la più lunga nella storia del Gubbio...

L'estate sta finendo. 
La cantavano a metà anni 80 i Righeira ma dopo un trentennio il motivo potrebbe essere eletto a inno ufficiale del Gubbio.
L'estate sta finendo ed è certamente la più lunga della storia ultracentenaria dei rossoblù: perchè a 2 settimane dal via del campionato il Gubbio non sa ancora con certezza in quale campionato giocherà.
Colpa di un sistema che naviga nella totale incertezza da anni e che si riduce a risolvere le questioni di giustizia sportiva solo al fotofinish. Nulla di cui sorprendersi, se pensiamo che a fine maggio fu rivoluzionata la griglia playout per un ricorso pendente da 8 mesi prima.
Colpa anche di un Gubbio che, a bocce ferme lo si può dire, la scorsa stagione ha fatto di tutto per complicarsi la vita. E alla fine c'è riuscito con un suicidio perfetto, a costruire una retrocessione semplicemente impensabile al giro di boa.
Sarà corsa contro il tempo, comunque.

Lo sarà se la sentenza di primo grado che catapulta all'indietro di due categorie il Teramo e di una il Savona, consentirà ai rossoblù di tornare tra i professionisti. Perchè la squadra è quasi tutta da costruire. E la cosiddetta amalgama richiederà qualche buona partita di campionato prima di entrare a regime.
Sarà corsa contro il tempo anche se – e l'ipotesi è francamente improbabile – dovesse tutto essere ribaltato nel processo d'appello. Perchè anche per una serie D il Gubbio dovrebbe completare il suo mosaico, con la questione fuoriquota che farà la differenza.

Restando realisti, senza farsi trasportare da eccessivo ottimismo, si può dire che ad oggi il Gubbio ha un piede e mezzo in Lega pro. Che vedrà scritto il suo nome nel girone e nei calendari che saranno stilati la prossima settimana. Ma che saprà solo al 100% di essere tornato in terza serie i primi di settembre, a pochi giorni dalla prima trasferta, chissà dove, magari proprio a Siena dove solo qualche anno fa l'Inter di Ibra vinceva i suoi scudetti (nella foto a sinistra).

L'estate sta finendo. Ma mai come quest'anno è stata vissuta in apnea da queste parti. Un sacrificio che deve essere anche un monito a non ripetere gli errori del passato: con la prima squadra così come col settore giovanile.

E poi c'è Magi. Che forse è la garanzia maggiore sul fatto che – anche di rincorsa – la squadra avrà una sua identità.


Editoriale de "Il Rosso e il Blu" - 21.8.15 

domenica 26 luglio 2015

La Grande Guerra del nonno Stefano: e "Il tempo migliore della nostra vita"

Ognuno forse ha un suo motivo per celebrare i 100 anni della Grande Guerra.
Il mio si chiama Stefano Marinelli, classe 97, tenente, a 18 anni, in prima linea...
A casa non raccontò mai nulla di quanto visse in quella trincea, se non della gioia di entrare a cavallo a Trieste: e della bellezza irresistibile di alcune triestine (che l'asperità delle battaglie lasciate alle spalle devono aver sicuramente accentuato).
Ma le rughe sulle mani, gli abbracci caldi carichi di bene a noi nipoti, il sorriso tenero di chi aveva visto l'inferno ed era riuscito a tornare, erano lì, quasi a renderne testimonianza silenziosa.
Nè cambiarono le cose con la seconda guerra mondiale (fece pure quella): se non la sua anagrafe (di anni ne aveva 40), se non la destinazione (il Montenegro anzichè il Monte Grappa), se non il fatto di avere oltre che una moglie, mia nonna Anna, anche un figlio (mio padre) che lo attendeva a casa.
E che chiamava teneramente "Giorgetto" nelle cartoline inviate dal fronte, per far sapere che andava tutto "bene". Che quando sei in guerra, non significa vincere o perdere. Ma: "Ancora sto nelle condizioni di poter tornare".

Ho pensato spesso a quelle cartoline, che mio padre conserva tuttora nel suo ufficio, quasi fossero souvenir da luoghi di vacanza. In fondo è proprio quello - l'azienda di famiglia - il luogo dove poi il nonno Stefano ha consacrato la sua esistenza, dedicando tutto se stesso alla famiglia, all'impresa di famiglia, al futuro della famiglia, restandoci ancorato, su una sedia all'ingresso, anche ultraottantenne, con quell'aria sorniona ma anche saggia con cui squadrava ogni cliente all'ingresso. Non mancando di apostrofare tra sè e sè quelli meno "affidabili"... (Oggi praticamente, secondo i suoi antichi e nobili canoni della "parola data" o della "stretta di mano che vale più di un contratto", sarebbero in pochi a salvarsi).

