Lo confesso. Non sono tra i 10 milioni di fans di Lady Gaga, il personaggio vivente più gettonato di facebook. Ne conosco (e apprezzo) qualche canzone. E non sono un grande sostenitore nemmeno dei dibattiti d’attualità in spiaggia in queste giornate: sfumata l’onda emotiva per la tragica scomparsa di Taricone – personaggio del quale si sono tessute lodi quasi insospettabili solo post-mortem (forse la sua dignità stava proprio nel rifiutare in vita vetrine e copertine che avrebbe potuto procacciarsi con lo schiocco delle dita) restano poche le questioni che meritano l’oziosa attenzione della calura balneare.
Raschia raschia, alla fine, è ancora il Mondiale sudafricano a mantenere la prima piazza nella hit parade degli interessi, nonostante le “mazzate” azzurre, solo parzialmente addolcite dai guai altrui (Francia in primis, a ruota Inghilterra, Brasile – che goduria – e Argentina). Del resto la politica nostrana – men che meno quella estera – non fa granché per guadagnarsi la leadership (soliti litigi, solite litanie), la cronaca ci racconta di un omicidio passionale al giorno (con tanto di “lettura” medico-metereologica secondo la quale il caldo predisporrebbe all’omicidio), quanto alla cultura, sono curioso di leggermi il libro che ha vinto lo “Strega” – Canale Mussolini – con un titolo che lì per lì sembrava richiamare un nuovo palinsesto di History channel, esclusivamente dedicato ai nostalgici (ci riderete, ma secondo me avrebbe la sua bella nicchia di telespettatori…). Non dovrebbe essere male neppure “Acciaio” della giovane e promettente (e di sicuro, molto più mediatica) Sabrina Avallone.
Capitolo Mondiali, siamo alle semifinali. Con protagoniste inedite (due non l’hanno mai vinto, un’altra quasi, dato che non lo vince da 60 anni). Chi l’avrebbe mai detto? Non solo un mese fa, ma appena una settimana fa, i “soloni” di tv e giornali avevano ribattezzato la competizione come il trionfo anticipato delle sudamericane.
Il dio Eupalla – quel genio illeggibile chiamato destinato, che condiziona partite e campionati, così saggiamente ribattezzato da Gianni Brera – si è divertito a burlare tutti. Tre sudamericane su quattro si sono “suicidate” ai quarti (l’unica a salvare l’onore, il Paraguay, battuto solo a una manciata di minuti dalla fine, col rimorso di un rigore fallito per prima). Le europee già “cresimate” come vecchie e bisunte rischiano invece di segnare un record di cui nessuno parla: la prima volta che una squadra europea vittoriosa potrebbe alzare la coppa fuori dal Vecchio Continente.
Per uno strano fenomeno di “staffetta” geo-calcistica, infatti, in 18 edizioni di Mondiale di calcio si è assistito ad un’alternanza quasi sistematica: torneo giocato in Europa, squadra europea vittoriosa; torneo giocato in America (o comunque fuori dall’Europa), squadra sudamericana vittoriosa. Unica eccezione, ovviamente, il Brasile che vinse nel 1958 in Svezia (ma c’era Pelè che seppur 18enne avrebbe potuto far vincere anche le vicine Isole Far Oer).
Il fattore sorpresa contraddistingue anche l’identikit delle tre europee rimaste: la Germania non godeva dei pronostici un mese fa (squadra troppo inesperta, si diceva), e invece ha sciorinato il miglior calcio del mondiale. Oggi è già indicata ad esempio di altre piazze (anche quella italica) che non hanno avuto il coraggio di azzardare il ricambio generazionale. In fondo, il nostro Paese è abituato a mantenere i “matusa” in vari settori della vita pubblica e sociale (come scrive Travaglio, l’Italia è il Paese dei senatori a vita, che per dimettersi devono “suicidarsi”).
Guidata da un tecnico che assomiglia ad un modello di Giorgio Armani (Loew, carneade della panchina fino a quando non l’abbiamo visto agitarsi 4 anni fa a fianco del tarantolato Klinsmann) ma che ha le idee chiare su come disporre i suoi giovanotti in campo, la squadra teutonica rischia pure di guadagnarsi la simpatia della critica, per il suo gioco così sbarazzino che non sembra neppure di indole germanica. Tant’è che la maggior parte dei suoi interpreti ha sangue di provenienza diversa (addirittura Boateng ha un fratello che gioca con il Ghana, e non si sono neppure salutati alla fine del match tra le due nazionali qualche giorno fa); ma il passaporto è quello che conta.
Germania favorita per il gioco, dunque. Ma paradossalmente potrebbe essere proprio questo il tallone d’Achille dei tedeschi. A memoria d’uomo, non si ricorda che la vincitrice di un Mondiale sia stata anche quella che aveva giocato meglio (il Brasile non ne avrebbe vinti “appena” 5 su 18).
