Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

sabato 28 settembre 2024

Clostebol, Wada, Tas, sono i veri avversari di Jannik. Con l'ombra inquietante di Schwazer e Pantani


Non avremmo mai immaginato di avere un tennista numero 1 al mondo
, capace di vincere 2 tornei Slam nello stesso anno, di trascinare gli Azzurri alla conquista della Davis dopo 47 anni. Ma se nei sogni di pochi forse albergava tutto questo, negli incubi di nessuno poteva palesarsi il nome del peggior avversario di Jannik Sinner.

Che non è l'ormai famoso clostebol, il farmaco da cui è risultato positivo lo scorso mese di marzo per due volte. Sostanza contenuta in una pomata che il suo fisioterapista aveva assunto prima di massaggiarlo e inevitabilmente trasmettere una porzioni infinitesimale di questo prodotto vietato agli sportivi. 

Il nemico peggiore di Sinner in questo momento non è Alcaraz, e neppur un possibile redivivo Djokovic. Ma si chiama Wada. Un organismo che abbiamo imparato a conoscere, tristemente, nella storia tormentata di un altro altoatesino, Alex Schwazer, il marciatore azzurro campione olimpico 2008 e squalificato per doping prima nel 2012 e quindi nel 2016, guarda caso sempre alla vigilia dei Giochi Olimpici. Nel secondo dei due casi, venne dimostrata la manipolazione delle urine comprovanti il presunto doping, ma la Wada tirò dritta e portò il caso davanti al Tas - proprio come oggi - che comminò una squalifica tombale sulla carriera di Schwazer. Non sarà stata una vita irreprensibile, la sua, con il coinvolgimento anche in fase giudiziale di un'altra altleta, la sua ex compagna Kostner, ma certo le istituzioni del mondo doping hanno messo lo zampino e la firma sul suo epitaffio sportivo.

E' la stessa Wada che - quando il caso sembrava chiuso - oggi impugna una pronuncia inequivocabile della ITIA (l'International Tennis Integrity Agency) tribunale indipendente, che aveva assolto Sinner in quanto "non aveva alcuna colpa o negligenza" per le due violazioni delle norme antidoping. Per la cronaca la quantità della sostanza rilevata era talmente infinitesimale che solo uno stolto da ricovero avrebbe fatto uso di questo prodotto in quelle quantità risibili per averne beneficio. Sinner lo ha spiegato, ha licenziato il fisioterapista che incautamente non ha indossato un banale paio di guanti sapendo che aveva "tra le mani" una pomata ad orologeria, e ha continuato a giocare (e vincere) quasi come nulla fosse. Quasi. Perchè oggi il caso si è sorprendentemente riaperto. Svelando un burrone davanti.

E' lo spettro della Wada. Che ha chiesto tra 1 e 2 anni di stop per il ragazzo di Sesto Val Pusteria. Gettando un'ombra di quelle pesanti anche sui suoi prossimi impegni tennistici: quelli individuali in Oriente e soprattutto Master a Torino e Davis a Malaga nel mese di novembre. E sì che il TAS (la Cassazione dello sport mondiale) non si degnerà di decidere nulla prima di Natale o forse addirittura a gennaio. Lasciando questa spada di Damocle sulla testa di Jannik. Destinato almeno in queste settimane, a giocare contro tre avversari contemporaneamente: quello dell'altra parte del campo, se stesso e soprattutto quello nascosto in un clima diffidente (da cui non sono estranei neppur alcuni suoi colleghi che in questi giorni hanno rilasciato dichiarazioni equivoche) contro il quale è condannato a confrontarsi. Siamo certi che sarà più forte di tutto questo. L'interrogativo resta appeso alla sentenza del TAS. 

Una eventuale e non auspicabile condanna non è da escludere. E sarebbe - diciamolo - un'ignominosa pagina destinata non a "dare l'esempio" (colpiscine uno per educarne 100, alla Mao) ma a delegittimare ancora di più della poca credibilità rimasta, il sistema giuridico intorno al fenomeno doping.

Una storia che lascia amaro in bocca, a prescindere. L'impressione è di un "film già visto". Non solo con Schwazer (che un precedente comunque lo portava sulle spalle) ma anche 26 anni fa, con Marco Pantani: un numero 1 assoluto, come lo è oggi Sinner, sulle due ruote di una bici. Vincitore di Giro e Tour e pronto a bissare con la maglia rosa. Scaraventato giù dall'Olimpo in una mattina di inizio giugno a Madonna di Campiglio, dove fu prevelato come un criminale (alla "Enzo Tortora" per capirci) davanti a telecamere e divise dei Carabinieri. Chiudendo in poche ore una carriera (e una vita) per vicende torbide e dai contorni ancora rimasti indefiniti, in cui si intrecciano presunte scommesse camorriste e alterazioni di provette. Sinner non farà "la fine di Pantani", perchè appare più solido e meno vulnerabile. Ma mai come nei prossimi mesi la sua carriera vacillerà. E questa - al netto della vicenda che già doveva essere chiusa e sepolta per evidente innocenza - è già una cocente sconfitta.



domenica 22 settembre 2024

Il mio "Diario bianconero": la "juventinità" di Tek e Conte. Quella di Cambiaso e Locatelli. E quella che ancora manca...