Ci ho ripensato spesso leggendo soprattutto "Il tempo migliore della nostra vita", uno dei cinque libri finalisti del premio letterario "Campiello", scritto da Antonio Scurati, che ho avuto il piacere di conoscere e intervistare, insieme agli altri quattro autori, il 22 luglio scorso, in un caldo ma appassionante pomeriggio di letteratura, vissuto alla Sala dell'Arengo di Palazzo dei Consoli: la prima volta della "cinquina" a Gubbio.
Scurati racconta la breve ma intensa esistenza di Leone Ginzburg, uno degli intellettuali più integerrimi (oltre che colti) del secolo scorso, capace di opporsi al totalitarismo culturale non con le armi, ma con la cultura. Capace di fondare una casa editrice ancora oggi importante (la Einaudi), pur dovendo lavorare nell'ombra, in quanto perseguitato (era ebreo, di origini russe). Capace di lasciare tracce indelebili nella cultura del nostro Paese, pur essendone rifiutato dal sistema di cui si ritrovò a far parte. Tra i tanti "no" che ebbe la forza di pronunciare - rinunciando ad una brillante carriera universitaria, essendo già ordinario ad appena 25 anni - un "si" prevalse su tutto: quello di continuare a lavorare per la cultura.

Ma la storia di Ginzburg - e di sua moglie, Natalia, che poi ispira anche il titolo del libro - viaggia parallela con le storie delle due famiglie dell'autore, di Antonio Scurati: i Ferrieri di Napoli, la famiglia materna, e gli Scurati della Brianza, quella paterna.
Le loro vite, pur anonime, pur sconosciute, lontane dai riflettori della fama e dagli altari della cultura letteraria, hanno potuto ergersi a testimonianza viva e autentica di quel tempo. Con le paure, i timori, le angosce attraversate. Ma anche gli amori, le gratificazioni, gli entusiasmi, i sogni che pur quell'epoca difficile - quale ogni guerra si rivela - aveva prodotto.
Tanto da rendere quella generazione "paradossalmente fortunata" agli occhi di chi, oggi, vive sostanzialmente nell'agio e nella quiete di una pace eterea (rispetto alle bombe che quotidianamente sconvolgevano Napoli come la Lombardia, sia che fossero "alleate" o tedesche). Una serenità, quella odierna, senza brividi, senza ideali per cui battersi, con una generazione di mezzo (la nostra) "condannata" a convivere con i piccoli sussulti di una cronaca quotidiana orfana di eroi, ma soprattutto di ideali. Incapace di intravedere, nel caotico susseguirsi di informazioni e notizie, fitte come una scarica di mitragliatrice, gli scossoni della Storia. Che ormai è rimasta solo quella dei libri.

In questo parallelismo, in questo doppio binario a distanza, mi sono ritrovato, pensando proprio a mio nonno Stefano. Lui che, poco più che 17enne, si ritrovò al fronte a dover fare i conti con le granate e le pallottole degli austro-ungarici. A mettere il suo mattone silente e coraggioso sul muro della storia di un Paese che - allora non sapeva - l'avrebbe a mala pena commemorato 100 anni dopo. Dimenticandosene pero' nel lungo frattempo.
Lui, anonimo tra tanti, ha fatto la storia, La sua e quella del suo Paese. Ma in fondo - mi convinco - l'ha fatta anche dopo.
Come potrebbe raccontare un'altra cartolina, che conservo ancora a casa: l'Autorimessa Grand'Italia, tra le primissime imprese nell'incipiente mondo dei motori, che il nonno Stefano amava, con il suo curioso numero di telefono, appena ad una cifra, il 9.
Anche quella è stata storia. In quella logica di costruzione miniaturizzata di un processo sociale, economico, di vita - dagli anni Sessanta ai giorni nostri - che non ha meno valore, nè peso specifico, delle sortite in trincea. E del trionfo di Vittorio Veneto.
Se noi oggi siamo, siamo anche grazie ai sacrifici di chi ci ha preceduto: e i sacrifici non sono solo quelli patiti in divisa.

Avevo appena 13 anni quando mio nonno se ne è andato, una sera d'autunno del 1984.
Mi mancano le sue coccole, i pranzi delle "battiture" dove ci portava a S.Martino in Colle, i vizi che ci regalava (perfino un cavallino pony che chissà quanto mai avrà durato). Ripenso perfino alla sua mollica inzuppata nel vino che ci faceva assaggiare di nascosto a piccole gocce, da bambini, prima di pranzo (evitando accuratamente l'ira di mia madre o mia nonna quando se ne accorgevano).
Mi sembra ieri. Mi sembra ancora di avvertire il calore di quelle mani enormi segnate dagli anni, che hanno imbracciato fucili e maneggiato volanti, che hanno infilato divise militari e imbracato tute da lavoro, che hanno applaudito e accarezzato. Che hanno sudato e vissuto.

