Voglio ricordamelo così,
il 15 maggio di quest'anno. Con quello che resta dei miei pantaloni
bianchi.
Un "assalto alla
baionetta" al destino piovoso e diluviante di un giorno atteso
un anno intero. Un'ascesa voluta, cercata, sofferta, dopo un
contrattempo muscolare che mi ha impedito di godermi forse quella che
sarebbe stata la più bella Callata.
Tenendo però
indirettamente "a battesimo" un ragazzo che non conoscevo.
Il caso ha voluto che fosse spuntato durante la mostra. Che fosse un
"Moscone", proprio come la mia nonna materna. Quella nonna
Artemia che mi raccontava come suo fratello Piero, morto in Africa
dove stava facendo fortuna nel dopoguerra, faceva la punta davanti
della Callata dei Neri con Sant'Antonio. Non conoscevo Luca, il
ragazzo spuntato dal nulla.
Ma mi sono sentito di
raccontargliela la storia dello "zio Piero". Sentivo che se
qualcuno lo avesse fatto con me, mi avrebbe regalato una carica
incredibile.
Anche se lui, ancor meno
che me, aveva idea di chi fosse Piero Sannipoli. Morto di malattia
incurabile a 6mila km da qui, più di 60 anni fa.
Il 15 maggio 2016 resterà
quello della giornata a due facce: calda e assolata in Piazza Grande
per l'alzata, fredda e grondante nella corsa del pomeriggio,
soprattutto dopo il mercato.
Guardavo le facce dei miei
amici di muta, prima delle girate: con loro ho condiviso due anni di
piogge in Piazza Grande.
Dove quando c'è il
bagnato si gioca un altro sport. La testa conta ancor più delle
gambe, si corre sopra un letto di uova, cercando di non romperle e di
girare prima che venga fuori il pulcino.
Una giornata dai due
volti. Perché non pensavo che per una manciata di secondi avrei
passato la paura più grande dei miei 44 quindici maggio.
Curva della statua,
passaggio dei Ceri. Sono le 6 appena scoccate. Arrivo rincorrendo il
mio Sant'Antonio, dopo aver assistito a metà Callata al passaggio
vorticoso dei giganti e varcato lo spigolo che innesta sul Corso
allungo il collo per scorgere qualche fotogramma della corsa da
dietro. Non guardo per terra, perché quando sei nella calca cammini
come se sapessi dove mettere esattamente i tuoi piedi. Ma la calca
della Statua, dopo il passaggio dei Ceri, evidentemente ha le sue
trappole. Che non puoi e non devi sottostimare.
Sento sbattere uno stinco
su un ostacolo, non faccio in tempo ad abbassare lo sguardo, che con
l'altra gamba ne trovo un altro ancora più grande. Il tempo di
voltarmi e mi ritrovo carponi sopra un groviglio di teste e di corpi
senza volto. Colori diversi che si mescolano e mi inghiottiscono fino
alla vita. Sento premere alle spalle e mi rendo conto in un secondo
che quella spinta che mi arriva e' la calca di centinaia di persone
che grondano dalla Callata. Senza nessuna possibilità di sapere cosa
stanno schiacciando.
Provo a muovere le gambe
ma è impossibile. Cerco di capire se per i due arti inferiori,
almeno, posso evitare fratture o distorsioni.
Non trovo la forza di
urlare anche se intorno a me tutti lo fanno. Cerco di mantenere un
minimo di lucidità, anche se l'istinto vorrebbe esplodere. Posso
solo voltarmi con la parte superiore del busto, l'unica in grado di
muoversi. E vedo tante persone rivolte verso la Callata a braccia
alte urlare, a chi scende di corsa, di fermarsi. Sennò è l'inferno.
Per un attimo prego
qualunque cosa somigli al soprannaturale che quelle grida qualcuno le
ascolti.
Mi giro ancora e vedo una
ragazza riversa a terra con un keeway rosso. Non posso vederla in
faccia: ce l'ha schiacciata sul pavimento bagnato del Corso, con
almeno una ventina di persone sopra di lei, forse non può neanche
gridare, visto che anche torace e diaframma non hanno spazio.
Comincio a pensare che da
lì e' bene tirarsi fuori in una questione di secondi. Per evitare il
peggio.
Ma come? Districarsi e'
impossibile e si rischia di contorcersi ginocchia o caviglie in un
tritacarne micidiale.
L'angoscia comincia a
prendere il sopravvento quando sento alleggerirmi le spalle. Qualcuno
evidentemente ha fermato l'emorragia di persone che si accalcano
sopra. Ci si disincaglia uno ad uno. Si riacquista la calma. O forse,
meglio dire, il raziocinio. Finché non sono fuori, però, non posso
dirmi fuori.
Spingo con gli scarponi su
qualcosa di più solido di un corpo sottostante, forse tocco terra,
ed estraggo una gamba e poi rabbiosamente anche l'altra. Salto su da
quell'ammasso di corpi, sguscianti come anguille appena pescate, e
scappo via almeno 10 metri più avanti senza neanche guardare.
Saranno passati si e no,
30-40 secondi. Ma sono stati i più lunghi della mia vita.
Almeno di quella vissuta
il 15 maggio. Più o meno la durata di una spallata. Molto peggio di
una spallata. Sotto il cero, ho pensato, paradossalmente sei più "al
sicuro".
Mi ritrovo con Matteo
Passeri, il guardialinee. Mi dice: "C'eri anche tu li sotto?".