Prima e dopo Juventus-Napoli. Prima e dopo la partita più attesa di questo inizio stagione, due immagini simbolo di due personaggi a loro modo simbolo. 

Il primo è Tek Szczesny. Non a caso estremo difensore per 7 stagioni della squadra bianconera. Le prime condivise con un numero 1 "ingombrante" per chiunque aspiri a non fare panchina. Poi è salito in cattedra, con garbo e stile, dimostrando di essere un leader apparentemente silenzioso, ma mai banale quando prendeva la parola. In estate aveva dato la sua disponibilità ad uscire anzitempo di scena. Decisione non scontata in un calcio dove i contratti equivalgono a carta straccia, solo quando si tratta di rivederli al rialzo. Poi ha preferito appendere scarpini e ricordi bianconeri al chiodo, piuttosto che tuffarsi in avventure arabiche magari dai riscontri facoltosi ma capaci di azionare la stessa adrenalina di una gara di pesca. In due parole, un vero signore. L'applauso dello Stadium era doveroso: ed è diventata ovazione. Meritata ed esemplare, come la sua indiscussa juventinità.

L'ultima scena invece è un giro di campo. Plaudente e applaudito. L'omino che in completo scuro solca l'erba dello Stadium in senso perimetrale e alza le braccia verso i tifosi battendo loro le mani, è Antonio Conte. Per 13 anni è stato un polmone della Juventus, stantuffo e spesso anche finalizzatore. Con il bianconero ha vinto tutto. Per altri 3 ne è stato il nocchiero, il carismatico timoniere della rinascita, della prima Juve vincente dopo Calciopoli. Del record imbattuto e forse imbattibile. Poi se ne è andato. Malamente. Con una di quelle pagine scarabocchiate che possono macchiare anche il pedigree più nobile. Ma i colori sono rimasti quelli: il bianco e il nero. E quel giro di campo, anche coraggioso (perchè a Napoli, dove gli hanno chiesto inutilmente di saltellare sul solito coretto pieno di idiozia, dovrà tornare) forse ci dice, inconsciamente, non solo che la Juventus ce l'ha ancora lì. Ma che forse prima o poi tornerà. Perchè certi amori faranno pure giri immensi. Ma poi si ricongiungono.

Di fronte a cotanta juventinità, resta quasi difficile commentare la partita. Il terzo 0-0 di fila, che si "difende" solo con la porta ancora imbattuta dopo 450' di campionato. Quelli giocati dal 17 agosto. A memoria personale non ricordo 3 pari in bianco di fila così. Neanche nell'era trapattoniana. Forse l'ultima volta, chissà, c'era Heriberto Herrera in panchina. Fatto sta che la solidità difensiva da record europeo - che nel campionato italiano è quasi sempre sinonimo di leadership - non basta a stare davanti, se poi davanti non la butti mai dentro. Parlare di crisi è esagerato e prematuro, ma qualche riflessione va fatta. Su quel che funziona, un ritrovato Locatelli, un Cambiaso formato nazionale - unico giocatore che salta l'uomo e crea superiorità - un Bremer spaziale che annulla Lukaku.

E' quel che non gira, che comincia a perplimere. Su tutti l'appannamento totale di Vlahovic. Che litiga con il suo io interiore, un alter ego che sembra quasi divertirsi a paralizzarlo non appena anche il più banale degli stop gli finisce a tre metri. Lasciamo stare lo stipendio - argomento ormai inflazionato e che comunque gli resta addosso come la "spada di Damocle" - ma un tema è chiaro: l'attaccante centrale della Juventus non può perdersi nei suoi errori. Può sbagliare ma deve reagire. Deve dimostrare carisma. Deve dimostrare di meritare quella maglia. E deve farlo senza l'assillo del gol a ogni costo. Ma con la prestazione: prendendo esempio da Locatelli che è uscito dal tunnel con tutta la sua juventinità. 

L'altro engma è presunto ma acclarato: la quinta panchina su 6 gare ufficiali di Douglas Luiz, appesantita dagli 0 minuti giocati con il Napoli, fa imboccare alla vicenda la strada più problematica. Il "sesso e samba" sognato dai tifosi in estate potrebbe diventare un caso. Non è un caso invece l'ennesima svista arbitrale ai danni della Juventus: poca cosa? Il mancato calcio a due in area per il retropassaggio evidente di Olivera a Caprile, è uno di quegli episodi - calcio da fermo - che possono "stappare" una partita congelata. Nel dubbio, guarda caso, il fischio è sempre contro.

Un ultimo pensiero è per Thiago Motta. Qualcosa del suo lavoro si sta vedendo. Indubbiamente. Squadra con equilibrio, solidità e buona uscita palla a terra dalle linee arretrate. Resta però qualche perplessità, dalla cintola in su. E due aspetti in particolare. 

