Un suono cupo, sordo. Tetro e inquietante. Come la ricorrenza che voleva scandire.
E’ quello che mi ha svegliato stamattina. Il Campanone di Gubbio, uno spettacolare miracolo sonoro, che di solito è sinonimo di festa, di gioia, di aggregazione.
Oggi no.
Il suo lento rintocco a lutto – erano più o meno le 6.30 – segnava la ricorrenza più triste e cruda della storia di questa comunità: il 22 giugno. Una voce quasi soffocata. Come il ricordo di quella tragedia.
Sono trascorsi 66 anni da quella mattina. Straziata dalle raffiche di mitra di un plotone d’esecuzione della Wermacht. E un senso di angoscia continua a perseguitarmi, ogni anno, in questa giornata.
Ogni tanto, quando passo per la via del Mausoleo, getto lo sguardo a quel muro, crivellato di colpi. Penso alle vite trapassate, alle famiglie distrutte, agli orfani che la guerra, ogni guerra, produce. Senza senso.
Da quando sono padre, poi, la sensazione di drammatica consapevolezza è cresciuta in modo esponenziale.
Si dirà che il mondo è pieno di queste storie. Ieri come oggi. Tragedie vicine e lontane, nel tempo come nello spazio. Che ti toccano come non mai, però, quando è il vicino di casa, l’amico, il conoscente, ad esserne coinvolto.
La storia dei 40 Martiri (una definizione ormai immodificabile, ma che più propriamente andrebbe corretta in 40 Vittime) per mia fortuna, non ha coinvolto familiari (anche se un giorno ho saputo che mi ha sfiorato). Ma ne conosco tante di persone che da quel 22 giugno hanno visto cambiata, lacerata, travolta la propria esistenza.
Tanto si è scritto su questa vicenda. Non tutto però. Pur nella certosina e laboriosa ricostruzione storica (che si deve in particolare alle ricerche del prof. Giancarlo Pellegrini, ordinario dell’Università di Perugia e autore del libro “Una strage dimenticata”) sull’eccidio dei 40 Martiri - il più grave fatto di sangue nel periodo dell’occupazione tedesca in Umbria - restano pesanti “buchi neri”.
Legati soprattutto all’attentato che provocò la rappresaglia, all’uccisione di due militari tedeschi al Bar Nafissi in corso Garibaldi, alle ore che ne seguirono.
Quattro giovanotti, affiliati ai Gap locali, armati di tutto punto e usciti per una missione specifica (disarmare alcuni tedeschi che stavano minacciando delle famiglie nella zona di Mocaiana) ritrovatisi protagonisti della più tragica pagina di storia della nostra città.
Sono loro gli unici responsabili di questo gesto?
Chi li abbia armati, come siano finiti in corso Garibaldi a seguire i due militari (due ufficiali medici), perché abbiano deciso l’irruzione e la sparatoria. E soprattutto perché nessuno alzò un dito nelle 36 ore che seguirono, con 80 ostaggi di ogni età catturati per le strade e per le case: nessuno aprì bocca, tranne il Vescovo, Beniamino Ubaldi, che arrivò a offrire la propria vita in cambio degli 80, giovani e vecchi, destinati alla fucilazione. Un gesto nobile, estremo, disperato, quello del presule. E purtroppo inutile.
Restano aperti pesanti interrogativi, che non a caso hanno lasciato aperte ferite che solo il tempo, le generazioni, la cultura della tolleranza, contribuiranno a rimarginare.
O forse i gesti distensivi e di straordinaria civiltà, come quello di Guglielmina Roncigli, figlia di uno dei 40 fucilati: che dall’estate di 7 anni fa ha iniziato una corrispondenza costante con Peter Staudacher, figlio di uno dei due militi nazisti uccisi al Bar Nafissi.
Il loro incontro è stato casuale: lei ha notato una frase nel libro delle firme del Mausoleo, lasciata da un uomo sulla sessantina, definitosi “figlio del militare tedesco ucciso a Gubbio”. Nessun aggettivo, nessuna inflessione che lasciasse trapelare un senso di vendetta o di astio nei confronti di questa città, di questa gente. Che in fondo, da un’ottica di parte opposta, lo aveva privato del padre.
