Mi piace ricordarti così. A suonare la chitarra, in una giornata di primavera, insieme ai Santantoniari. I tuoi amici Santantoniari. Tra una cantata, un brindisi, una pacca sulla spalla, un abbraccio. Immersi nell'atmosfera di attesa del mese di maggio, sicuramente il periodo più intenso dell'anno di un ceraiolo.
(qui eravamo a casa Cancellotti, zona Vignoli, credo il 25 aprile del 2004).
Da 5 anni Lucio non c'è più. O meglio, non lo vediamo. Perché lui c'è.
E' nei nostri ricordi, nei nostri pensieri. In quello che, non solo nel periodo dei Ceri, la mente e l'affetto ci sanno riproporre. Sotto forma di flash. Un'istantanea nitida ed efficace, come quelle che Giampaolo, suo fratello, sa immortalare inimitabilmente con la sua Canon.
Lucio c'è. Me lo vedo arrivare, vestito sportivo, con il sorriso stampato in volto: quel sorriso di chi ama la vita, le sue sfumature, le sue emozioni forti. Anche i suoi rischi (se si pensa che di lavoro volava e per hobby andava in moto).
Lucio c'è. Lo osservo spesso, passando per la camera dove, su una mensolina, c'è la cornice con la sua foto: l'immancabile cappellino stile Usa in testa. Uno sguardo fiero e dolce al tempo stesso. Quella foto la guardano spesso i miei figli: e mi chiedono di raccontare loro di quell'amico del babbo che è andato in cielo.
Lucio c'è. Qualche volta risento perfino la sua voce, la sua risata. Il suo abbraccio forte, deciso. Ma anche in cerca di solidarietà. La voce: quando l'ho risentita, qualche settimana fa, è stato un sussulto. Me lo ero ripromesso: di ritrovare quella sua intervista, del novembre 2004, quando parlammo di volo, di aerei, di passioni per chi viaggia tra le nuvole. E lo fa per mestiere.
Mi era sorta, allora, spontanea l'idea di intervistarlo: anche per raccontare la sua storia di ragazzo che ama da piccolo in modo viscerale la cloche, e riesce con tenacia e passione, a farla diventare la sua professione. "Un giorno mi piacerebbe insegnare tutto questo. Mi piacerebbe esercitare i più giovani - aveva concluso l'intervista. Non ne ha avuto tempo. Ma di cose - indirettamente - ce ne ha insegnate tante altre.
Ebbene questa intervista, in cinque anni, non l'avevo più riascoltata. Non perché non mi piacesse (tutt'altro). Avevo quasi paura di farlo. In fondo avevo a portata di mano la possibilità di fare rewind: era lì in un dvd, accuratamente riposto nell'archivio TRG. Ma non l'ho mai fatto. Quasi per pudore. Per rispetto. Perché volevo che il ricordo restasse ancorato alla sua voce reale.
Poi sono andato a ritrovarla, l'intervista. E riascoltarlo è stato un colpo al cuore. Autentico. Ma glielo dovevo. Per quanto lo conoscevo (anzi, lo conosco), so che gli sarebbe piaciuto che lo facessi.
E così ho inserito un brano di quell'intervista in una puntata de "L'Attesa...": la trasmissione sulla Festa dei Ceri. La sua Festa. Un brano nel quale ricordava un paio di aneddoti legati ai Ceri. I Ceri: erano usciti fuori anche nell'intervista dedicata al volo. Con lui, era inevitabile.
Ma è stato surreale. Surreale montare quell'intervista. "Maneggiare" col computer la sua voce (l'ho fatto con parsimonia, quasi a non voler rischiare neanche lontanamente, di rovinare il disco); sapendo che quel servizio avrebbe toccato profondamente tante persone. Tanti amici cari. Ma me lo sentivo. E sentivo che anche loro avrebbero apprezzato.
Così come oggi, mi sento di scrivere tutto questo. Senza nè capo, nè coda. Ma semplicemente lasciando "a briglie sciolte" ogni parola che mi viene da dentro.
Senza copione. Ma con quella spontaneità che era nei gesti, nell'indole, nel fare quotidiano, e nell'essere, di Lucio.