La gestione dei giocatori e della "zona Cesarini". Nella prima settimana da "3 gare" (come ce ne saranno tante) Nico Gonzales appena rientrato dall'Argentina, ne gioca 3 in 7 giorni. E nonostante il ko di Conceicao non mancano laterali. Nell'ultimo quarto d'ora col Napoli non ci si accorge più di lui, svanisce per manifesta carenza di ossigeno. Mentre Mbangula, ad esempio, vegeta in panchina in tutte le tre partite (e 10 minuti poteva averli). Non a caso è uno dei pochi ad aver creato quella scintilla che sblocca le partite chiuse (col Como) o quella che le mette in frigo (con il rigore procurato a Verona). Poi l'atteggiamento nel finale: vincere passa anche da episodi, da palle sporche, da area riempita di colpitori di testa, o di azioni di calcio da fermo a ridosso dell'area. Quanto ha fatto la Juve per procurarsi situazioni favorevoli con Empoli, Roma e Napoli? Nessuna. E le decisioni dalla panchina non hanno illuminato. Nella terza di tre gare in una settimana, appena 2 sostituzioni. Non che in panchina ci fosse la "soluzione" per antonomasia. Ma ad esempio, un Gatti attaccante aggiunto nei minuti di recupero poteva far comodo (l'anno scorso decise in più occasioni). 

Qualcuno dirà, "guardi il pelo nell'uovo". Al momento, l'uovo è un po' sodo. E l'omelette olandese del martedì di Champions è già in archivio. Siamo la Juventus. Tek e anche Conte ce lo hanno ricordato.

mercoledì 18 settembre 2024

Il mio "diario bianconero": Quanto ci era macata. La Champions. E soprattutto questa Juve in Champions. Con una splendida "imitazione d'autore"...

Quanto ci era mancata. Ma anche quanto era mancata la Juventus a questa competizione. La Champions torna allo Stadium e la Juve torna a fare la Juve. Dopo i 90' apatici e preoccupanti di Empoli - che a distanza di mesi mi hanno costretto ad "abbandonare" la partita all'80' in preda allo sconforto più totale - la massima competizione europea, nella nuova formula da "Superlega taroccata" (con monsieur Ceferin pronto a tutto e al suo contrario pur di non perdere le chiavi del "giocattolo") restituisce sorriso, buonumore, gol e fiducia. Peccato per il gol finale incassato con mezza squadra mentalmente con il Badedas in mano, sarebbe stata la quinta partita su 5 senza subire reti. Con un PSV che non è il Real ma neanche il Como.

Tre gol, tre storie da raccontare, più una quarta di chi il gol non lo trova più (soprattutto quando si incaponisce).

I primi 20' non sono dissimili dal "piattume" avvilente visto con Roma ed Empoli. Squadra sotto ritmo, poco intraprendente, PSV più in gamba e a tratti perfino insidioso. Fino a quando Kenan Yldiz decide di salire in cattedra con la più classica delle imitazioni "d'autore": affondo a sinistra, palla accarezzata sul destro, finta di corpo a suggerire al difensore un'azione laterale, e invece sempre col destro colpo da biliardo a baciare (anzi, schiaffeggiare) l'incrocio interno per arrotondarsi in rete. Un boato liberatorio, quello scatenato dal numero 10 più precoce della storia bianconera: il suo è il gol più giovane in Coppa Campioni, battuto il record di Alex Del Piero (autore di una parabola simile, a Dortmund, all'inizio di una stagione che avrebbe regalato la Coppa). Si sprecano le comparazioni. Inutile fare paragoni. Ancora è presto. Kenan per ora ha superato anagraficamente la prima prodezza del Capitano. La strada è imboccata. C'è solo da fare il tifo per lui. Senza caricarlo troppo (per volergli davvero bene).

A breve arriva il raddoppio: azione caparbia di Nico Gonzales, palla in mezzo, Vlahovic non si capisce se la tocchi o la sbucci, mette tutti d'accordo Mc Kennie che la infila di giustezza. Lui che doveva andarsene per il secondo anno di fila. Lui che rifiuta la Champions con l'Aston Villa, fa dannare Giuntoli per trovare una contropartita all'operazione Douglas Luiz, e alla fine per il secondo anno di fila prenota un posto da titolare. O quanto meno da titolare meno sporadico delle attese.

Ripresa e stavolta è Vlahovic a vestirsi da uomo assist. L'apertura è ariosa per Nico Gonzales che penetra da solo e infila con freddezza il povero portiere olandese. Che 3 gol li avevi presi in 5 giornate nel suo modesto campionato. Eppure il PSV aveva sempre vinto. Incuteva una qualche prudenza. E per 20' aveva pure messo apprensione. Invece il 3-0 è fotografia limpida, perchè oltre ai gol ci sono le occasioni del primo tempo e della ripresa, c'è un dinamico Koopmeiners sempre più protagonista sulla trequarti, un gigantesco Locatelli finalmente padrone del ruolo, mentre dietro non si corrono rischi: Gatti e Bremer sono due corazzieri del Quirinale, Cambiaso te lo ritrovi ovunque, come la sabbia nelle scarpe la domenica, e Kalulu timbra ancora con la puntualità di un ferroviere di Berlino.

