Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

giovedì 23 giugno 2016

11 anni dopo, restiamo tutti "di passaggio"... come il tuo aereo

Oggi, dopo 11 anni, mi piace ricordarti così.
Un po' da lontano ma ben riconoscibile.
Con la tua chitarra, mentre accompagni i nostri canti, un po' sguaiati, ma appassionati; un po' appannati ma carichi di voglia di stare insieme.
In un luogo lontano, indistinguibile, di una campagna eugubina assolata e un po' silente. Quasi ad ascoltare quelle voci che si irradiavano in attesa del mese più intenso.
Uno spicchio di campagna lontana. Ma come se fosse qui. Proprio come se fossi qui...

In fondo, siamo solo piu' vecchi di 11 anni.
Abbiamo fatto tante cose. Non tutte di cui serbare un vero ricordo. Alcune, quelle si', anche nel tuo ricordo.
Sfogliando il libro delle firme, dei pensieri, dei sentimenti dedicati, che ti siedono accanto, dentro la cappella, sono ancora più certo che ognuno di noi non e' cio' che la vita ha la fortuna di dargli.
Ma ciò che con la vita sia ha la possibilità di lasciare agli altri.
Non siamo ciò che otteniamo, ma ciò che diamo.
Non conta quanto vivi, ma come vivi.
Senza "se".
Sono passati 11 anni, Lucio.
Ma restiamo tutti "di passaggio", come scrivevi tu.
Siamo come il tuo aereo...

giovedì 19 maggio 2016

Quei pantaloni bianchi stracciati e vissuti... di un altro 15 maggio di vita

Voglio ricordamelo così, il 15 maggio di quest'anno. Con quello che resta dei miei pantaloni bianchi.
Un "assalto alla baionetta" al destino piovoso e diluviante di un giorno atteso un anno intero. Un'ascesa voluta, cercata, sofferta, dopo un contrattempo muscolare che mi ha impedito di godermi forse quella che sarebbe stata la più bella Callata.
Tenendo però indirettamente "a battesimo" un ragazzo che non conoscevo. Il caso ha voluto che fosse spuntato durante la mostra. Che fosse un "Moscone", proprio come la mia nonna materna. Quella nonna Artemia che mi raccontava come suo fratello Piero, morto in Africa dove stava facendo fortuna nel dopoguerra, faceva la punta davanti della Callata dei Neri con Sant'Antonio. Non conoscevo Luca, il ragazzo spuntato dal nulla.
Ma mi sono sentito di raccontargliela la storia dello "zio Piero". Sentivo che se qualcuno lo avesse fatto con me, mi avrebbe regalato una carica incredibile.
Anche se lui, ancor meno che me, aveva idea di chi fosse Piero Sannipoli. Morto di malattia incurabile a 6mila km da qui, più di 60 anni fa.

Il 15 maggio 2016 resterà quello della giornata a due facce: calda e assolata in Piazza Grande per l'alzata, fredda e grondante nella corsa del pomeriggio, soprattutto dopo il mercato.
Guardavo le facce dei miei amici di muta, prima delle girate: con loro ho condiviso due anni di piogge in Piazza Grande. 
Dove quando c'è il bagnato si gioca un altro sport. La testa conta ancor più delle gambe, si corre sopra un letto di uova, cercando di non romperle e di girare prima che venga fuori il pulcino.
Una giornata dai due volti. Perché non pensavo che per una manciata di secondi avrei passato la paura più grande dei miei 44 quindici maggio.