E ogni tanto ci penso. Non so se il nonno Stefano avrà schivato mine, granate, colpi di baionetta; non so quanto avrà stretto i denti nel gelido anfratto delle trincee; non so quanto avrà maledetto quella guerra o quanto avrà gioito alla sua conclusione, fiero com'era di onorare comunque la bandiera italiana e la Patria (una parola che oggi si sente vibrare solo per le competizioni sportive ma che andrebbe recuperata nel suo significato più vero, senza "ismi" che ne offuschino il valore).
So di sicuro che nessun ordigno, nessuna bomba, nessuna pallottola chirurgica avrebbe potuto ferirlo mortalmente come fece la scomparsa di sua moglie, Anna Andreoli, quasi 70 anni dopo. Dopo una vita vissuta insieme.
Lasciandolo solo, nonostante una famiglia accanto, nonostante una vita epica alle spalle, nonostante la forza di un fisico possente, un po' logorato ma ancora carico di orgoglio e tenacia.
Quell'assenza, inevitabile ma anche improvvisa (perché non ci si può mai abituare alla mancanza di chi ti vive accanto per una vita) ebbe l'effetto di una mazzata capace di tramortire anche un gigante.
In realtà in quel 1984 era rimasto semplicemente solo. Malinconicamente solo, a "vegetare" senza meta, senza una spalla, senza un perchè. E senza neanche più un passato da raccontare. Solo, con l'unico desiderio di ricongiungersi con sua moglie, pochi mesi dopo...
Per ironia del destino, accade la stessa cosa ai due miei nonni materni, 10 anni dopo. Con la stessa triste sequenza e analogo epilogo, a distanza di pochi mesi.

Ed ecco che la vita, accanto alla morte, ci rivela la sua essenza: quelle che chiamiamo "glorie" e ricordi di un passato straordinario, alla fine lasciano l'ebbrezza di una foto o una medaglia. E durano il tempo di un istante, se la memoria assiste; mentre il cuore fatica a scuotersi.
Gli affetti, gli amori, le poche persone che davvero danno senso alla nostra esistenza, sono quelle per le quali davvero si vive. Le uniche per le quali si respira, Sono quelle senza le quali ci si spegne... Senza bisogno di avere pallottole da schivare.


mercoledì 24 giugno 2015

Sono passati 10 anni da quel pomeriggio... Ciao Lucio!

Ciao Lucio.
Ci volevi tu. Per farmi riscrivere dopo quasi un mese.
Che vuoi che ti dica? E' un 2015 silente. Forse un giorno saprò anche perché. Per ora e' così. Ed e' giusto che sia ciò che vuol essere.

Sono passati dieci anni da quel pomeriggio. Da quella telefonata fredda e inconsapevole che mi faceva il tuo nome, chiedendomi se eri proprio tu, il pilota d'aereo, quella persona.
Sono passati dieci anni e in fondo non e' cambiato molto.
Io ad esempio, arrivo sempre in ritardo.
Anche oggi, alla tua messa, nella cappella del cimitero. Sono arrivato alla fine, quando gli altri se ne erano andati. 
Per fortuna c'erano ancora Donatella e Walter. Gia' sapevo che Paolo era stato costretto a Perugia. Per parlare del "suo" volo.
Perché in fondo - come abbiamo detto nella intervista di quest'anno su "L'Attesa" (scommetto che t'e' piaciuta...) - il volo e' nel destino della tua famiglia.
C'e chi lo ha fatto in aereo. C'e chi oggi lo fa con un drone. E se volessimo "cojonarci" un po', come facevamo una volta, diremmo che in comune abbiamo un po' tutti anche un altro tipo di volo... C'e capitato un 15 maggio di qualche anno fa. Ma in fondo si può andar fieri anche di quello.
E' stato bello rivederci. In quella foto, la stessa che campeggiava il tappeto verde della Madonna del Prato, 10 anni fa, per il nostro ultimo saluto. Quella dove hai il tuo sorriso accennato. Ne' sguaiato, ne' banale. Peccato che in una foto, una sola foto, non possa esserci tutto il resto.
Ad esempio, la risata simpatica e irresistibile che seguiva sempre quel sorriso. Magari a corollario di una battuta, di un pensiero.
E' quella stessa foto che ho con me in una stanza. Un giorno mio figlio mi ha chiesto "chi e' quel signore col cappello che sta vicino ai nostri libri?". E gli ho raccontato la tua storia. La nostra piccola grande storia.
Finita troppo presto. Ma senza "se".
Basta, mi sono detto che e' ora di riporre in un cassetto tutti i "se" della nostra esistenza. E chiudere a doppia mandata.
Quanti "se" ci siamo detti o ripetuti in questi 10 anni?
Quanti "se" ci rincorrono nostalgicamente nella nostra vita?
Quanti "se" si travestono da ricordo e nascondono un alibi?
Non ci sono "se". Neanche per te Lucio.
Mi tengo stretta l'amicizia che c'e' stata e l'affetto profondo che ancora oggi ci lega, attraverso Donatella, Paolo e Walter.
Ieri sera, uscendo dal cimitero, gli ho raccontato per la prima volta un particolare che mi e' tornato in mente, come quei flash improvvisi a distanza di tempo. Un frammento mnemonico cui non avevo dato importanza ma che oggi forse mi da' la cifra di come il destino si diverta talvolta, cinicamente, non solo a segnare le nostre vite. Ma a farlo con la spietata meticolosità di un killer. Non tralasciando neanche i dettagli.
Uscendo dal cortile di casa, quel pomeriggio, dopo aver ricevuto quella telefonata, che mi chiedeva se fossi tu quel ragazzo in via Paruccini, con l'angoscia di chi si precipita in un posto sperando che non sia davvero successo quel che e' successo, illudendosi quasi di poter riavvolgere il nastro, una volta sopraggiunto, ho incrociato -ignara ancora di tutto- tua nipote Stefania. E' la prima persona che ho visto fuori dalle colonne. Era a passeggio con il suo fidanzato, oggi suo marito. Evidentemente non sapeva nulla. 
Non mi ha sfiorato nemmeno l'idea di fermarmi e dirLe qualcosa. Non potevo, non dovevo. Ma in quell'istante, giusto il tempo di inforcare con lo scooter la curva del bar Padeletti e scendere contro mano per via Maffei - a proposito, in barba ai divieti e con rischi che solo dopo ho calcolato come incoscienti - ho avvertito quasi il sogghigno crudele di quel fato che aveva gia disegnato la sua opera piu' cattiva. Ma non pago, si divertiva pure a scolpire la cornice. 
Dopo 10 anni, ho poco altro da dirti. Quello che siamo stati e quello che siamo, lo ha visto anche tu.
In fondo, siamo solo piu' vecchi di 10 anni. Abbiamo fatto tante cose. Non troppe di cui serbare un vero ricordo, Alcune, quelle si', nel tuo ricordo. Nella tua memoria.
Sfogliavo ieri sera il libro delle firme, dei pensieri, dei sentimenti dedicati, che ti siedono accanto, dentro la cappella.
E sono sempre piu certo che ognuno di noi non e' cio' che la vita ha la fortuna di dargli. Ma ciò che con la vita sia ha la possibilità di lasciare agli altri. Non siamo ciò che otteniamo, ma ciò che diamo.
Non conta quanto vivi, ma come vivi.
Senza "se".
Sono passati 10 anni, Lucio. Ma restiamo tutti "di passaggio", come scrivevi tu. Siamo come il tuo aereo. 