Chi manca all'appello? E' la quarta storia di questo nuovo esordio europeo. E porta il nome di Dusan Vlahovic. Ha un gol sulla coscienza ad Empoli, lanciato a rete in modo sontuoso da Nico. Contro gli olandesi della ripresa, quasi allo sbando nelle azioni di rimessa bianconere, potrebbe andare in gol anche un attaccante di Lega pro. Lui riesce a non riuscirci. Litiga col pallone, con il basso ventre del portiere avversario, con il campo, con la dea bendata. Con tutti, e soprattutto con se stesso, con cui non riesce a far pace quando passa 90' a controllare palla a 20 metri o a incocciare con le gambe dei difensori. Dusan sta diventando un problema. Oggi fa arrabbiare, tra due mesi, se sarà ancora così, dovrà preoccupare. Noi ma soprattutto Giuntoli (ed Elkann). Resto convinto che l'errore primordiale sia suo. Non aver spalmato il faraonico stipendio elargito a suo tempo da un management scriteriato, è una Spada di Damocle che gli pende in testa ogni 90'. Per togliersela di mezzo dovrebbe segnare più o meno con la media di Halland. Non lo farà. Almeno per ora non è in grado di farlo. E allora il buon senso dovrebbe prevalere. Ma preferisce andarsene a 100 km/h contro un muro. Dybala, Chiesa e Rabiot non hanno evidentemente insegnato.

Per una volta lasciamo stare le ombre: i gol divorati (che speriamo di non ricercare a fine girone dove la differenza reti potrebbe contare), il gol subìto, qualche giocatore rimasto in campo forse anche troppo (come Gatti, ripensando al Napoli sabato prossimo), altri che continuano a zoppicare (Douglas Luiz). Guardiamo alle luci. Quelle citate e qualche altra. Come Danilo. Bello rivederlo in campo, ancor più bello rivederlo reattivo nei recuperi difensivi. La Juve che gioca su 5 fronti non potrà fare a meno di lui. Lo sa bene Thiago Motta. Che poi è il vero artefice di questa sceneggiatura.

giovedì 12 settembre 2024

La Festa dei Ceri e il terremoto: con il compianto Sanio Panfili il ricordo di quel coraggio di 40 anni fa... - da "Il Bollettino" del Centro Documentazione Festa dei Ceri settembre 2024

Era una domenica mattina di fine aprile, il 29 aprile. Esattamente 40 anni fa: ore 7.03. Gubbio si apprestava a svegliarsi per vivere una normalissima giornata di inizio primavera, preludio di un lungo periodo di festa. Era domenica di cresime (alla parrocchia di S.Agostino), chi l'avrebbe invece trascorsa magari con una passeggiata a S.Ubaldo o al parco di Coppo. Chi semplicemente con una “vasca” sul Corso, che ancor di quei tempi era fulcro di ritrovo per i più giovani, soprattutto con il mese di maggio alle porte.

Nulla di tutto questo. Le 7.03 di quella mattina sconvolsero ogni programma, abitudine, routine. Perché in quell'istante la terra tornò a tremare, e lo fece pesantemente: epicentro a sud della città, in località Monturbino (nei pressi di Santa Cristina) tra i comuni di Gubbio e Perugia. Non si seppe la sala Richter di quella scossa – e dello sciame comunque pesante che ne seguì per molti giorni – perché allora il parametro di rilevazione era la “Scala Mercalli” (basato sulle conseguenze delle scosse e non sulla loro intensità scientifica): risultato, 8 gradi, in prossimità delle dimensioni più drammatiche. 

In pochi istanti molte famiglie si ritrovarono fuori casa, soprattutto nelle frazioni vicine all'epicentro (Belvedere e Scritto) ma anche della pianura eugubina, molte abitazioni presentarono evidenti danni. Fortunatamente senza vittime, senza crolli epocali. Ma si mise in moto una macchina organizzativa e dei soccorsi che fu tra le prime – dopo il terribile e sciagurato sisma in Irpinia – a sperimentare un innovativo sistema che l'allora ministro Zamberletti aveva fortemente voluto (sollecitato anche dal Presidente della Repubblica Pertini, scioccato dalla disorganizzazione delle operazioni in Campania di pochi anni prima): la Protezione civile. Fu allestita una tendopoli al campo sportivo San Benedetto, la città fu disseminata di roulotte dove trovarono ospitalità per diverso tempo le famiglie, spesso ubicandole accanto alle abitazioni rese inagibili dalle crepe visibili anche all'esterno. Fu anche la prima volta in cui l'informazione di una calamità fu seguita praticamente in diretta dalla popolazione eugubina, grazie ai servizi h24 di Radio Gubbio, l'emittente radiofonica nata appena 7 anni prima, ma che non aveva mai dovuto assolvere fino a quel momento ad un compito così importante e vitale, che non andasse oltre la dedica di una canzone o un quiz mattutino.

Il Sindaco di Gubbio dal 1975 era l'ing. Sanio Panfili, figura di spicco dell'allora PCI eugubino, che negli anni a seguire avrebbe maturato importanti esperienze anche in Provincia e in Regione (dove fu presidente dell'assise di Palazzo Cesaroni). Fu lui, ad appena 1 anno dalla fine del suo mandato, a dover gestire la difficile fase di emergenza (mentre la ricostruzione sarà guidata dal nuovo sindaco che gli subentrò un anno dopo, Paolo Barboni). Ma fu soprattutto Sanio Panfili – che in questa occasione vogliamo ricordare a quasi 2 anni dalla scomparsa (è morto il 9 gennaio 2023) – a prendere la decisione tutt'altro che scontata e pacifica, di organizzare la Festa dei Ceri 1984: quella festa che si sarebbe svolta ad appena 17 giorni dalla prima scossa sismica che sconvolse la città