Gli rispondo di si e sorridiamo insieme al pericolo scampato. Per un
attimo ci è venuto di pensare all'Heysel.
Qualcuno, a noi, per
fortuna ci ha aiutato, ci ha tirato fuori di lì.
Ma sono bastati questi 30
secondi e poco più per capire che il 15 maggio non bisogna
distrarsi. Neanche se ti senti ormai navigato.
Faccio cento metri e sento
parlare tre ragazze con una quarta. È sfinita come avesse fatto a
piedi 50 km a gamba zoppa.
Ha il keeway rosso. Le
chiedo se era lei sotto quel groviglio di persone. Mi dice di si.
Mi limito a dirle: "Ci
è andata bene. Ho temuto grosso. Dobbiamo ringraziare qualcuno che
ci protegge dall'alto".
Dal basso, invece,
c'eravamo davvero cacciati in un brutto pasticcio. Che dopo 30 anni
di cero non avrei mai pensato neanche di immaginare. Il 15 maggio
2016 mi ha insegnato anche questo.
Cosa resta di questo
giorno, al di fuori del patema autobiografico?
Resta un cero di San
Giorgio che si ferma in via Baldassini durante la mostra. Quasi a
dire che non è una bestemmia pensare un giorno li' tutti tre i Ceri,
prima dell'alzatella.
Resta una statuina di
sant'Ubaldo sulla porta della chiesa. Quasi ad attendere l'arrivo dei
suoi "fratelli di corsa", dopo aver dovuto subire
l'imposizione di una mancata festa.
Resta l'impeto
appassionante del coro dell'armata sangiorgiara, che solca la città
prima della sfilata sfidando il mondo ceraiolo dall'alto di una
fierezza invidiabile. Fierezza che i santantoniari, non da meno,
hanno saputo aggredire e contrastare per la prima volta dopo anni
ininterrottamente dal "sinistro avanti" di via Dante fino
alla Cia.
E in mezzo, ci scappa pure
una ginocchiata che ho dovuto affibbiare ad un improvvido
sangiorgiaro poco sopra la seconda cappelluccia, rimasto a rimirare
di spalle il suo cero, in mezzo allo stradone, quasi non sapendo che
dietro, a due passi, ne sarebbe arrivato un altro. Dove mi trovavo a
punta davanti. Sono rimasto punta davanti. Lui è' finito steso fuori
dalla scia della nostra muta.
Non so chi sia. Ma se mi
legge, sappia che non gli chiedo scusa.
Resta la gioia
incontenibile della taverna santantoniara. Dove fino a tarda ora si
canta e ci si bea di una corsa irrefrenabile, incomparabile e forse
anche impensabile fino a qualche giorno prima proprio in quell'orto.
È il 15 maggio del "W
i ceri grandi", la frase che leggo sul labiale dell'amico
Matteo. Giocosa e dispettosa perifrasi che usavamo dirci
abbracciandoci nel chiostro ogni anno, con la leggerezza di chi
gioisce dell'ebbrezza di una giornata unica, dell'animosità di uno
sforzo senza pari, del nirvana appena raggiunto. Goliardia anestetica
e ironica sufficienza che si fondono in un fanatico grido.
Rinnovatosi stavolta da lontano. Lui sulle stanghe, io tra la folla
risalente. Ma leggibile, almeno ai miei occhi, come se
quell'abbraccio ci fosse ancora.
È il 15 maggio delle
lacrime agli occhi dell'amico Mirko, che durante la mostra mi confida
di aver preso anche quest'anno un frammento di brocca da portare
sulla tomba di suo padre. "Perché lui la raccoglieva sempre, e
voglio onorarlo così perché so che apprezzerà questo mio dono".
È il 15 maggio di Maria
Grazia e Roberto, due amici veneti, conosciuti per caso il luglio
scorso, catapultati a Gubbio per pura curiosità, che ho accompagnato
nel racconto della Festa dal "doppio" del 14. E
innamoratisi follemente di questa città. Tanto da arrivare a piedi
fino in Basilica sotto l'acquazzone: vezzo comprensibile per un
eugubino, ma certo meno prevedibile da chi a Gubbio aveva passato
finora meno di 2 giorni.
E' il 15 maggio di Mattia
che per la prima volta lontano dalla sua città e dalla sua Festa
scrive da Milano parole sofferte per dire grazie alla diretta di TRG. Ho pensato per un attimo anche a lui, la mattina, alle girate, incrociando con un saluto fugace suo fratello Filippo prima che entrasse.
E, dopo questo turbinio di
ricordi, non mi restano che quei pantaloni stracciati. Divelti dalla
calca della Statua, infangati dalla salita al monte, annaffiati dalla
gioia dei canti di ritorno in taverna. Dopo una corsa semplicemente
sensazionale. Il cui unico difetto, (in senso egoistico, lo so) e' di
essere "meno mia" che in passato.
Ma io c'ero. Anche
quest'anno.
Con le mie emozioni. I
miei brividi. I miei calzoni strappati e infangati. La mia camicia
ormai tendente al grigio, il fazzoletto non più rosso ma rosato, gli
scarponi da trekking ingombranti ma rassicuranti.
E la mia voglia di
viverla. La Festa. Perché anche se la spallata non è più quella di
un tempo, la Festa c'è e resta li. Aspettando solo di dominarci (per
dirla con Giacche').
La Festa resta anche mia.
O forse sono ancora più suo. Ancor più dopo questo 15 maggio, sento
di appartenerle.