mercoledì 27 maggio 2015

Quel Pastorale inaspettato... (proprio quest'anno)

Quel Pastorale inaspettato...



Un messaggio recondito e profondo si nasconde in questa formidabile istantanea.
Un pastorale che poggia su tre anime, gialla, azzurra e nera. 
Ognuna è necessaria per comporre l'inatteso disegno. 
Non c'è sceneggiatura, non c'è protocollo, è tutto straordinariamente spontaneo e reale.
E in fondo altro non è che il senso della Festa dei Ceri.
Ci si divide e si lotta, si sta dalla propria parte, si appartiene.
Perchè l'omaggio sia più puro, perchè la spallata sia più gratificante. 
Poi, alla fine, però, ci si ricompone e ci si riunisce in un'unica essenza: quel pastorale. Simbolo di colui che è l'unica Tradizione, l'unico quadro per il quale si fa tutto questo.
Il resto, tutto il resto, noi compresi... è solo cornice... 
GMA


Immagine tratta dal video di Giampaolo Pauselli realizzato con drone il 15 maggio 2015

giovedì 7 maggio 2015

Chissà se un giorno ci ricorderemo "dei Ceri del '15"

Chissà se un giorno ci ricorderemo questa Festa dei Ceri.
Il rischio, pensando al futuro, è che quanto accaduto negli ultimi 20 anni abbia quasi “appiattito” in una sorta di formato standard, il 15 maggio.
Intendiamoci, nel cuore di un ceraiolo nessun 15 maggio è uguale al precedente. E sono molteplici i motivi per conservarne un frammento. Nella mente come nell'anima. Come fosse un pezzo di brocca.
Nell'immaginario collettivo, invece, non sempre è così.
Cambiano le facce, i volti in posa, i cosiddetti “protagonisti” - sempre che lo siano – Capitani e Capodieci, cambia per un paio di edizioni la luminosità e il fattore meteo. Ma poco altro.

La Festa dei Ceri 2015 potrebbe essere diversa. Almeno agli occhi dei visitatori, dei turisti, dei forestieri che arriveranno a Gubbio.
Per la prima volta, infatti, troveranno, accanto a quel clima indefinibile e inconfondibile di primavera frizzante e di profumo accogliente, anche un luogo che potrà raccontare loro cos'è la Festa dei Ceri.
Un Museo dei Ceri, un ambiente nel quale immergersi idealmente nel 15 maggio. Anche quando il 15 maggio è distante.
Sembra l'uovo di Colombo, eppure niente era stato fatto e nessuno ci aveva pensato prima. Pur essendo stato più volte auspicato, anche da queste colonne, fin dal dicembre 1991 (1o numero di Gubbio oggi).