Con Sanio Panfili ho parlato in un'occasione particolare di tutto questo: era il maggio 2009, nel corso delle puntate de “L'Attesa” (la fortunata trasmissione di TRG nata nel 2002 e dedicata alla lunga vigilia della Festa dei Ceri) lo contattai per ricordare con un'intervista quei fatti, sull'onda emotiva di un altro terremoto, molto più tragico in fatto di vittime, accaduto 1 mese prima (aprile 2009) a L'Aquila. C'era anche un sottile filo conduttore che univa le due città, oltre al destino del sisma. Era infatti di L'Aquila quel Giovan Battista Donati che nel 1869 fuse il Campanone che dal 30 ottobre di quell'anno troneggia sulla torretta di Palazzo dei Consoli. Un protagonista a suo modo anche di quanto avviene nel 1984, un protagonista tutt'altro che irrilevante. E così incontrai Sanio Panfili proprio a Piazza Grande, di fronte alla Residenza Comunale ma anche nel luogo che aveva maggiormente catalizzato emozioni e preoccupazioni in quei 17 giorni del 1984 in cui decidere cosa fare. Insieme a lui anche Loris Ghigi, storico campanaro, e nel periodo del sisma dipendente comunale.

In quella domenica di fine aprile, che ricordo anche piuttosto fredda, tutto aveva in testa meno che i Ceri – ha esordito Sanio Panfili nell'intervista – Gubbio aveva avuto altri terremoti in anni recenti, l'ultimo nel 1982, ma mai di quella intensità e gravità delle conseguenze. Eravamo in emergenza, la situazione di pericolo e paura era diffusa, ci arrivavano notizie di casi danneggiati nelle frazioni, incomiciammo subito a fare i conti con la necessità di sistemare famiglie, anche se in quantità minori rispetto a emergenze di anni successivi. Ma in quel momento tutto appariva molto grave, la situazione più grave che ci eravamo trovati ad affrontare sia come Giunta che come comunità cittadina. C'erano urgenze logistiche immediate (allestimento di tende, roulotte al campo vecchio, per le famiglie rimaste senza casa o con abitazioni lesionate), un quadro che faceva sentire lontano e quasi secondario il problema di cosa fare il 15 maggio”.

Ma bastarono giorni: “Il problema sorse nei giorni successivi – spiega Panfili – Intanto per la prima domenica di maggio, il 6. Poi soprattutto per il 15. Non potevamo far finta di niente, non potevamo neanche sottovalutare i pochi rischi a cui saremmo andati incontro. Anche perché lo sciame sismico successivo a quel 29 aprile durò diversi giorni. E nulla poteva escludere che il terremoto sarebbe proseguito anche a maggio”.

E allora?

Ragionammo con Giunta, Prefetto, Vigili del Fuoco sul da farsi, ne parliamo anche con il ministro Zamberletti della neonata Protezione civile. Posi un problema: c'erano dei rischi ma c'era anche uno stato di tensione che poteva essere superato solo pensando ad altro. I Ceri erano l'occasione per ridare fiducia alla città e un'immagine immediata di ripresa e reazione da parte della comunità. Quel problema si è rivelato nel giro di poche ore una priorità. Ma questo era facile a dirsi e meno facile a realizzarsi. Far capire a chi non era di Gubbio – a partire dai referenti istituzionali di Roma ma anche di Perugia - che i Ceri non si erano mai fermati, se non per la guerra, e che non potevamo assumerci le responsabilità di interrompere la tradizione, non era così semplice ”.

E quindi? “Pensai che non fare i Ceri avrebbe creato molti più problemi di quelli che si evitavano senza la Festa. C'era il rischio dell'assembramento, non tanto dei crolli. Ma cosa sarebbe successo se avessimo detto agli Eugubini: per quest'anno ha vinto il terremoto, la Festa non si farà. Non era possibile e soprattutto sarebbe stata una sconfitta per tutti. Decisi di andare avanti: dovevamo dare un segnale che questa città sapeva rialzarsi subito”.

E così si mise in moto una seconda macchina organizzativa, immediata e parallela a quella degli aiuti alle famiglie sfollate: “Fu messa in piedi una ministruttura di emergenza, con tecnici Prociv, professionisti privati, Vigili del Fuoco, per capire i problemi che ci sarebbero stati nello svolgere la festa – racconta ancora Panfili - responsabile di questa sorta di task force fu l'ing. Giuseppe Tosti, che coordinò un certosino lavoro di verifiche sulla Piazza, nelle volte sotto la Piazza, sul murello di Piazza Grande, furono controllate le pietre sporgenti, i tetti più incerti. Ovviamente furono fatti controlli approfonditi dentro Palazzo dei Consoli, e dove possibile in tempo record, furono approntati alcuni rafforzamenti. Tra gli obiettivi di verifica, furono controllati anche tutti i cornicioni degli edifici lungo il percorso dei Ceri. Ovviamente nei giorni antecedenti la Festa fu fatto un invito a non sovraffollare la piazza, con i mezzi informativi a disposizione (Radio Gubbio e quotidiani, da un anno era in edicola il Corriere dell'Umbria). Organizzammo riunioni con le Famiglie ceraiole, per sensibilizzare sulle difficoltà ma anche sull'importanza che si facesse la Festa. E molto dipendeva dal senso di responsabilità di ogni ceraiolo. Fu un momento di grande partecipazione in un periodo di grande emergenza e difficoltà: i Ceri aiutarono a superare l'emergenza.