Oggi, il 23 giugno, è una giornata strana. Da groppo in gola. Quel pomeriggio me lo ricordo minuto per minuto. Impossibile premere il tasto canc. Dalla telefonata che mi avvertiva di quello che era successo, poco dopo le sei e mezza. Alla lunga corsa in scooter per arrivare in quella strada sperando che ci fosse uno sbaglio. Che il nome che mi era stato fatto non fosse quello giusto. Perfino che esistesse un omonimo.
Non era così.
E ricordo la sofferenza che ho scoperto di poter provare. Quel giorno. Il senso di choc. Immediato. E l'incredulità. Nel dover accettare quel destino, accanto agli amici della muta, tutti lì, a bordo strada, ammutoliti, occhi sbarrati, a chiedersi il perché di quell'assurda sorte... ma anche la assurda necessità di doverlo raccontare - per dovere di cronaca - in un servizio e in un articolo che mi sentii costretto a scrivere. Che non potevo non scrivere. Per assicurarmi che non ci fossero inesattezze. Che non si dicessero fesserie su quanto accaduto. E soprattutto che si descrivesse, come era giusto che fosse, la persona coinvolta.
Quasi che volessi proteggere e vegliare quello che era rimasto di quella tragedia. Il suo profilo, il suo ricordo. Pur nella forma asettica di un pezzo di cronaca.
Non avevo mai scritto un articolo con quello stato d'animo. Gonfio di angoscia. Ma ho capito, quel giorno, cosa provano quelli che poi lo leggono o l'ascoltano, essendone coinvolti direttamente.
Da allora, ogni volta che mi trovo a dover raccontare una tragedia (specialmente una vittima della strada) non posso non immedesimarmi ancora di più nel dolore dei familiari, degli amici, delle persone vicine.
E quello stesso groppo in gola, mi torna. Dritto, diretto. E insostenibile.
L'ultima volta è accaduto l'anno scorso. In un tardo pomeriggio - anche allora - di metà luglio. Sono le 19.30, stiamo finendo il tg, pronto per essere letto. I titoli sono corretti, la registrazione è partita: un minuto e arriva la telefonata di un incidente a Ponte d’Assi. Lì per lì ci scappa un’imprecazione, non sappiamo la gravità della cosa ma non possiamo ignorarla (sappiamo solo che il traffico è bloccato, dunque qualcosa di serio). Un nostro collaboratore si fionda giù, dopo 2 minuti mi chiama con un tono sotterraneo: “Giacomo, è un ragazzo di 15 anni. Dicono che è gravissimo!”. Due minuti ancora e mi richiama: “Giacomo, guarda che il ragazzo è morto!”.
La mia mente già non va più ai titoli, che non si ha più tempo di registrare; non va al servizio, che non ho tempo materiale per confezionare, dovendolo sostituire con una notizia con immagini (tecnicismi assurdi a cui siamo costretti a pensare, anche di fronte a questi drammi).
Va al ragazzo. E in un attimo mi ripiomba addosso tutto.
Quando dico tutto, dico un’infanzia trascorsa ad ascoltare il racconto di un cugino, Lamberto, che appena 20enne lasciò la vita sulla Contessa: morì d’estate, nel 1972 (io avevo 1 anno), ma fu una ferita lacerante per la mia famiglia. Sono cresciuto e il suo ricordo, dipinto attraverso i racconti dei miei, qualche foto bianco e nero anni 70, me lo hanno fatto sentire sempre vicino, come se lo avessi conosciuto davvero (come se ricordassi che mi teneva sulle ginocchia, con il sorriso nascosto dietro le ciocche di capelli lunghi e un paio di Rayban scuri).
Mio padre non si è mai perdonato di non aver insistito per accompagnarlo in auto quel giorno al mare (erano molto legati tra loro), lui insistette per prendere la moto, diceva che ormai camminava con le ruote, non più con le gambe. Non si è mai saputo come è avvenuto l’incidente: lo hanno trovato disteso, lungo la discesa dell’uscita della galleria, che porta verso il bivio per S.Bartolomeo.
Quando dico tutto, dico 23 giugno. Lucio. Quel giorno, quel senso di vuoto d’aria improvviso.
Quando dico tutto, dico i miei figli. Pensare che tra qualche anno saranno a cavallo di un motorino o di una moto… (con me, mio padre fu categorico: non salii mai su qualcosa che non fosse un Sì Piaggio, se non con qualche amico, ma di nascosto…) .