Meglio tardi che mai. Meglio ora che chissà quando. Perchè la dimensione della Festa dei Ceri – come elemento identitario e qualificante del popolo eugubino – può essere anche uno strumento promozionale formidabile. E tuttora sottovalutato.
Senza stravolgere nulla, senza invadere campi o ambiti (ad esempio, l'organizzazione della corsa) che vanno giustamente lasciati alle dinamiche interne delle compagini ceraiole.
Senza ripetere l'errore che mamma Rai commise esattamente 50 anni fa pensando di poter influire, anche sull'andamento della corsa, per pure esigenze di ripresa.
Basta essere di Gubbio, o anche solo respirare per qualche tempo l'aria che circola da queste parti, per capire l'inconsistenza di un simile progetto. E basta pensare a quanto accadde allora alla Rai, per capire quale miracolo ogni anno compie invece la tv locale Trg per regalare, senza alcun intralcio, la Festa dei Ceri a chi non ha la fortuna di toccarla da vicino.

Quelle immagini aeree dello scorso anno, poi, ci dicono che la tecnologia può sposarsi felicemente con i colori, il dinamismo, la trascendente unicità della Festa dei Ceri. Esaltandola, come mai accaduto prima. E rendendole quella veste che le è propria, e che appartiene anche alle pietre e alla storia di questa piccola grande città.

Se un giorno ci ricorderemo la Festa dei Ceri del '15 (inteso come 2015) sarà perchè finalmente anche il 15 maggio sarà diventato un momento di condivisione globale, di esaltazione dell'Eugubinità, non chiusa in se stessa ma pronta ad offrirsi alla presenza e alla compartecipazione di quanti – da ogni parte del pianeta - ne sapranno cogliere significati, valori e sfumature. Difficile che un estraneo resti indifferente ad un qualsiasi istante del 15 maggio.

Sarà perchè i Ceri – come mirabilmente raccontato dai proff. Raniero Regni e Paolo Belardi qualche mese fa – hanno saputo trasformarsi da tesoro di pochi a linguaggio di tanti. Senza bisogno di alcuna traduzione. Patrimonio, essenziale prima ancora che certificato, dell'umanità. 

mercoledì 25 marzo 2015

"Don Matteo" torna a Spoleto? Meglio il patto con Assisi...

Potrà sembrare una pia consolazione. Ma leggere che la Lux Vide ha riconfermato Spoleto come sede della decima edizione di “Don Matteo” il giorno prima della firma del protocollo tra i comuni di Gubbio e Assisi, fa un po' meno male.

Non nascondiamoci dietro un dito. In molti avevano sperato che qualcosa si potesse recuperare sulla strada “perduta” dopo l'addio nel 2012-2013 della popolare fiction – dovuta ad una serie di incongruenze, mancanze istituzionali (da Gubbio), vuoti progettuali ma anche da una serie di “combinazioni non meglio identificate” che portavano anche a Palazzo Donini.

Coperta in extremis con una giustificazione poco plausibile la vicenda dei tanti mila euro spesi dalla Regione per promuovere la fiction a Spoleto, resta da chiedersi – per ora senza risposta dai diretti interessati – come mai in 13 anni dal Palazzo politico più importante dell'Umbria nessuno, dalla Lorenzetti alla Marini, si sia mai scomodato per venire a prendere un caffè in Piazza Grande, davanti la scacchiera del prete detective, salvo poi precipitarsi all'ombra del Duomo spoletino in occasione del primo ciak nella nuova location.
Che da Spoleto c'abbiano saputo fare (e anche rifare, vista la decima edizione alle porte) è fuori discussione: le associazioni di categoria, il consorzio albergatori e la lobby della ricettività ha di nuovo serrato le fila, con il comune, non appena si è profilata la “minaccia” che Gubbio tornasse all'assalto. In questo va riconosciuto che almeno il sindaco Stirati ci ha provato, intessendo nuovi rapporti e un tentativo di dialogo con il gruppo Bernabei. Salvo correzioni in corsa, purtroppo il tentativo non è andato.

Ma per una fiction che saluta – con tanto di testimonial neo cittadino onorario (anche se ormai Terence Hill è più popolare come guardia forestale del fiabesco lago di Braies a Dobbiaco) – molte altre finestre e opportunità si possono aprire.
Proprio il protocollo tra i comuni di Assisi e Gubbio è la grande novità di questo periodo. Qualcuno lo battezzerà come frutto della spinta elettorale della candidatura Ricci. Sarà anche questo, fatto sta che l'accordo non ha precedenti e – quel che è peggio – negli anni precedenti nessuno c'aveva neppure pensato. Neanche una telefonata tra Palazzo Pretorio e Piazza del Comune ad Assisi.
Del resto cosa volete che abbiano in comune queste due città (come si chiedeva un amministratore eugubino pochi anni fa)?
Niente, a parte la figura del santo più conosciuto al mondo, che ha dato il nome all'attuale Pontefice, che ha percorso i sassi del sentiero che conduce alla Chiesa della Vittorina e al ribattezzato Parco della Riconciliazione, dove ha ammansito il lupo – parabola simbolo di pace più famosa al mondo – dove ha vestito il suo primo saio e curato i lebbrosi.