Eravamo tutti coscienti che il problema non era tanto e solo delle strutture in sé, ma soprattutto era il rischio del panico che si sarebbe potuto scatenare in momenti particolari, come l'alzata. Ci fu molto coraggio, tanta organizzazione, molto senso di appartenenza (senza il quale questa “macchina” parallela non avrebbe funzionato) e anche un pizzico di incoscienza, diciamo calcolata. Per fortuna l'unico terremoto che sentimmo il 15 maggio 1984 fu quello emozionale”.

Raccontarlo oggi può sembrare semplice, ma furono davvero giorni complicati e carichi di preoccupazione. Nessuno immaginava neanche lontanamente che la Festa dei Ceri non si sarebbe svolta. Ma non si potevano sottostimare i rischi. E allora chiesi all'ing. Panfili: ma la sera del 14 maggio o durante la giornata del 15, si è mai chiesto “chi me lo ha fatto fare?

Sono stato abbastanza sereno. L'unico momento difficile è stato intorno alle 21 del 14 sera. eravamo consentiti alle Famiglie ceraiole di utilizzare le taverne, limitando l'accesso, le avevamo controllate nei giorni precedenti per quel che si poteva allora (non c'erano uscite di sicurezza, né i tanti sistemi di precauzione oggi in vigore) – e la sera della vigilia ci fu una piccola scossa, non grave ma avvertibile. Qualche preoccupazione ce la diede, ma andammo avanti. Molti non se ne accorsero continuando a festeggiare, e arriviamo al 15 maggio senza intoppi. La giornata poi scorse via tranquilla, l'unico problema fu il meteo, in Piazza Grande c'era meno gente degli altri anni ma la cornice fu sempre straordinaria. E arrivammo a sera felici tirando tutti un sospiro di sollievo, con un senso di appagamento ancora maggiore per quella Festa che ci aveva restituito una giornata di vita. Non ho mai avuto ripensamenti – confida Sanio Panfili - ero convinto che fosse fatta la Festa. E tornando indietro lo rifarei. Assolutamente”.

Infine una riflessione a posteriori in quel 1984: “ Quando pochi giorni dopo ci rivedemmo con il ministro Zamberletti, concordammo sul fatto che la Festa era stata la vera medicina per sanare la depressione di un'intera comunità, colpita dal sisma. Sarebbe stato più deleterio non farla. E proprio i Ceri ci aiutarono a ricostruire la fiducia nel futuro ”.

Ascoltare queste parole 15 anni dopo (l'intervista è del 2009) e ripensare a quanto avvenuto in quel 1984 che già a livello letterario evocava orwelliani destini di calamità, fa riflettere e non poco, su quanto accaduto poi tra il 2020 e il 2021. Quando un'altra calamità, il Covid, stavolta avrebbe avuto la meglio sulla Festa. Aggiungendo per altro l'inquilino ciclico (il terremoto) tornato a bussare proprio la mattina del 15 maggio 2021, intorno alle 10. Chissà se senza la pandemia, in quella mattinata, con i nuovi sistemi di protezione, cautela, sicurezza e security, l 'alzata l'avremmo vista comunque.

Un'ultima curiosità di quell'intervista a Sanio Panfili realizzata per “L'Attesa” la lasciò nei ricordi Loris Ghigi, con il Campanone a fare da protagonista. Perché fu proprio la “voce” del Campanone a 48 ore dal sisma, a ridestare la città dall'angoscia di quelle prime ore.

Fu la vera svolta, il 1 maggio – ricorda Ghigi insieme a Panfili - quando gli eugubini sentirono suonare il Campanone. Erano passate 48 ore dalla scossa più grande. Il messaggio era chiaro: Gubbio era ancora viva e forte. Decidemmo di salire sulla torretta il giorno dopo la scossa – ricorda ancora Loris Ghigi - e con Vittorio Baldelli il 30 aprile salimmo sulla torretta: il nostro fu un sopralluogo poco tecnico e molto pragmatico, per vedere come era la situazione. Non c'erano lesioni, nulla faceva pensare che la struttura aveva risentito. E anche sulla torretta non c'erano segni di danni. Insomma il Palazzo dei Consoli, che di terremoti ne aveva superati già tanti, aveva passato anche questa: decidemmo per una “sonata corta”. Ma salimmo il 1 maggio per rinnovare il nostro rito. Ricordo che nei giorni seguenti seppi che Callisto Ricci riuscendo a prendere la linea telefonica per chiamare la figlia in Francia e farle sapere come andava, si collegò proprio a mezzogiorno e le fece: “ Senti. Suona il Campanone. Siamo vivi! ”.


lunedì 9 settembre 2024

L'Italia ritrovata. Con un CT che ha cambiato giacca... e personalità

Devo ricredermi. Lo auspicavo ma sinceramente lo speravo. Anche perchè dopo 15 secondi venerdì scorso ero già ad imprecare contro Di Lorenzo e Spalletti. 

L'Italia si è ritrovata. E soprattutto l'Italia del Parco dei Principi ha riacceso sopiti entusiasmi, sciorinando una delle prestazioni migliori dell'ultimo decennio. Paragonabile alle poche sortite esaltanti dell'Europeo 2021. Chè poi questo decennio ha riservato soprattutto maledizioni: per la squadra in campo e per i tifosi in tribuna e dalla poltrona.