Guglielmina fu colpita da quella frase, apparentemente asettica. E iniziò una sua personalissima ricerca: che la portò di lì a poco a rintracciare Peter Staudacher a Colonia. Da lì in poi un fitto dialogo epistolare che, pur nell’epoca di internet, non ha abbandonato la carta e la penna: quasi a voler conservare un appiglio con quegli anni, quell’epoca, nella quale entrambi, Guglielmina e Peter, videro segnata la propria esistenza dalla guerra. Entrambi orfani, entrambi persero il padre, anche se su sponde opposte. Entrambi piansero la crudeltà della guerra, anche se per motivi diversi. Entrambi a distanza di anni hanno sentito la necessità di parlarsi, di conoscersi, di condividere quel senso di vuoto. Che in fondo, anche se su fronti diversi, anche se a migliaia di chilometri di distanza, anche senza voler riscrivere la storia, li accomunava.
Perché i libri di storia decidono i vincitori e vinti. Fanno i numeri. Ma i lutti, che le guerre portano con sé, non hanno peso, colore. Non dipendono dagli zeri di una tragedia. E chi li paga, in fondo, si sente vittima incommensurabile di uno stesso tragico destino.
Questa storia, la storia di Guglielmina e Peter, merita di essere raccontata.
Perché è un messaggio di straordinaria attualità: su in fondo come sia semplice, ma al tempo stesso complicatissimo, superare barriere, scavalcare muri, abbattere chiusure mentali e pregiudizi. Specie in un Paese come il nostro che ancora si divide su guerra civile, fascismi e antifascismi, partigiani e repubblichini. E che solo dopo 60 anni, e grazie al coraggio letterario di uno scrittore (per di più di sinistra) come Giampaolo Pansa, ha potuto conoscere qualcosa in più della propria storia post-bellica.
Lo sa bene Guglielmina, quanto sia difficile stringere la mano, condividere un sentimento di amicizia, cercare di trovare conforto nella testimonianza altrui. Quando questo altrui è qualcuno che è visto come “diverso”.
Lo sa bene, lei che non ha trovato sensibilità diffuse e collaborazione aperta, né solidarietà in senso stretto, quando si è messa alla ricerca di una persona che in fondo, altri non era che uno dei tanti orfani di guerra. Con l’unica colpa che suo padre stava dalla parte sbagliata.
Ho pensato a tutto questo, stamattina. Mentre il Campanone continua a rintoccare il suo ritmo funereo. Ho pensato che anche da tragedie come questa può nascere qualcosa di importante. E di costruttivo. La speranza.
Che i lutti non lasciano solo croci e amari rimorsi. Ma da qualche parte si può trovare la forza per guardare avanti. E lasciare un segno importante, positivo: come un abbraccio. Che sappia mettere alle spalle una pagina di storia drammatica. Difficile da onorare, se la memoria continuerà a restare ostaggio del rimorso, del senso di vendetta.
La storia va detta, va scritta, va ricordata. Tutta e fino in fondo. Anche quando non ci piace o non risponde alla nostra ideologia. Per insegnarci il presente e il futuro.
Ma va anche messa alle spalle. Proprio perché dei suoi errori, delle sue barriere, dei suoi steccati, è necessario fare tesoro.
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RispondiEliminaGiacomo Faramelli -
un dolore inesprimibile, opprimente.
Ma a sessantasei anni di distanza ENORMI interrogativi restano inevitabilmente aperti.
CHI erano i mandanti dell'attacco partigiano di Gubbio?
PERCHè furono uccisi due ufficiali medici, e non furono invece disarmate le pattuglie tedesche che parevano minacciare le famiglie di mocaiana?
CHI erano i componenti del commando?... Mostra tutto
PERCHè cambiarono obiettivo? Fu una loro scelta? O fu ordinato dal comando?
Mentre sappiamo praticamente tutto sulla rappresaglia tedesca, anche se ci sono voluti decenni, POCHISSIMO SAPPIAMO SU UNO DEI PIù GOFFI (colpire in un bar di fronte a molti testimoni, che credo, a questo punto, tacitati a dovere), SCONCLUSIONATI (quali vantaggi, a livello bellico, nell'uccidere due medici?), INUTILI (nessun vantaggio sostanziale alla causa della liberazione) E POCHISSIMO EROICO atto partigiano compiuto nella nostra regione.
Credo di non dire una bufala se riporto la mancanza di pagine riguardanti l'azione dei gap dagli archivi,(forse addirittura strappate).
Vorrei una luce chiara anche su questi eventi, e forse se l'inchiesta sui 40 martiri è rimasta per tanto tempo in un armadio è anche perchè per fare piena luce si sarebbero dovuti chiarire gli interrogativi di cui sopra, e credo che a molti non avrebbe fatto piacere, vista l'ostilità aperta cui si va incontro a tutt'oggi se si cerca di far luce PIENA sulle cause dell'eccidio.