La risposta è volutamente ironica ma anche da queste colonne, chi vi scrive, la proponeva dall'inizio degli anni Novanta. E' passato, ahinoi, quasi un quarto di secolo. 
Meglio tardi che mai... 

GMA


Editoriale "Gubbio oggi" - febbraio 2015

lunedì 16 marzo 2015

"Sugar Queen": la favola di un mancato magistrato che diventa rinomata cake designer...

Una storia contro la crisi. Soprattutto contro la disoccupazione femminile e intellettuale: è quella raccontata nel libro “Sugar Queen” da Cristina Zagaria, giornalista di Repubblica autrice del volume presentato a Gubbio al ristorante Federico da Montefeltro su iniziativa della Fondazione Mazzatinti in collaborazione con il Comune. 
Il libro racconta la storia di Giada Balderi, napoletana, laureata 110 e lode in legge, aspirante magistrato, mamma di una bimba e con un secondo "marmocchio" in arrivo. Quanto basta per vedersi sbarrate le strade professionali, se non rifugiandosi in un misero incarico collaterale in uno studio legale partenopeo con poco più che un rimborso spese a fine mese.
Insomma il miglior viatico per chiudersi in casa e mettersi a pulire le fughe delle mattonelle con l'acido, mansione cui finisce per dedicarsi per sfinimento (ed esaurimento nervoso incipiente).
La sua "seconda vita" in realtà nasce per caso: quando sembra tutto perso, quando il destino sembra riservarle un futuro da cenerentola - senza neanche la speranza di trasformare una zucca a mezzanotte - si mette d'impegno a realizzare la torta di compleanno per sua figlia Mirea.
Non una torta qualsiasi, ma una torta da guinness, con tanto di principesse - come desiderato dalla piccola. Oggi Giada è diventata una delle piu' famose cake designer in Italia con il suo laboratorio Sugar Queen di Napoli.

Da sin. Giada Balderi e Cristina Zagaria
Il libro racconta questa favola: per dimostrare che credere in ciò che si fa, ma anche credere in ciò che non si pensava di poter fare, resta il segreto di sorprese inaspettate. Che per qualcuno significano anche lavoro, gratificazione e futuro.
Un messaggio positivo, incoraggiante, ottimistico, tanto più che proviene dal Sud, da Napoli, città che quanto ad opportunità non può certo dirsi una Silicon valley.
Cristina Zagaria ha saputo dipingere questa storia con i tratti forti ed energici di chi ha a che fare quotidianamente con la cruda realtà della cronaca, ma anche con la delicatezza e lo stile che si richiede ad uno stilista di colori e di sapori, quale la protagonista del libro sa diventare.

In sala, per la presentazione del libro che ho avuto la fortuna di introdurre, anche due cake designer eugubine, Marta Pierucci ed Eleonora Pierotti titolari della "Bottega delle Dolcezze", da pochi mesi una novità nel panorama eugubino che sa abbinare pasticceria tradizionale alle nuove decorazioni in pasta di zucchero. Con una simpatica dimostrazione che ha arricchito la presentazione di Sugar Queen.
Marta è ingegnere, Eleonora studentessa. Il presente e il futuro, fino a qualche settimana fa, era appeso ad un esame o ad una prospettiva professionale appannata dalla solita cronica crisi.
Che per molti altro non è che un pretesto per non scommettere su se stessi.
Loro no, loro hanno scommesso. E sognano di poter diventare, nel piccolo mondo eugubino, delle Sugar Queens... In bocca al lupo!

domenica 15 marzo 2015

S.Croce della Foce: arriva il finanziamento, si apre finalmente un nuovo capitolo

Per una volta la parola “resurrezione” arriverà prima ancora della Passione.
La metafora, lungi dal voler sembrare blasfema, si presta alla perfezione per la chiesa di Santa Croce della Foce di Gubbio.
Ieri è stato il giorno in cui è stato svelato il piano per finanziare i lavori strutturali per la splendida chiesa barocca simbolo dei riti della Passione a Gubbio e sede dell'antica Confraternita di S.Croce della Foce che organizza ogni anno la suggestiva Processione del venerdì santo.
Occasione propizia perchè venisse illustrato nel dettaglio il piano che vede in campo oltre alla Confraternita di S.Croce della Foce, presieduta da don Giuliano Salciarini, che mai si è tirata indietro nel sollecitare un intervento risolutore, il sindaco Stirati e il consulente ministeriale Rocco Girlanda, grazie al quale sarà possibile attivare un finanziamento importante – si parla di circa 2 milioni e mezzo – per l'intero intervento di riconsolidamento.