Così non è stato in queste prime due apparizioni di Nation League. Una competizione che ancora fa chiedere a qualche attempato telespettatore (seduto al mio fianco) "ma che sarebbe sta Nescion lig?", una rassegna che ha sostituito le inutili amichevoli autunnali o primaverili, modificando il calendario delle qualificazioni senza esasperare il logorio stagionale dei giocatori. Ben più invasivo si rivelerà tra qualche mese il Mondiale per club tra giugno e luglio, che scombussolerà la preparazione di tante squadre e influirà negativamente sulla stagione successiva che porta al Mondiale vero.

L'Italia di Spalletti si è ritrovata ma il primo a farlo è stato proprio il CT. Confesso che dal 29 giugno ho ripetutamente invocato le sue dimissioni (non meno di quelle del presidente federale, auspicio quest'ultimo tutt'ora valido). E' vero che aveva pochi mesi di rodaggio, che un paio di chance si danno a tutti, che in campo ci vanno i giocatori: ma la sensazione di impotenza (della squadra) e soprattutto di supponenza (del CT) palesate in Germania per questo mortificante Europeo aveva pochi precedenti. Pensavamo di aver toccato il fondo nel 2010 uscendo ai Mondiali al primo turno in un girone "difficilissimo" con Paraguay, Slovacchia e Nuova Zelanda. Non immaginavamo che per due volte di fila quel girone preliminare non lo avremmo neppure raggiunto. Nonostante tutto questo, Euro 24 mi è davvero andato di traverso.

L'Italia di questi 4 giorni invece è una boccata d'ossigeno dolomitica, dopo i miasmi di giugno. Due boccate rigeneranti, la prima dirompente con la Francia - n.2 del ranking mondiale, se a qualcosa serve - la seconda sostanziale con Israele. Che sarà meno tecnico dei galletti ma correva a velocità doppia. La chiave di svolta è stato il CT: che ha messo da parte ego e giacche inguardabili, e umilmente ha capito di dover fare il CT e non l'allenatore, di dover riporre almeno in questa fase i suoi "credo" filosofici, di anteporre l'interesse della squadra alla volontà egocentrica di "lasciare il segno". Anche perchè il primo, di segni lasciati, non è di quelli memorabili.

E allora difesa a tre, giocatori nei ruoli ricoperti nelle proprie squadre, qualche scommessa ragionata (Tonali) e qualche altra sorprendente (Ricci), un Frattesi che si conferma di statura internazionale (con buona pace della panchina che lo attende ad Appiano), molta qualità sulle corsie laterali (con una condizione fisica rinfrescata) e in attacco quel che passa il convento del calcio italico (al netto dell'unica vera punta centrale al momento schierabile, Scamacca, che rivedremo a primavera). Morale: si è rivista una squadra, un gruppo, capace di sostenere un gioco lineare, di aggredire per riprendere palla, di aiutarsi nei momenti difficili. Eccellente la personalità mostrata in Francia davanti ad una nazionale un po' presuntuosa e autoreferenziale. Sebbene condita da tante individualità che il nostro campionato sfoggia o brama. L'erba del vicino non sempre è più verde.

Due parole finali sugli juventini presenti e non. Molto bene Cambiaso; solido anche se un po' più nervoso che in bianconero, Gatti. Fagioli così così. Resto perplesso della mancata convocazione del miglior Locatelli visto finora alla Juve. Mi compiaccio del ritrovato gol di un ex come Moise Kean che secondo me quest'anno potrà esprimersi al meglio in una piazza che non lo considera terza o quarta scelta. Aspettando i Camarda, per l'attacco azzurro, per ora può bastare.

domenica 8 settembre 2024

Nasce l'era di Javier Faroni alla guida del Perugia: è il primo Presidente straniero nei 119 anni del Grifo


E' un 7 settembre 2024 che passerà agli annali della storia del Perugia calcio

Dopo 13 anni Massimiliano Santopadre lascia la guida della società e cede il 100'% delle quote ad un gruppo imprenditoriale guidato dall'argentino Javier Faroni. Un epilogo che appena 1 mese fa sembrava improbabile, che ha vissuto sulle montagne russe negli ultimi mesi - con ipotesi di cordate anche locali che però sono sfumate - ed è decollato dopo una fase interlocutoria sottobosco, nel mese di agosto. 


Una svolta che ha restituito ottimismo ed entusiasmo ad un ambiente nel quale ormai il rapporto tra Santopadre e la piazza era logorato da tempo, nonostante sul piano dei risultati, sportivi e finanziari, l'imprenditore romano ha garantito continuità e soprattutto sostenibilità economica. In tempi in cui anche società più blasonate e altolocate sono precipitate nell'anonimato dei dilettanti o sono state salvate con numeri negativi i cui zeri sfiorano il numero degli scudetti. 


Cosa potrà fare ora Faroni e dove potrà arrivare il Perugia non si può dire, perchè il calcio non è una scienza esatta, perchè se investi e spendi non è detto che il campo ti dia ragione, perchè le categorie, a cominciare dalla serie C, hanno tutte una loro complessità e richiedono tempo per poterle calcare da protagonisti. Di sicuro la svolta era necessaria, per un ambiente ormai intossicato dall'incomunicabilità tra vertice societario e tifoseria che nel bene o nel male finiva per riflettersi anche sui risultati della squadra. 

