La notizia l'ho saputa da mio padre. Al telefono. Lui è fuori e credo gli faccia male non esserci per dargli l'ultimo saluto. Erano amici. Di quelle amicizie silenziose - come molte delle cose che appartengono a mio padre e che distano anni luce dall'esuberanza apparente di un figlio che racconta i fatti propri in un blog.
Fernando Rosati era un personaggio carismatico.
La sensazione che ispirava questa figura enorme, nell'aspetto come nei principi e nella coerenza di vita, era di un gigante capace di gesti umili e veri. Attuati tenendo la schiena dritta, con un sorriso appena accennato, in un volto scolpito dalle esperienze della vita. E dalle difficoltà di dover sostenere opinioni, ideali e pensieri che per decenni, in questa città e in questa comunità, parevano del tutto estranei.
Essere di destra a Gubbio per almeno 50 anni ha significato quasi essere additato in piazza. E allora, o quell'idea la tenevi per te, a vita, riuscendo ad esprimerla in un'urna (tra pochi intimi, fuori e dentro l'urna) o la esprimevi a testa alta, conscio dell'inevitabile ghettizzazione, dello scherno da bar, dell'ironia serpeggiante, cui il destino ti affidava. Solo perchè la maggioranza era con la testa (e in molti casi anche con le tasche e le convenienze) su altre sponde.
Nando Rosati non ha mai temuto nulla di tutto questo. Girava con la sua auto sportiva e con un adesivo, attaccato nel retro, in posizione defilata: recitava la formula "NON" - l'associazione degli ex prigionieri degli alleati che non avevano collaborato, rifiutandosi di rinnegare il proprio credo politico come comodamente la maggior parte degli italiani dell'8 settembre fecero. Scelta scomoda allora, in prigionia. E molto più nei decenni a seguire, una volta tornato a casa.
Di lui sapevo qualche scampolo di racconto, centellinato a fatica da mio padre ogni tanto.
Ma leggere questa sua intervista, sul blog di LiveGubbio, è stata una scoperta emozionante. Comunque la si pensi, un patrimonio di memoria e di ricordi, in uno spicchio di storia ancora fin troppo inesplorato, per quante centinaia di testimoni vi siano stati, sfuggiti alla possibilità di lasciare un proprio segno.
Questa intervista è preziosa. Perchè tanti, anche tra coloro che politicamente distavano e distano dalle idee di Fernando Rosati, potranno apprezzarne la fermezza, la coerenza, la fierezza, sempre espressa con grande compostezza e signorilità, che traspaiono dalle sue parole: una cifra morale che mantiene una sua identità, una sua straordinaria attualità. Perchè gli uomini "tutti di un pezzo" non appartengono ad un'epoca storica, ad un colore, ad un'ideologia. Sono testimoni perenni di un vivere sincero.
Che oggi - diciamocela tutta - non è sempre facile rinvenire negli esempi più diffusi...
DAL BLOG DI LIVEGUBBIO.IT
Fernando Rosati è un uomo alto, dallo sguardo virile, il sorriso aperto e cordiale, e tutta l’aria di non voler tralasciare nulla del suo racconto. Mi offre un amaro ed estrae una piccola agenda riposta con cura, dalle pagine un pò ingiallite dal tempo, che sa di antico e prezioso. “Sì; qui ci sono custodite tutte le date e tutte le tappe della mia avventura chiamata guerra.”
A che età si è arruolato, Fernando?
"Sentivo che volevo andare a combattere ed a servire il mio Paese più d’ogni altra cosa al mondo. Sono scappato di casa a 16 anni per ben due volte. Mio papà mi ha riportato ogni volta indietro spiaciuto di questa mia intenzione; ma non c’è stato nulla da fare. Dopo aver frequentato il terzo magistrale, nel luglio del ’41 partii per la guerra in una batteria aerea in Sicilia; nel ’42 finii a Roma, in una compagnia di guardie a Piazza Venezia a causa della mia prestanza fisica.
Non ci volevo rimanere e con un escamotage mi feci inviare a Civitavecchia. Là occorrevano dei soldati che integrassero i morti in guerra della campagna russa; io facevo parte del 10 mo battaglione M e mi inviarono in Africa. Il bello deve ancora venire... Sì, il 4 febbraio del ’43 giungiamo a Tunisi; il 5 mattina a Sfax; poi andiamo a Gabes e la sera alla piccola Maginot".
Dove dormivate?
"A Maginot c’erano dei camminamenti in cui v’erano delle buche naturali. Dormivamo là, all’addiaccio. Ben presto sono stato ferito da una scheggia strappen, e così in primis mi hanno portato nell’ospedale di divisione; il 22 a Gabes; poi a Sfax; infine a Susa. Il 12 marzo, saputo che presto ci sarebbe stata una battaglia, decisi di scappare dall’ospedale per raggiungere Mareth. Il 18 giugno alla piccola Maginot ho combattuto la mia prima battaglia".
Cosa ricorda di quello scontro?
"La decimazione degli uomini; la morte tra le mie braccia del nostro tenente Sacchi, colpito in piena fronte che pochi minuti prima dell’attacco ci disse: 'ragazzi, il tradimento è chiaro'. Eravamo 200 uomini; rimanemmo una trentina o poco più.. Il 23 marzo decidemmo di ripiegare. Dopo, il 10 mo Battaglione dovette andare in forze ad una divisione in difficoltà; però subimmo di nuovo un bombardamento massiccio e ripiegammo su Infidel. Venimmo schierati nei pressi di un maniero, dove siamo restati sino al 13 maggio, giorno della resa".
