Non sono un tecnico, nel
senso che non posso precipitarmi in pagelle che tengano conto di fotografia, scenografia, montaggio cinematografico.
Sono pero' un
telespettatore, un telespettatore che per altro conosceva piuttosto
bene quella storia.
Sia perche' nutro passione
autentica per tutto ciò che e' "Anni Settanta" - le luci
quanto le ombre - sia perché ho letteralmente divorato la più'
appassionante testimonianza narrativa che su questa vicenda potesse
esserci: il libro di Mario Calabresi, figlio di Luigi, oggi direttore
de "La Stampa". Il suo "Spingendo la notte piu in la'"
e' qualcosa piu che un semplice libro. E' un parlarti dentro, un
sussurrarti il vissuto di una famiglia che come molte altre ha
sofferto i lutti di quell'epoca di piombo e di esasperazione
ideologica. E come altre ne ha portato la croce silenziosamente
e dignitosamente. Prima, durante e dopo.
Il libro? L'ho letto forse
in un tempo inferiore a quello necessario per vedersi le due puntate
della fiction. Il primo, e finora unico, fagocitato in meno di un giorno (era un lunedì di Pasqua). E forse sarà anche il primo libro che in vita mia
prima o poi andrò a rileggere (operazione che molti fanno, ma che personalmente non ho mai
sperimentato, anche se chi l'ha fatto mi dice che ne vale la pena -
il problema e' anche che spesso si fatica a leggere una volta i
libri, figuriamoci il bis...).
La fiction? Beh quella
forse non riproduce in modo così fedele e schiaffeggiante
l'atmosfera della Milano ostaggio della contestazione, vittima delle
sparatorie, culla di quel fenomeno chiamato "Brigate rosse"
che terrorizzerà per oltre un decennio il Paese.
Questo clima in effetti si
fatica a percepire.
Una foto originale della deposizione di Calabresi nel 1971 |
Ma la figura di Calabresi
e' di una compostezza e di un'efficacia uniche. Un prefetto Mori venuto a
galla 30 anni dopo, senza vezzi, senza vizi, talmente scevro di
caratterizzazioni da apparire quasi ibrido persino a chi gli stava
accanto. Eppure Luigi Calabresi era il prototipo dei "Servitori
dello Stato" (la S non e' maiuscola a caso) che dovettero
tapparsi occhi e orecchie, alzare le spalle, far finta di non essere
soli. O peggio ancora, di non essere strumento di qualcosa di
piu' grande. E innominabile. In quegli anni come nel ventennio successivo (leggasi Falcone, Borsellino e altri magistrati rimasti soli contro il gigante della criminalità organizzata e infiltrata).
Un personaggio asciutto e
fermo, Calabresi, come lo sguardo che l'attore Emilio Solfrizzi (conosciuto finora in ruoli decisamente meno "impegnativi") ha saputo riprodurre, i
sorrisi strappati col contagocce, l'affetto intimo e discreto con la
moglie e con i figli, a far da contraltare alla durezza della
quotidianità passata tra rinvenimenti di cadaveri e indagini oscure.
Ma la dote che il
personaggio Calabresi piu di tutte esalta - e proprio
l'interpretazione essenziale rivela come un Uniposca la tempra del
soggetto - e' la dignità, la fermezza, la determinazione pervicace
con cui il Commissario va avanti. Non si ferma di fronte alla
campagna d'odio che Lotta Continua e i media della "contro-informazione" dell'epoca fanno sorbire ad un'opinione pubblica confusa
e impaurita. Non si ferma di fronte alla pressione, alle minacce,
alla raccolta firme contro di lui, agli epiteti che per strada o in
tribunale gratuitamente gli piovono addosso.
Molti dei firmatari di quegli appelli deliranti sono diventati conduttori tv, rinomati opinioni e perfino premi Nobel. Perfino alcuni dei protagonisti di quell'esperienza tragica ("Lotta continua"), figlia del periodo ma certo non esente dalla responsabilità di aver procurato le macchie peggiori di quel periodo, oggi hanno ancora preso parola e detto la loro, stroncando questa
Forse il senso di colpa
"Ormai vige la legge
della menzogna, vale solo quella" commenta silente in auto con
il suo assistente, Claudio Boccia.
Non conta cosa e' accaduto
davvero con l'anarchico Pinelli in quella stanza del Commissariato.
La sentenza e' già stata scritta dai giornali e dalla cecità
dell'esaltazione ideologica di sinistra. E' stato Calabresi, il
fascista, il reazionario. L'odio scorre come un carburante altamente
infiammabile e alla fine, una mattina del maggio 1972, trova la sua
miccia nell'attentato, proprio sotto casa.
"Perché commissario
non gira armato?" gli aveva chiesto qualche giorno prima il
giovane poliziotto che lo seguiva come un'ombra.
"Se mi spareranno, non avranno il coraggio di guardarmi in faccia. A che mi serve un'arma?".
L'agguato alle spalle era
un cult di quegli anni. Poco importava che potesse sembrare perfino
vigliacco.
Poco importava che potesse
sembrare perfino un assassinio...
Qual è il senso di rivedere tutto questo? E' il senso di riflettere su una stagione che nessun libro di storia riesce ancora a spiegare. E se prova a farlo, rimane probabilmente chiuso nei meandri dei programmi scolastici che faticano ad arrancare già nel secondo Dopoguerra.
Forse servirà ancora tempo per avere un quadro limpido di quell'epoca. Serviranno anni, servirà una nuova generazione, più slegata dalle incrostazioni ideologiche degli anni Settanta - di cui ancora, fortunatamente in minima parte, si percepisce qualche tiepido sentore.
I problemi oggi sono altri. Percepiti decisamente come più gravi e impellenti delle "lotte di classe" di quel periodo.
Ma una cosa gli "anni Settanta" e la vicenda Calabresi ci dovrebbero insegnare, in proiezione attuale: quale è il modo più sbagliato, deflagrante e illusorio per rivolverli...
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