Ci sono i Mondiali di calcio a catalizzare l’attenzione mediatica di tutto il mondo. Meno clamore, ma sicuramente più sostanza per il nostro futuro, avevano invece i “Mondiali” dei governi di scena in questo weekend in Canada: il G8, che poi è ormai diventato G20, con i paesi più industrializzati – la vecchia economia tra Europa, Usa e Giappone – a fianco delle cosiddette economie emergenti.
Chiamato a decidere su alcuni punti nodali della crisi internazionale, però, il Mondiale dei Governi si è chiuso con un nulla di fatto.
Al di fuori di un generico impegno (anzi, peggio ancora, auspicio) a ridurre i deficit entro il 2013, il livello di concretezza registrato dal summit canadese è pari a zero. In euro o in dollari, che dir si voglia. Ad esempio, in molti spingevano perché i governi occidentali iniziassero ad applicare una tassazione sul sistema del credito (far pagare alle banche il conto della crisi, che in fondo ha proprio origine finanziaria): niente da fare. Le banche, come spesso avviene, non si toccano. Ed è singolare come la parabola delle dinamiche socio-economico-politiche emerse da questo vertice – atteso da tutti con impazienza per le importanti decisioni cui era chiamato – si incroci, e in qualche modo ripeta, le evoluzioni agonistiche dell’evento sportivo dell’anno, appunto i Mondiali di calcio sudafricani.
La vecchia Europa e gli Usa, in una parola l’Occidente – ovvero l’estabilishment dei governi internazionali – si dimostra riottoso di fronte alle novità: manca di coraggio nell’affrontare la crisi, nonostante spinte innovative (i programmi di Obama) e quasi sembra sottovalutare l’impeto della crescita delle economie emergenti, dall’est del mondo (Cina e India), all’est europeo (Russia) fino al Sudamerica.
Nel rettangolo verde di Johannesburg o di Città del Capo, più o meno, accade lo stesso: l’Europa del pallone è sempre più “vecchia” (nel gioco) e stantìa nei risultati, con le uniche “economie” mitteleuropee (Germania e Olanda) a reggere il confronto, grazie alla carta d’identità dei suoi interpreti. L’unica latina che potrebbe sopravvivere è la Spagna (straordinaria nei club ma avara di vittorie quando si tratta di indossare la divisa delle “furie rosse” – appena 2 Europei in bacheca e un quarto posto ai Mondiali risalente a 50 anni fa), non è granché per quello che fino a 4 anni fa era il Gotha del calcio mondiale (Italia-Francia la finale).
Crescono invece squadre inaspettate, quelle che potremmo definire “compagini emergenti”: il Ghana, il Cile, l’Uruguay, una tra Paraguay e Giappone. E tra qualche giorno scopriremo che il G8 del calcio è più che rivoluzionato.
Curioso un altro parallelismo tra i due mondi, quello dei Governi e quello del pallone di cuoio: la pervicace ostinazione a mantenere alcune posizioni di “privilegio” che appaiono anacronistiche, quando non addirittura un subdolo sistema di tutela dei “poteri forti”.
Il riferimento, già fatto, alla mancata tassazione nei confronti delle holding bancarie può essere felicemente ritrovato, nel football, parlando di tecnologia ed errori arbitrali: la giornata di ieri è stata una Caporetto per le giacchette nere (una volta si chiamavano così, oggi solo i colori sono diventati più sgargianti), oltre che per gli ultimi italiani rimasti (Capello e Rosetti). Nel 2010 è difficile tollerare sviste pacchiane come quelle andate in scena in due gare delicate degli ottavi, protagonisti figure chiave (direttori di gara e assistenti) che sembrano quasi voler ignorare, forzatamente, l’aiutino che la tecnologia arrivava a fornire - inspiegabile altrimenti il consulto tra l’arbitro italiano Rosetti e il suo collaboratore Ayroldi dopo il gol in evidente off side di Tevez, confabulazione che ha semmai amplificato le dimensioni dell’errore.
E così un personaggio, da tempo equivoco nelle strategie come nella gestione del calcio mondiale, come Joseph Blatter, presidente inamovibile della Fifa – ostinatamente contrario all’utilizzo di tecnologie almeno per i casi più eclatanti – continua a infilare beatamente autogol inenarrabili, utili solo per riempire le pagine dei quotidiani e gli almanacchi dei prossimi anni, alimentando lo spirito di rivalsa delle squadre di volta in volta danneggiate.
Un Blatter che esiste probabilmente anche nel sistema bancario mondiale: un “santone” al quale non va proprio giù di dover introdurre nuovi sistemi di controllo delle dinamiche finanziarie, non riesce proprio di immaginare che un giorno qualche altro “crack” – a spese di milioni di risparmiatori – debba essere risarcito da qualche multinazionale. E ovviamente non vuol sentire parlare di dimissioni, anche di fronte al più lampante dei fallimenti.
In Italia in fondo sono state chieste ad Abete (che aveva scelto a suo tempo il CT Campione del Mondo, salvo poi pentirsi in corso d’opera).
Ma l’Italia non fa testo: è il Paese in cui le dimissioni non si danno, si chiedono.
Insomma la crisi va di pari passo con il calcio. O meglio, il governo della crisi, non si discosta molto – per vizi e scelte strategiche - da quello del “balon”. Il che non è una buona notizia.
Perché nel primo caso, ad essere presi a calci, non sono i mitici Jabulani...
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