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mercoledì 8 gennaio 2014

La storia di Calabresi: dalla fiction alla realtà di quegli anni... fino alla proiezione odierna

Ho letto una recensione lapidaria sul capitolo della serie "Gli anni spezzati", in onda su Raiuno, dedicato al commissario Luigi Calabresi. Ho seguito la seconda delle due puntate della fiction, e il giudizio e' sospeso tra le emozioni, un misto tra angoscia e tristezza, che la storia può ispirare e che già conoscevo, e le impressioni che il lavoro televisivo in se' può meritarsi.

Non sono un tecnico, nel senso che non posso precipitarmi in pagelle che tengano conto di fotografia, scenografia, montaggio cinematografico.
Sono pero' un telespettatore, un telespettatore che per altro conosceva piuttosto bene quella storia.

Sia perche' nutro passione autentica per tutto ciò che e' "Anni Settanta" - le luci quanto le ombre - sia perché ho letteralmente divorato la più' appassionante testimonianza narrativa che su questa vicenda potesse esserci: il libro di Mario Calabresi, figlio di Luigi, oggi direttore de "La Stampa". Il suo "Spingendo la notte piu in la'" e' qualcosa piu che un semplice libro. E' un parlarti dentro, un sussurrarti il vissuto di una famiglia che come molte altre ha sofferto i lutti di quell'epoca di piombo e di esasperazione ideologica. E come altre ne ha portato la croce silenziosamente e dignitosamente. Prima, durante e dopo.

Il libro? L'ho letto forse in un tempo inferiore a quello necessario per vedersi le due puntate della fiction. Il primo, e finora unico, fagocitato in meno di un giorno (era un lunedì di Pasqua). E forse sarà anche il primo libro che in vita mia prima o poi andrò a rileggere (operazione che molti fanno, ma che personalmente non ho mai sperimentato, anche se chi l'ha fatto mi dice che ne vale la pena - il problema e' anche che spesso si fatica a leggere una volta i libri, figuriamoci il bis...).

La fiction? Beh quella forse non riproduce in modo così fedele e schiaffeggiante l'atmosfera della Milano ostaggio della contestazione, vittima delle sparatorie, culla di quel fenomeno chiamato "Brigate rosse" che terrorizzerà per oltre un decennio il Paese.
Questo clima in effetti si fatica a percepire.

Una foto originale della deposizione di Calabresi nel 1971
Ma la figura di Calabresi e' di una compostezza e di un'efficacia uniche. Un prefetto Mori venuto a galla 30 anni dopo, senza vezzi, senza vizi, talmente scevro di caratterizzazioni da apparire quasi ibrido persino a chi gli stava accanto. Eppure Luigi Calabresi era il prototipo dei "Servitori dello Stato" (la S non e' maiuscola a caso) che dovettero tapparsi occhi e orecchie, alzare le spalle, far finta di non essere soli. O peggio ancora, di non essere strumento di qualcosa di piu' grande. E innominabile. In quegli anni come nel ventennio successivo (leggasi Falcone, Borsellino e altri magistrati rimasti soli contro il gigante della criminalità organizzata e infiltrata).

Un personaggio asciutto e fermo, Calabresi, come lo sguardo che l'attore Emilio Solfrizzi (conosciuto finora in ruoli decisamente meno "impegnativi") ha saputo riprodurre, i sorrisi strappati col contagocce, l'affetto intimo e discreto con la moglie e con i figli, a far da contraltare alla durezza della quotidianità passata tra rinvenimenti di cadaveri e indagini oscure.

Ma la dote che il personaggio Calabresi piu di tutte esalta - e proprio l'interpretazione essenziale rivela come un Uniposca la tempra del soggetto - e' la dignità, la fermezza, la determinazione pervicace con cui il Commissario va avanti. Non si ferma di fronte alla campagna d'odio che Lotta Continua e i media della "contro-informazione" dell'epoca fanno sorbire ad un'opinione pubblica confusa e impaurita. Non si ferma di fronte alla pressione, alle minacce, alla raccolta firme contro di lui, agli epiteti che per strada o in tribunale gratuitamente gli piovono addosso.
Molti dei firmatari di quegli appelli deliranti sono diventati conduttori tv, rinomati opinioni e perfino premi Nobel. Perfino alcuni dei protagonisti di quell'esperienza tragica ("Lotta continua"), figlia del periodo ma certo non esente dalla responsabilità di aver procurato le macchie peggiori di quel periodo, oggi hanno ancora preso parola e detto la loro, stroncando questa
Forse il senso di colpa

"Ormai vige la legge della menzogna, vale solo quella" commenta silente in auto con il suo assistente, Claudio Boccia.
Non conta cosa e' accaduto davvero con l'anarchico Pinelli in quella stanza del Commissariato. La sentenza e' già stata scritta dai giornali e dalla cecità dell'esaltazione ideologica di sinistra. E' stato Calabresi, il fascista, il reazionario. L'odio scorre come un carburante altamente infiammabile e alla fine, una mattina del maggio 1972, trova la sua miccia nell'attentato, proprio sotto casa.

"Perché commissario non gira armato?" gli aveva chiesto qualche giorno prima il giovane poliziotto che lo seguiva come un'ombra.
"Se mi spareranno, non avranno il coraggio di guardarmi in faccia. A che mi serve un'arma?".

L'agguato alle spalle era un cult di quegli anni. Poco importava che potesse sembrare perfino vigliacco.
Poco importava che potesse sembrare perfino un assassinio...
 
Qual è il senso di rivedere tutto questo? E' il senso di riflettere su una stagione che nessun libro di storia riesce ancora a spiegare. E se prova a farlo, rimane probabilmente chiuso nei meandri dei programmi scolastici che faticano ad arrancare già nel secondo Dopoguerra.
Forse servirà ancora tempo per avere un quadro limpido di quell'epoca. Serviranno anni, servirà una nuova generazione, più slegata dalle incrostazioni ideologiche degli anni Settanta - di cui ancora, fortunatamente in minima parte, si percepisce qualche tiepido sentore.
I problemi oggi sono altri. Percepiti decisamente come più gravi e impellenti delle "lotte di classe" di quel periodo.
Ma una cosa gli "anni Settanta" e la vicenda Calabresi ci dovrebbero insegnare, in proiezione attuale: quale è il modo più sbagliato, deflagrante e illusorio per rivolverli...


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