Chissà se Pierre De Coubertin c'ha mai pensato. Per lui, per l'inventore delle Olimpiadi moderne, il motto era "l'importante è partecipare". Magari la filosofia, un po' tibetana, un po' Ghandi, ci può stare. Quando parli di spirito olimpico, in fondo, racconti una storia da poltrona di fronte al camino e nipotino sulle ginocchia.
Quando sei in campo, però, la storia è un'altra.
E la storia che mi piace ricordare di questi Giochi Olimpici londinesi - ancor prima che si chiuda il sipario - è quella di una maledizione. E della forza d'animo che il destino ti richiede per superarla.
In Messico c'era la "sindrome di Montezuma": silenziosa e invisibile, ti pigliava l'apparato gastro-intestinale e ti condannava ad un rapporto carnale con il wc per almeno una settimana.
In Gran Bretagna non ci sono leggende azteca, ma la iattura è legata ai quarti posti. A quel gradino del podio che non esiste, quella medaglia "di legno" così vicina ma così distante dai metalli pregiati. Così impalpabile e così beffarda da cancellare il prestigio che un posto d'onore - quale comunque è la quarta piazza di una gara olimpica - dovrebbe suscitare.
Invece quella casella vuota, inesistente nel podio e misconosciuta nel medagliere, somiglia ad una macumba.
E se esiste un quarto posto da dover digerire con l'alca selzer, è quello che scaturisce nelle discipline sportive che dipendono dal giudizio arbitrale.
Perchè se manchi una stoccata (come Baldini nel fioretto individuale) o se hai tre imbarcazioni davanti (come nel canottaggio), puoi prendertela con te stesso o tutt'al più con quell'essenza impercettibile chiamata "dea bendata".
Ma quando al quarto posto ti spedisce la paletta di un giudice, la storia si fa intricata. E mandarla giù diventa una scalata da K2.
Tania Cagnotto, Vanessa Ferrari, Alberto Busnari: tre personaggi diversi tra loro, diversamente conosciuti al grande pubblico, ma accomunati dal triste destino di un quarto posto "a tavolino". Il tutto nel giro di poche ore. Una medaglia "di legno" assegnata da valutazioni quanto meno discutibili, quando non addirittura risibili. O da meccanismi incomprensibili come nel caso della giovanissima ginnasta azzurra che, pur a pari merito con l'avversaria russa, si vede costretta a scalare al quarto posto per un maggior "decremento" di risultato in fase di esecuzione. Come dire "mi stai sulle balle, e ti lascio fuori dal podio".
Curioso, per quanto gravido di amarezza sportiva, notare come le tre vicende abbiano vissuto reazioni diverse, su binari differenti. Forse anche perchè differenti sono le storie sportive dei malcapitati.
La Cagnotto è vittima sacrificale del verdetto olimpico: per lei il quarto posto ha le sembianze di una condanna, a Londra di un verdetto sadico. Quarta nel sincro con la Dallapè, quarta nel singolo dai 3 metri, con un'esecuzione decisamente sottovalutata dai giudici (in particolare un inglese che le ha assegnato 7,5 contro un 9 incomprensibile alla messicana, poi finita sul podio). L'ha presa con sostanziale filosofia. A caldo le lacrime sono inevitabili, il giorno dopo sorride al microfono e rassicura: "Continuerò ad allenarmi e guardo avanti".
Una forza d'animo che nasce anche dai suoi 27 anni, da tanti allori ma anche da tante sconfitte. Messe alle spalle e pian piano diventate pietre sulle quali costruire il restante cammino.
Chi deve capirlo, invece, è Vanessa Ferrari, appena 18enne, cui un giudice avaro ha negato un bronzo che sembrava sacrosanto: lacrime da copione sì, ma anche tanta rabbia. Da farle dire "Forse mollo tutto".
Alle due reginette negate, fa da contraltare il silenzio sorridente e quieto di Busnari: alla sua terza Olimpiade voleva (e meritava) il podio, il suo esercizio è parso addirittura sontuoso nella esecuzione, ma il tavolo inquisitorio non gli ha regalato nulla più che la medaglia di legno. Se ne è uscito con ironia, dalla pedana come dai microfoni, lasciando il livore ad altre e più ignobili reazioni.
Finire fuori a causa altrui non è bello. E non è questione di estetica. Ognuno nel proprio campo, quando si mette in gioco, cerca di ottenere il massimo. Non è arrivismo, è giusta ambizione. Non è fanatismo, è voglia di realizzarsi. Se c'è qualcuno più bravo, chapeau. Se invece è un tavolo dietro al quale ignoti personaggi (dalla competenza tutta da dimostrare) si ergono a inquisitori, puntando il dito o decidendo inesorabilmente del destino altrui - senza cognizione di causa o senza quel buon senso che dovrebbe ispirare chi veste i panni della terzietà - allora c'è molto da rivedere. E c'è una naturale idiosincrasia verso quelle discipline che dipendono in tutto o quasi dal giudizio altrui. Che in quanto soggettivo sarà sempre oggettivamente destinato a scontentare.
Una sensazione che ho provato personalmente (e non in campo sportivo). E sulla quale saggezza consiglia di lasciare le reazioni al giorno dopo. L'istante successivo, l'impatto a caldo, farebbe dire e fare cose di cui poi ci si potrebbe pentire... Ma l'amaro resta, anche a distanza di tempo.
Un ultimo pensiero per Alex Schwazer: suo malgrado, questa Olimpiade, almeno per gli italiani, porterà anche il suo nome. Quattro anni fa era stato l'unico oro del medagliere dell'atletica. Quest'anno sarà il volto simbolo della sconfitta umana, prima ancora che sportiva.
Non voglio giudicare, perchè già lo ha fatto il diretto protagonista da solo. Ho già detto in un'altra occasione (e in un altro post, su vicenda del tutto differente) che quando si chiede scusa, quando ci si mette la faccia in ciò che si sbaglia, si compie un gesto di una nobiltà ben più grande di quanto sia effettivamente deprecabile l'atto di cui ci si scusa.
L'atleta Schwarzer è già finito da tempo (e la scelta di darsi all'Epo ne è stato come il campanello d'allarme). Ora c'è da recuperare l'uomo. Che non può essere lasciato solo - come avvenne invece per Marco Pantani. E non può essere deliberatamente maltrattato da quel circus mediatico che ogni quattro anni chiama all'appello personaggi ed atleti lasciati nell'ombra nel tempo restante, invocandoli come "salvatori della Patria".
Schwazer non sarà e non dovrà essere un esempio per l'errore che ha commesso. Ma deve esserlo per il coraggio di affrontare quel mondo che oggi lo giudica con la supponenza di chi, a parole, non ha mai cercato una scorciatoia per vincere paure e debolezze.
Un abbraccio, più che un monito o un giudizio, è quello che mi sentirei di dare a Schwazer, se fossi a Bolzano. Invidiandogli le montagne che lo circondano e la forza con cui ha affrontato lo scoglio più difficile: chiedere scusa davanti a tutti. Un'impresa che vale più di 50 km di marcia...
mercoledì 8 agosto 2012
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