Ecco in giornate così, ti trovi come in una centrifuga. Condensato in un’ora e poco più, un turbinìo di sensazioni, miste allo sconcerto per una storia che ti si conficca come una lama in mezzo al torace e non riesci a togliertela di dosso. Ogni storia, come questa, da quel giorno, lascia un segno.
Pensi alla madre, al padre, pensi agli amici, che magari giocavano insieme fino a mezz’ora prima, pensi a quello che quel ragazzo sognava, alla serata prima, quando ignorava tutto quello che sarebbe accaduto. Ale vacanze che si preparava a trascorrere, serenamente. Ti chiedi dove sia stato per l’ultima volta, se aveva una fidanzatina, come andasse a scuola. Ti chiedi che senso abbia perdere la vita a 15 anni, o a 20. O anche a 39…
Oggi è il 23 giugno. Uno di quei giorni in cui la mente, e non solo quella, è chiamata ad un "viaggio speciale". Prolifico. Prezioso. Carico di ricordi. E inevitabile. Tra sensazioni diverse, contrastanti. Quasi contraddittorie. Ma se ancora riusciamo a provare tutto questo, vuol dire che anche chi non è più con noi, in realtà è ancora accanto a noi.
Lucio c'è. Anche per questo.
mercoledì 23 giugno 2010
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grazie giacomo....magda
RispondiEliminaps: ho dovuto mettere anonimo perchè nn sono capace di mettere la mia mail, magari un giorno me lo spieghi!!!!grazie magda
RispondiEliminaChe dirti Giacomo! Grazie, mi sembra una parola così inadeguata e limitata per quanto è uscito dal tuo cuore. Ma non riesco a trovare parola diversa, e allora mi protendo verso di te abbracciandoti forte forte, accarezzandoti la testa mentre ti bacio la fronte, caro Giacomo!!!! Stamperò la tua Dichiarazione d'Amicizia per farla leggere anche ai miei. Grazie anche per la foto che noi non avevamo. Ti stringo forte! Donatella
RispondiEliminacaro Giacomo,quel video,il suo sorriso,la sua voce...una stretta al cuore...i ricordi fanno parte di noi,anche quelli dolorosi,quelli che anche a distanza di anni ci fanno salire le lacrime agli occhi,quelli che si mescolano ai ricordi più belli, quei flash che ci fanno tornare il sorriso,quelle immagini nitide nella mente alle quali ci aggrappiamo con tutta la forza possibile perchè rappresentano l'ultimo contatto terreno che ci rimane....e così è con Lucio....un incontro in una giornata di maggio,ignari che il destino lo avrebbe portato lontano dal nostro sguardo di lì a poco,il suo sorriso,le sue parole...tutto indelebile nella mente nei minimi particolari...tutto indelebile nel cuore per sempre...un abbraccio a Franca,Donatella e tutta la famiglia.Luana.
RispondiEliminaSono certa che la vita non possa finire su una strada o con una malattia! Lo sò fin da piccola ..o forse è solo una furba illusione per soffrire meno,no..ne sono certa! La vita non può finire a 15 a 20 o a 70 anni..ci si congeda solo da questa per continuarne una migliore lassù!Deve per forza essere così,voglio credere che sia così!A presto Lucio!Luisa, Mirco, Iolanda,Raffaele
RispondiEliminaNon mai avuto modo di raccontarlo, non ce n’è mai stato modo o forse ………. Quel pomeriggio Lucio era passato come tante altre volte, a Pizza Grande, dove giravamo Don Matteo, a salutare la troupe, lui che per le prime due serie era stato il carabiniere per antonomasia, amato e ricordato da tutti per la sua simpatia, leggerezza e ….bellezza. In divisa era bellissimo. Quel pomeriggio, tornata a casa, mi marito, in lacrime, mi da la triste notizia. Serena …lo rassicuro, non poteva essere, era stato meno di un’ora prima con me a scherzare, non era possibile. Invece la cruda realtà mi ha sconfessata.
RispondiEliminaLa vita è così fugace, lo so per esperienza, che spesso il fato non concede il tempo a chi lo vuole e a chi lo ama e in un attimo si porta via tutto il tuo futuro , le tue speranze, i tuoi sogni.
Mi fa piacere che il suo ricordo scanzonato è impresso nella mente di ognuno di noi, in forme diverse, secondo di come si è conosciuto, ma la cosa più bella è che, pur essendo piccoli, anche i miei figli lo ricordano. Ciao Lucio