Prima e dopo Juventus-Napoli. Prima e dopo la partita più attesa di questo inizio stagione, due immagini simbolo di due personaggi a loro modo simbolo.
Il primo è Tek Szczesny. Non a caso estremo difensore per 7 stagioni della squadra bianconera. Le prime condivise con un numero 1 "ingombrante" per chiunque aspiri a non fare panchina. Poi è salito in cattedra, con garbo e stile, dimostrando di essere un leader apparentemente silenzioso, ma mai banale quando prendeva la parola. In estate aveva dato la sua disponibilità ad uscire anzitempo di scena. Decisione non scontata in un calcio dove i contratti equivalgono a carta straccia, solo quando si tratta di rivederli al rialzo. Poi ha preferito appendere scarpini e ricordi bianconeri al chiodo, piuttosto che tuffarsi in avventure arabiche magari dai riscontri facoltosi ma capaci di azionare la stessa adrenalina di una gara di pesca. In due parole, un vero signore. L'applauso dello Stadium era doveroso: ed è diventata ovazione. Meritata ed esemplare, come la sua indiscussa juventinità.
L'ultima scena invece è un giro di campo. Plaudente e applaudito. L'omino che in completo scuro solca l'erba dello Stadium in senso perimetrale e alza le braccia verso i tifosi battendo loro le mani, è Antonio Conte. Per 13 anni è stato un polmone della Juventus, stantuffo e spesso anche finalizzatore. Con il bianconero ha vinto tutto. Per altri 3 ne è stato il nocchiero, il carismatico timoniere della rinascita, della prima Juve vincente dopo Calciopoli. Del record imbattuto e forse imbattibile. Poi se ne è andato. Malamente. Con una di quelle pagine scarabocchiate che possono macchiare anche il pedigree più nobile. Ma i colori sono rimasti quelli: il bianco e il nero. E quel giro di campo, anche coraggioso (perchè a Napoli, dove gli hanno chiesto inutilmente di saltellare sul solito coretto pieno di idiozia, dovrà tornare) forse ci dice, inconsciamente, non solo che la Juventus ce l'ha ancora lì. Ma che forse prima o poi tornerà. Perchè certi amori faranno pure giri immensi. Ma poi si ricongiungono.
Di fronte a cotanta juventinità, resta quasi difficile commentare la partita. Il terzo 0-0 di fila, che si "difende" solo con la porta ancora imbattuta dopo 450' di campionato. Quelli giocati dal 17 agosto. A memoria personale non ricordo 3 pari in bianco di fila così. Neanche nell'era trapattoniana. Forse l'ultima volta, chissà, c'era Heriberto Herrera in panchina. Fatto sta che la solidità difensiva da record europeo - che nel campionato italiano è quasi sempre sinonimo di leadership - non basta a stare davanti, se poi davanti non la butti mai dentro. Parlare di crisi è esagerato e prematuro, ma qualche riflessione va fatta. Su quel che funziona, un ritrovato Locatelli, un Cambiaso formato nazionale - unico giocatore che salta l'uomo e crea superiorità - un Bremer spaziale che annulla Lukaku.
E' quel che non gira, che comincia a perplimere. Su tutti l'appannamento totale di Vlahovic. Che litiga con il suo io interiore, un alter ego che sembra quasi divertirsi a paralizzarlo non appena anche il più banale degli stop gli finisce a tre metri. Lasciamo stare lo stipendio - argomento ormai inflazionato e che comunque gli resta addosso come la "spada di Damocle" - ma un tema è chiaro: l'attaccante centrale della Juventus non può perdersi nei suoi errori. Può sbagliare ma deve reagire. Deve dimostrare carisma. Deve dimostrare di meritare quella maglia. E deve farlo senza l'assillo del gol a ogni costo. Ma con la prestazione: prendendo esempio da Locatelli che è uscito dal tunnel con tutta la sua juventinità.
L'altro engma è presunto ma acclarato: la quinta panchina su 6 gare ufficiali di Douglas Luiz, appesantita dagli 0 minuti giocati con il Napoli, fa imboccare alla vicenda la strada più problematica. Il "sesso e samba" sognato dai tifosi in estate potrebbe diventare un caso. Non è un caso invece l'ennesima svista arbitrale ai danni della Juventus: poca cosa? Il mancato calcio a due in area per il retropassaggio evidente di Olivera a Caprile, è uno di quegli episodi - calcio da fermo - che possono "stappare" una partita congelata. Nel dubbio, guarda caso, il fischio è sempre contro.
Un ultimo pensiero è per Thiago Motta. Qualcosa del suo lavoro si sta vedendo. Indubbiamente. Squadra con equilibrio, solidità e buona uscita palla a terra dalle linee arretrate. Resta però qualche perplessità, dalla cintola in su. E due aspetti in particolare.
La gestione dei giocatori e della "zona Cesarini". Nella prima settimana da "3 gare" (come ce ne saranno tante) Nico Gonzales appena rientrato dall'Argentina, ne gioca 3 in 7 giorni. E nonostante il ko di Conceicao non mancano laterali. Nell'ultimo quarto d'ora col Napoli non ci si accorge più di lui, svanisce per manifesta carenza di ossigeno. Mentre Mbangula, ad esempio, vegeta in panchina in tutte le tre partite (e 10 minuti poteva averli). Non a caso è uno dei pochi ad aver creato quella scintilla che sblocca le partite chiuse (col Como) o quella che le mette in frigo (con il rigore procurato a Verona). Poi l'atteggiamento nel finale: vincere passa anche da episodi, da palle sporche, da area riempita di colpitori di testa, o di azioni di calcio da fermo a ridosso dell'area. Quanto ha fatto la Juve per procurarsi situazioni favorevoli con Empoli, Roma e Napoli? Nessuna. E le decisioni dalla panchina non hanno illuminato. Nella terza di tre gare in una settimana, appena 2 sostituzioni. Non che in panchina ci fosse la "soluzione" per antonomasia. Ma ad esempio, un Gatti attaccante aggiunto nei minuti di recupero poteva far comodo (l'anno scorso decise in più occasioni).
Qualcuno dirà, "guardi il pelo nell'uovo". Al momento, l'uovo è un po' sodo. E l'omelette olandese del martedì di Champions è già in archivio. Siamo la Juventus. Tek e anche Conte ce lo hanno ricordato.
Nessun commento:
Posta un commento