Vedremo se l'effetto Faroni si farà sentire subito: se ci saranno cambiamenti immediati o, come auspicabile con buon senso e prudenza, se l'ingresso sarà graduale e la stagione - che pur di risultati potrebbe produrne - sarà di assestamento. Intanto vanno agli archivi le foto della firma, le prime parole di Santopadre in attesa della prima conferenza stampa di Faroni, che debutta sulle tribune di Carpi da neo presidente. 


In quasi 120 anni di storia, da Romeo Gallenga Stuart, passando per Lino Spagnoli, Franco D'Attoma, Spartaco Ghini e Luciano Gaucci, fino a Massimiliano Santopadre, le redini vanno al primo presidente straniero della storia del Grifo. Un altro segno dei tempi.




lunedì 2 settembre 2024

Il mio "Diario bianconero": dopo il primo pari, teniamoci stretta la casella zero. Farà comodo...


Prima o poi doveva accadere. Non tanto (e non solo) di pareggiare, ma anche di imbroccare una prestazione sotto tono. E lo 0-0 casalingo con la Roma di De Rossi è una di quelle pietanze che ti arriva a tavola, la guardi, impiattata quasi per dispetto, la assaggi e la mandi giù solo perchè poi ti arriverà il conto. Se non indigesta, certamente sgradevole.

Più che il pareggio - che consente all'Inter, oltre che ai sorprendenti Torino e Udinese di agganciare i bianconeri a quota 7 - è proprio la prestazione che segna un passo indietro. Poco efficace nel primo tempo quando la squadra di Motta non trova il guizzo per sbloccarla, un po' confusionaria anche se più insistente nella ripresa, quando la girandola di sostituzioni (con tutti i nuovi arrivi mandati in campo) accresce l'asticella delle aspettative ma non il numero di occasioni. A fine partita 1 solo tiro nello specchio della porta, statistica che mancava allo Stadium praticamente dalla sua inaugurazione.


Che è successo? La Roma è così più forte e solida di Como e Verona? Nel calcio non vale la legge della proporzionalità (il Verona che ha strapazzato il Napoli, è uscito annichilito dalla Juve ma poi è andato a prendere 3 punti a Genova con i rossoblù, dove ad esempio l'Inter era stata stoppata), vale come affronti un avversario, come sta il tuo avversario, e valgono anche gli episodi. Alla Juve di ieri sera è mancato l'episodio favorevole ma anche la cattiveria giusta per andarselo a cercare. A tratti leziosa, a tratti impaziente, ha sbattuto con il muro giallorosso che De Rossi aveva costruito bene andando a stanare le fonti di gioco bianconere. Il resto lo hanno fatto la poca lucidità davanti (Vlahovic in cattiva serata) e la mancanza di "mestiere": quella malizia con cui vai a bussare alla fortuna anche nelle partita meno favorevoli, dove l'inerzia non è dalla tua parte e il vento manca. Un tiro da lontano, una mischia, un pallone in area nei minuti finali (magari con Gatti a fare da punta aggiuntiva sulle palle alte). Niente.

Nessun dramma. Il bicchiere resta mezzo pieno anche dopo questo 0-0, nel quale guardando i singoli non si possono dare giudizi (che sarebbero fin troppo affrettati). Conceicao sicuramente il più vivace e propositivo, Koopmeiners si è preso subito la zona nevralgica alle spalle delle punte ma ancora dista dalla forma migliore, Nico non ha fatto in tempo a entrare in gara (ma quando lo ha fatto la Juve stranamente si è abbassata, rischiando qualcosa). Douglas Luiz al momento resta un enigma: sia perchè Motta continua a preferirgli Locatelli (e fa bene per ora), sia perchè quando entra sembra più interessato alla giocata da applauso estemporaneo che a guidare la squadra. "Sesso e samba" per ora possono aspettare.

Teniamoci stretto un dato: il numero zero. Sono i gol subiti dopo 270' ma anche i tiri subiti nello specchio di Di Gregorio in 3 partite. La difesa appare granitica con un Bremer che si conferma di caratura mondiale e un Gatti al quale la fascia da capitano ha dato responsabilità e maturità: niente più entrate scomposte, reazioni istintive, battibecchi immotivati. Chiellineggia, avevo scritto 1 settimana fa, e anche con la Roma è stato il migliore in campo per distacco.


Ora c'è la sosta e forse arriva opportuna. Per consentire ai nuovi di ambientarsi (anche perchè non sono stati convocati dalle rispettive Nazionali), per far crescere anche il gruppo, per far riflettere qualche individualità su come reagire a partite che sembrano mettersi nel verso sbagliato. Parlo di Vlahovic: che ha iniziato benissimo (2 gol, uno perfino su rigore, 2 pali e 1 rete annullata nei primi 180') ma si è smarrito quando ha trovato la prima zolla impantanata. Sbagliando anche gli assist più invitanti (come quello che avrebbe messo a tu per tu Conceicao col portiere). Deve crescere su questo profilo Dusan. 


E magari deve decidersi a spalmare lo stipendio: che resterà una spada di Damocle in testa, costringendolo praticamente ad ogni gara ad essere il migliore in campo, bersaglio potenziale dei fischi dei tifosi. Ne vale davvero la pena?