Anche il FAI, il Fondo Ambiente Italiano, era presente con la presidente regionale Nives Tei e il delegato eugubino Claudio Fiorucci: l'associazione – che proprio la prossima settimana rinnova in tutta Italia la fortunata iniziativa delle Giornate FAI di Primavera, per favorire la fruizione più ampia e diffusa di alcuni dei tesori artistici del Belpaese. Sono state oltre 12 mila – come anticipato nei giorni scorsi - le firme raccolte nella campagna dei “Luoghi del cuore” a favore di S.Croce della Foce, giunta 25ma nella graduatoria nazionale.
Un attestato ulteriore dell'importanza con cui viene vissuta la missione di recupero di questo vero gioiello architettonico cui la comunità eugubina è legata anche e soprattutto per i riti della Passione.

La chiesa oggi si presenta chiusa, in ogni senso: interdetta all'accesso nell'unica navata che la caratterizza con le preziose decorazioni barocche e il soffitto a cassettoni già oggetto di restauri negli anni scorsi. Inagibile nel presbiterio e nella sacrestia. Ma le ferite più profonde sono quelle testimoniate già lo scorso anno dalle immagini di TRG, le fondamenta, con l'intera zona absidale che sta scivolando verso il fiume Camignano con rischi di crollo resi ancora più serrati dallo sciame sismico che negli ultimi 18 mesi ha interessato il nostro territorio.
Con il piano operativo che illustrato, infine, non si porrà solo rimedio ad una situazione di precarietà preoccupante, risolvendo definitivamente i problemi della chiesa e della sua stabilità.
Si metterà anche la parola fine alla vicenda parallela al lento degrado della chiesa: quella che ha visto polverizzarsi i finanziamenti che fin dal 1999 erano previsti per S.Croce dal PIR e che, prima derubricati a classe 3a a classe N (ovvero di un'opera rinviabile), quindi tra il 2007 e il 2009, quando i fondi previsti 10 anni prima potevano essere recuperati, nulla è stato fatto. Un vulnus burocratico e politico che sarà messo alle spalle.

E se anche quest'anno, come è stato annunciato, i tradizionali riti della Passione subiranno variazioni logistiche – la Processione del Cristo Morto partirà dalla chiesa di S.Domenico per girare verso via Vantaggi e raggiungere il "pietrone" – ci sarà almeno la certezza che i disagi non saranno perenni: e che un nuovo capitolo nella storia di questo sito finalmente si apre.

domenica 22 febbraio 2015

Luca Ronconi e quell'intervista di 10 anni fa: "Il teatro? E' come cercare se stessi". "Vivere in Umbria? Quello che cercavo".

Per ricordare Luca Ronconi, il più grande regista teatrale italiano, scomparso ieri a Milano, e che aveva scelto dal 1978 di vivere sulle colline di Gubbio e di trovare in Umbria la sua nuova dimora, ho ripescato un'intervista che realizzai 10 anni fa (luglio 2004) per "Il Sole 24 Ore". Rileggerla oggi ci aiuta a conoscere e apprezzare ancor di più un personaggio che ha dato e lasciato alla cultura italiana pietre preziose. E, come in questa intervista, in un pomeriggio d'estate sulle colline di S.Cristina, parole importanti...


Le colline di S.Cristina sono come un tappeto rabberciato, che si insinua tra la pianura di Gubbio e la valle perugina. 
Uno spicchio di verde francescano, dove la quiete è sovrana. E nemmeno il fiorire, negli ultimi anni frenetico, di agriturismi e country house ha alterato un’atmosfera quasi surreale. Che fa sentire distanti, serenamente distanti, da tutto e da tutti.
Forse è anche per questo che nel 1978, Luca Ronconi, il più grande regista teatrale italiano, ha scelto di vivere qui.

Non è stata una fuga – precisa di primo acchito, il maestro – ma una scelta di vita. Ho cercato un luogo dove potessi trovare tranquillità e che mi desse quello che cercavo”.
Cosa cercava, in particolare?
Niente più che un luogo tranquillo, piacevole, dove la natura ti circonda, la campagna ti affascina. Un posto semplice ma dove vivere bene, in mezzo a persone gradevoli, disponibili, cordiali. L’ho trovato. E non c’ho pensato due volte”.

Da 26 anni il maestro Ronconi ha lasciato la residenza romana di via Monserrato e si è stabilito a Gubbio, non certo venendo meno agli impegni artistici e professionali: “Ho continuato a operare, pur risiedendo in periferia, dove anzi ho potuto organizzare con più calma il volume di lavoro che dovevo affrontare”.
E sulle colline umbre ha meditato e trovato ispirazioni importanti:
Perché no, al Teatro Comunale di Gubbio ho ambientato la prima di alcune opere (“Tre sorelle” di Cecov, la “Serva Amorosa” e in Umbria altri celebri allestimenti con il Teatro Stabile) che considero momenti importanti. E’ un piccolo gioiellino il teatro eugubino, e mi ha fatto piacere ritrovarlo per la Scuola di perfezionamento che abbiamo avviato”.