Giacomo Faramelli 2o post -
Detto questo la mia più totale ammirazione va alla sig.ra Roncigli, che andrebbe portata ad esempio ogni qual volta, ci si riempe la bocca parlando di tolleranza e riconciliazione. Da lei applicate nella più alta forma, in una sublimazione che può richiudere lle ferite del cuore, e dare uno stimolo alla stanca, frastornata coscienza civile italiana, nel fare piena luce sulle pagine più dolorose della nostra storia.
Da facebook -
RispondiEliminaSergio Rossi -
vorrei rispondere a Giacomo Faramelli.
Io non parlerei affatto di “attacco partigiano" ma di una vile quanto inutile azione compiuta da un gruppo di volgarissimi ladri di galline locali. Si, ladri di galline perché quando si trattò di compiere una vera e propria azione di guerra, il cecchino appostato nella curva di Viale della Rimembranza vicino all’attuale Hotel Pinolo il cui incarico era quello di sparare al motociclista tedesco che viaggiava verso fossato di Vico per riferire dell’accaduto, non sparò, non ebbe il coraggio.
Se da un lato possiamo parlare di una scellerata azione perpetrata da un gruppo di pseudo partigiani, dall’altro ci si trova di fronte ad un manipolo di “veri” fascisti. Fascisti eugubini, con le idee molto chiare: non esitarono affatto nel recarsi presso l’Hotel San Marco per dire ai tedeschi che non si trattò del gesto di uno “slavo” come sostenne in maniera assai convincente il Vescovo Ubaldi (tant’è vero che i rastrellamenti cessarono e probabilmente non sarebbero ripresi), ma dell’azione di “partigiani” di Gubbio. E non esitarono affatto a partecipare al processo-interrogatorio tenutosi presso l’Edificio Scolastico in seguito al quale, grazie proprio alle informazioni fornite da questi “eroi”, uscirono fuori i nomi di chi dovesse essere “giustiziato” e di chi dovesse scavare la fossa.
La cosa più triste è che in realtà, in questa brutta vicenda tutta eugubina, i nomi dei protagonisti si conoscono, si conoscono e come! Si conoscono da sessant’anni. Tutti personaggi “del posto”, tutti impuniti e in alcuni casi anche “longevi”.
Non so come abbiano passato la loro vita, se afflitti da senso di colpa o addirittura “pentiti”, ma so di certo come l’abbiamo passata noi, madri, padri,figli, fratelli e nipoti delle vittime. So come l’ha passata mia nonna Ermelinda privata del marito Francesco, “il muto dei Rosci” e del cognato Domenico Rossi, la quale si ritrovò a gestire tre figli ed un podere, so come l’ha passata la zia Edda Moretti privata dei due fratelli appena ventenni Franco e Luigi, sfollati a Gubbio dopo il bombardamento della stazione di Terni dove trovò la morte loro padre, so come l’ha passata la zia Annita Rossi che si ritrovò senza il giovane figlio diciannovenne Giuseppe Cacciamani, il marito Cesare ed il cognato Enrico, la quale fu l’unica a tentare di “vendicarsi” con un coltello da cucina durante un confronto con uno di questi personaggi presso la stazione dei Carabinieri di Gubbio, e so come l’ha passata mio padre che di notte si svegliava terrorizato urlando: “Oh dio i Tedeschi!”
Insomma una brutta storia che non può e no deve essere dimenticata, una storia rimasta troppo tempo chiusa nell'armadio delle “nostre” coscienze prima che in quello della procura generale militare.
Ancora da facebook -
RispondiEliminaDaniele Battistelli -
concordo con te sergio tranne sul termine ladri di galline...o meglio forse loro si, ma sicuramente non coloro che si celarono dietro i 4 giovani.
Da facebook -
RispondiEliminaSimone Filippetti -
Mia mamma aveva 5 mesi di vita, quando mio nonno fu ucciso quella mattina del 22 giugno: non ha mai conosciuto suo padre, se non nella fotografia sgranata del Mausoleo (all'epoca le foto erano un lusso da ricchi), l'unico ricordo anche per me.
Il fratello di mio nonno, costretto a scavare la fossa in cui credeva l'avrebbero ammazzato e invece ci hanno messo il fratello davanti ai suoi occhi, è rimasto traumatizzato tutta la vita. Invece di inutili indagini e commissioni d'inchiesta, che in questo Paese non scoprono mai niente, basterebbe che qualcuno di questi signori, e o dei loro parenti, chieda perdono. Sarebbe un gesto che almeno proverebbe a chiudere una ferita lacerante per tante famiglie e per la città. Non si può e non si deve dimenticare.