La Spagna era sulla carta la strafavorita (i bookmakers a giugno la quotavano meno che i carioca) ma finora ha balbettato: in attesa del miglior Torres (anzi di un normale Torres), gli iberici si reggono su David Villa stile Totò Schillaci (stessa altezza, senza toupè) e su una difesa stile Capello (intanto non prendo gol, prima o poi ne faccio uno, tanto mi basta per vincere). Se la Germania non sembra tedesca, la Spagna ancor meno sembra latina, pur avendo un centrocampo da “brividi” - sarebbe bastato uno tra Xabi Alonso, Xavi senza Alonso, Fabregas e Iniesta agli azzurri, per cambiare da pomì a così. Dalla sua la squadra di Del Bosque (nome che richiama qualche liquore d’annata nascosto nelle madie dei nonni) ha la suerte e il doppio palo prima del gol decisivo con il Paraguay è un indizio claro che sì.
Chi invece ha messo insieme ormai tre indizi – che fanno una prova – del feeling privilegiato con la dea bendata è l’Uruguay. La più italiana delle squadre in lizza – oltre la metà dei suoi 4 milioni di abitanti ha cognome e sangue di casa nostra (e la nazionale ne è fedele riproduzione) – deve al suo bomber la permanenza nel torneo: ma non per i gol, bensì per la parata che Suarez ha inscenato al 120’ con il Ghana. Il cartellino rosso esibitogli è parso la beffa finale dell’esperienza sudafricana della Celeste, finché Asamoha Gyan (l’uomo del destino, come si era definito lui stesso un po’ immodestamente) ha spedito sulla traversa quello che poteva essere il gol “storico” della prima africana in semifinale. Suarez è passato da traditore ad eroe, l’Uruguay dalla solita incompiuta alla possibile sorpresa. Una squadra che la “sfanga” così sul ciglio del burrone, ha le carte in regola per vincere fino all’11 luglio (sarò smentito, chissà…). Intanto quel rigore ghanese finito alle stelle assomiglia fortemente al penalty italiano targato Totti, 4 anni fa contro l’Australia, primo segnale evidente che poteva essere l’anno buono.
In fondo se 6 anni fa è stata la Grecia ad alzare la Coppa Europa, cosa manca all’Uruguay per alzare quella forgiata dal nostro Cazzaniga? Parliamo del paese che è padre del calcio, come l’Inghilterra ne era la madre. E, il babbo, si sa, ogni tanto alza la voce e ha pure ragione…
Per quel che conta il mio tifo personale (chiamiamola simpatia) va proprio agli uruguagi (come li chiamava Brera). Sarà che è la più italiana delle squadre, con il veneto Forlan capocannoniere, il palermitano (di maglia) Cavani a fare da apripista, una difesa con Lugano e Fucile, insomma una squadretta di outsider pronta a stupire.
Ci siamo dimenticati l’Olanda ma non per caso: neanche gli orange sembrano orange, non fosse per le bellezze con le trecce orange che sfoggiano puntualmente sugli spalti. Non sono scoppiettanti come un tempo, ma forse proprio per questo potrebbero invertire la tradizione di “eterni incompiuti”: non sono bastati geni del football come Cruyff e Van Basten per far vincere a livello mondiale questa squadra (Van Basten almeno ha alzato la Coppa Europa), non è bastata la generazione coloniale (Davids, Seedorf, Winter, Kluivert) per rendere vincente l’undici tulipano. Arriva di nuovo una truppa di onesti Van, guidata dall’omino tuttofare in maglia interista (Snejder) capace di snidare il Brasile di testa, dall’alto del suo metro e settanta, e candidarsi, silenziosamente, alla vittoria finale. Pochi la davano favorita. E continuano a farlo. Ma questo è un gran vantaggio per gli olandesi.
Hanno vinto tutte 5 le partite fin qui disputate, senza entusiasmare. Ma con quel pragmatismo grande assente in passato.
Se l’Uruguay è la mia preferita, l’Olanda è la vera favorita (sempre silenziosa): della serie, ora o mai più. Se non altro, non le ricapiterà di stare in semifinale mondiale senza nessuna tra Italia, Argentina e Brasile. Ovvero a caso le squadre che tra Mondiali ed Europei hanno puntualmente “infilzato” gli orange negli ultimi 30 anni.
Unica incognita, i calci di rigore: un epilogo che ha visto l’Olanda sempre, ma dico sempre, battuta.
Che fosse questa sudafricana la volta buona per sfatare anche l’ultimo tabù?
Un ultimo pensiero ad una frase ricorrente in queste settimane, tra interviste, proclami e dichiarazioni audaci: “Siamo qui per scrivere la storia”.
Sentita troppe volte per non portare “sfiga”: l’hanno praticamente detta tutti, dimenticandosi che solo una squadra alla fine alzerà la Coppa.
E non avrà scritto granchè di storia, se non quella sportiva. Che in fin di conti, resta sempre un gioco.
La storia, quella vera, forse un passo avanti già l’ha fatto. Ma per l’Africa. Che ha voluto dimostrare – con le armi preferite dai “bianchi” (il football) – di poter essere diventata un continente moderno. Ora però tocca all’Occidente dimostrare di saperlo e volerlo “trattare” come tale. Ma questa è un’altra storia… Ancora tutta da scrivere...
lunedì 5 luglio 2010
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