Cosa mangiavate?
"Riso scotto con sabbia; uno schifo insomma. Poi una scatola di carne ed una galletta".
Cosa accadde nell’immediato?
"Abbiamo distrutto le armi subito dopo la resa, dopodiché venne chiesto dal comandante Baldanzi chi se la sentiva di andare con lui a Capo Bon per poter rimediare un mezzo di fortuna per raggiungere l’Italia. Io risposi che ero disponibile alla cosa; così prendemmo un camion abbandonato e dormimmo per due notti in una gabila araba arrivando solo in nottata a Capo Bon. Là ci eravamo nascosti in una 'casa matta', struttura costruita per il controllo militare. Il 16 maggio in seguito ad una spiata, fummo presi prigionieri. Dopo averci portato a Medieze-Al-Bab, vicino Tunisi per 15 giorni, e poi il 28 maggio a Sucheras, al confine con l’Algeria, di pomeriggio giungiamo a Costantina; lì, siamo stati consegnati agli americani".
Una svolta per lei importante…
"Indubbiamente mi è andata bene. Potevo finire in mani peggiori. Siamo partiti da Costantina con due soldati americani ed 8 prigionieri in ciascun camion. A Casablanca, giungemmo in un enorme campo di concentramento. Lì riconobbi Benvenuto Cacciamani. Io ero senza scarpe. Lui mi diede le sue. Portava il 39; io il 45. Fui costretto a rompere la punta di queste per poterle calzare. Era molto meglio di niente, le assicuro. Intanto fumavo sterco di cammello e nel mio diario personale in data 25 giugno scrivevo: FAME, FAME, FAME!"
Ma la situazione si sblocca presto
"Sì, l’8 luglio ci portano al porto; ci passano in rivista; salvai solo le M rosse, le mostrine, perché le nascosi…dentro la bocca! Pensi che mi avevano promesso 4 stecche di sigarette in cambio delle M. Si figuri; un fumatore come me che si attaccava persino allo sterco dei cammelli! Ma dissi no, decisamente!"
Dopo cosa accadde?
"Ci caricarono in una bella nave; poi in una liberty e così arrivammo a Boston. Eravamo 800-1000. Mi portarono nel campo a Como, nel Mississippi. Ci giungiamo dopo altri 2 giorni di viaggio. Scoppiarono a causa dell’omicidio di un mio amico per parte americana, dei tafferugli. Riuscimmo a sbattere fuori dal campo gli italo-americani che vi lavoravano. Questo venne circondato dalle camionette. A febbraio c’inviarono a Rhuston, in Louisiana, fino a marzo. Lì ci chiesero se volevamo diventare dei soldati collaboranti. Dicemmo di no e la mia vita cambiò radicalmente.
Giungemmo in un campo a 18 km da New Orleans. Lì aderimmo alla Repubblica Sociale. Seguono gli altri campi di Hereford, e Fort Bliss, entrambi in Texas, dove sono stato bastonato a sangue e perderò un polmone a causa di quella violenta lotta al mio rientro in Italia. Dopo altre vicissitudini, ci fecero salire su di un treno ed attraversammo mezza America per giungere a Seattle.
Passando per il Nevada, ed osservando l’immenso e sterminato deserto in cui vi era solo arsenale, non era difficile intuire chi avrebbe vinto la guerra e perché, mi creda! Carri armati, automezzi a perdita d’occhio in linea d’aria ed in profondità. Una cosa mai vista né immaginabile. Poco dopo il nostro arrivo a Seattle, ci venne comunicato che dovevamo partire per le isole Hawaii. Ci siamo ribellati violentemente perché le isole Hawaii erano zona di delicate operazioni militari, non ultimo il violentissimo attacco sferrato alla base di Pearl Harbor dai giapponesi, tempo prima..."
Come andò a finire?
"Ci caricarono a forza dentro ambulanze. 500 persone costrette a partire. Siamo sbarcati il 28 giugno del ’44 ad Honolulu. Ecco il pasto di un non-collaborante: pane ed acqua per 15 giorni e per gli altri 15 pasto normale".
Quanto durò il suo soggiorno forzato alle Hawaii?
"Sino al primo febbraio del ’46, quando la nave Meteora, alle 16:12 ci imbarcò per l’Italia. Eravamo 1000 ansiosi di tornare a casa".
Fernando, lei soldato non-collaborante guadagnava 3 dollari al mese. Come li spendeva?
"Oh, per me era semplicissimo. Mi volavano via dalle tasche; acquistavo sempre 3 pacchi di tabacco da 0,50 cents l’uno; un pacchetto di sigarette di fattura lunga; una saponetta Palmolive; il dentifricio, ed altri oggetti... Non mi restava mai nulla. Avevamo uno spaccio nel campo dove facevamo rifornimento".
Cosa è successo al suo arrivo in Italia?
"A Napoli, dopo lo sbarco, sicuri che eravamo gente ricca, ci avevano tagliato a metà il cappotto per rubarci il portafoglio. Poveri illusi! Non avevamo il becco di un quattrino. Dopo qualche giorno ho fatto rientro a Gubbio. Una volta a casa mi sono curato a lungo per circa due anni; pensi che pesavo 62 kg per 1,90 d’altezza".
Niente più scuola?
"No; e come facevo? Però in compenso ho avuto tante altre soddisfazioni dalla vita. Non ho mai dimenticato gli anni trascorsi in prigionia e mi sono subito attivato affinché il ricordo di allora non soccombesse al tempo. Le nostre riviste 'Volontà', e 'La tradotta di Bir el Gobi', ci aiutano a far rivivere quei momenti".
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