Luca Ronconi non coltiva hobby, o attività particolari. 
Magari, a volte, può scapparci una passeggiata, lungo qualche sentiero. Il teatro è e resta la sua vita. Senza pertugi per interessi diversi. E il suo stesso parlarne con discrezione, con voce sommessa, quasi silente, sembra quasi indicare una linea di confine, oltre la quale è difficile addentrarsi.
Solo parlando di teatro, il maestro riprende di buon grado il suo dialogo: un percorso che vive una nuova esperienza, una piccola sfida, con la Scuola di perfezionamento per attori e registi voluta e diretta da lui stesso, che ha portato in scena i primi lavori al Teatro Comunale di Gubbio e al Teatro della Sapienza di Perugia.
Non vuol essere una scuola nel senso classico – spiega Ronconi, rivelando tutta la sua passione per il progetto - ma un’occasione d’ incontro, confronto e crescita tra diverse generazioni di attori e registi. In fondo anche noi possiamo imparare dai giovani. La considero una sperimentazione che ci ha permesso di verificare le reciproche esperienze e di crescere giorno dopo giorno, in base a reali condizioni operative”.

Organizzato dal Centro Teatrale Santa Cristina (fondato dallo stesso Ronconi) finanziato dalla Regione dell’Umbria e dall’Unione Europea (con 112mila euro), il corso di altissimo perfezionamento è riservato a 30 giovani talenti, attori e registi, più cinque uditori, selezionati tra oltre 600 domande arrivate da tutta l’Italia . Qualcosa come 300 ore di esercitazione su testi moderni e contemporanei, da D’Annunzio ai classici shakespeariani, con lezioni di lingua e letteratura inglese.
Cosa cerca nel teatro, cosa le dà il teatro?
E’ come cercare se stessi – rivela Ronconi – Quello che ancora oggi mi muove e mi stimola è la curiosità. Nel teatro è insita una duplice vocazione: l’istinto della rappresentazione e la necessità di comunicazione, due forme espressive che possono mutare aspetto, stile, ma che non possono fare a meno l’una dell’altra. E dopo tanti anni, è naturale cercare di trasmettere quello che si è costruito, appreso, quello che si ha e si vive nel teatro”.
In questo percorso, quanto è importante il talento e quanto la tecnica?
Il talento da solo non basta, perché purtroppo è facile disperderlo: ho visto troppi talenti dilapidati nel tempo. La didattica resta un passaggio irrinunciabile”.
La didattica poi non è una novità per il maestro: “Iniziai a 36 anni alla Camera Filodrammatica – ci confida – quella di oggi la vedo come una naturale prosecuzione delle esperienze maturate: inutile apprendere senza poi condividere. Il teatro è un territorio, non una proprietà: non si può essere gelosi custodi di quello che si ha e che si ama. Ma la vera soddisfazione nasce dalla possibilità di trasmettere questo mondo, questa disciplina, che è il teatro, soprattutto ai più giovani”.
Il teatro come territorio. Una metafora emblematica per capire il rapporto intimo tra Ronconi e la sua “creatura”. Un senso di appartenenza che il maestro in parte trasferisce anche in questa porzione di Umbria, che da quasi trenta anni lo ha adottato.

Si sente un po’ umbro?
Non sono umbro, ma ho imparato ad amare questa terra e a viverla con rispetto: è facile sentirsi a casa propria in queste colline. Ed è facile essere contagiati da questa atmosfera: così come nelle tradizioni più radicate e sentite”.
C’è chi l’ha immortalato ad esempio, lo scorso 15 maggio, in mezzo a numerosi ceraioli, durante la Festa dei Ceri, la “folle” corsa con tre enormi macchine lignee, che ogni anno gli eugubini dedicano al proprio Patrono:
Una festa molto bella, una vera festa popolare, con una straordinaria partecipazione che sa coinvolgere tutti, gli eugubini ma anche i tanti forestieri che vi si avvicinano. A suo modo, un’esperienza unica che esprime emozioni non comuni”.
Proprio come sa regalare l’Umbria, che ha saputo accogliere un artista straordinario, che a sua volta ha idealmente voluto ricambiare: visto che la Scuola di perfezionamento per attori e registi è stata fortemente voluta in Umbria, nonostante il maestro abbia sempre importanti impegni professionali e legami con Milano per altri tre anni è alla Direzione del Piccolo Teatro e il 7 dicembre lo attende la prima de “L’Europa riconosciuta” di Salieri.
Un altro capolavoro firmato da Luca Ronconi: che in Umbria ha stabilito la sua dimora, ma che con questa terra, marginale ed espressiva, tranquilla ma intimamente energica, ha saputo entrare in simbiosi. Come quegli incontri che prima o poi devono avvenire.
Continuerà a vivere in Umbria? 
La risposta è semplice ma essenziale: “Qui sto meravigliosamente. Perché dovrei pensare di andare altrove?”.

GMA

Da "Il Sole 24 Ore - Centro Nord - cultura" - 29,7,2004