Curva della statua, passaggio dei Ceri. Sono le 6 appena scoccate. Arrivo rincorrendo il mio Sant'Antonio, dopo aver assistito a metà Callata al passaggio vorticoso dei giganti e varcato lo spigolo che innesta sul Corso allungo il collo per scorgere qualche fotogramma della corsa da dietro. Non guardo per terra, perché quando sei nella calca cammini come se sapessi dove mettere esattamente i tuoi piedi. Ma la calca della Statua, dopo il passaggio dei Ceri, evidentemente ha le sue trappole. Che non puoi e non devi sottostimare.
Sento sbattere uno stinco su un ostacolo, non faccio in tempo ad abbassare lo sguardo, che con l'altra gamba ne trovo un altro ancora più grande. Il tempo di voltarmi e mi ritrovo carponi sopra un groviglio di teste e di corpi senza volto. Colori diversi che si mescolano e mi inghiottiscono fino alla vita. Sento premere alle spalle e mi rendo conto in un secondo che quella spinta che mi arriva e' la calca di centinaia di persone che grondano dalla Callata. Senza nessuna possibilità di sapere cosa stanno schiacciando.
Provo a muovere le gambe ma è impossibile. Cerco di capire se per i due arti inferiori, almeno, posso evitare fratture o distorsioni.
Non trovo la forza di urlare anche se intorno a me tutti lo fanno. Cerco di mantenere un minimo di lucidità, anche se l'istinto vorrebbe esplodere. Posso solo voltarmi con la parte superiore del busto, l'unica in grado di muoversi. E vedo tante persone rivolte verso la Callata a braccia alte urlare, a chi scende di corsa, di fermarsi. Sennò è l'inferno.
Per un attimo prego qualunque cosa somigli al soprannaturale che quelle grida qualcuno le ascolti.
Mi giro ancora e vedo una ragazza riversa a terra con un keeway rosso. Non posso vederla in faccia: ce l'ha schiacciata sul pavimento bagnato del Corso, con almeno una ventina di persone sopra di lei, forse non può neanche gridare, visto che anche torace e diaframma non hanno spazio.
Comincio a pensare che da lì e' bene tirarsi fuori in una questione di secondi. Per evitare il peggio.
Ma come? Districarsi e' impossibile e si rischia di contorcersi ginocchia o caviglie in un tritacarne micidiale.
L'angoscia comincia a prendere il sopravvento quando sento alleggerirmi le spalle. Qualcuno evidentemente ha fermato l'emorragia di persone che si accalcano sopra. Ci si disincaglia uno ad uno. Si riacquista la calma. O forse, meglio dire, il raziocinio. Finché non sono fuori, però, non posso dirmi fuori.
Spingo con gli scarponi su qualcosa di più solido di un corpo sottostante, forse tocco terra, ed estraggo una gamba e poi rabbiosamente anche l'altra. Salto su da quell'ammasso di corpi, sguscianti come anguille appena pescate, e scappo via almeno 10 metri più avanti senza neanche guardare.
Saranno passati si e no, 30-40 secondi. Ma sono stati i più lunghi della mia vita.
Almeno di quella vissuta il 15 maggio. Più o meno la durata di una spallata. Molto peggio di una spallata. Sotto il cero, ho pensato, paradossalmente sei più "al sicuro".

Mi ritrovo con Matteo Passeri, il guardialinee. Mi dice: "C'eri anche tu li sotto?". Gli rispondo di si e sorridiamo insieme al pericolo scampato. Per un attimo ci è venuto di pensare all'Heysel.
Qualcuno, a noi, per fortuna ci ha aiutato, ci ha tirato fuori di lì.
Ma sono bastati questi 30 secondi e poco più per capire che il 15 maggio non bisogna distrarsi. Neanche se ti senti ormai navigato.
Faccio cento metri e sento parlare tre ragazze con una quarta. È sfinita come avesse fatto a piedi 50 km a gamba zoppa.
Ha il keeway rosso. Le chiedo se era lei sotto quel groviglio di persone. Mi dice di si.
Mi limito a dirle: "Ci è andata bene. Ho temuto grosso. Dobbiamo ringraziare qualcuno che ci protegge dall'alto".
Dal basso, invece, c'eravamo davvero cacciati in un brutto pasticcio. Che dopo 30 anni di cero non avrei mai pensato neanche di immaginare. Il 15 maggio 2016 mi ha insegnato anche questo.

Cosa resta di questo giorno, al di fuori del patema autobiografico?
Resta un cero di San Giorgio che si ferma in via Baldassini durante la mostra. Quasi a dire che non è una bestemmia pensare un giorno li' tutti tre i Ceri, prima dell'alzatella.
Resta una statuina di sant'Ubaldo sulla porta della chiesa. Quasi ad attendere l'arrivo dei suoi "fratelli di corsa", dopo aver dovuto subire l'imposizione di una mancata festa.
Resta l'impeto appassionante del coro dell'armata sangiorgiara, che solca la città prima della sfilata sfidando il mondo ceraiolo dall'alto di una fierezza invidiabile. Fierezza che i santantoniari, non da meno, hanno saputo aggredire e contrastare per la prima volta dopo anni ininterrottamente dal "sinistro avanti" di via Dante fino alla Cia.
E in mezzo, ci scappa pure una ginocchiata che ho dovuto affibbiare ad un improvvido sangiorgiaro poco sopra la seconda cappelluccia, rimasto a rimirare di spalle il suo cero, in mezzo allo stradone, quasi non sapendo che dietro, a due passi, ne sarebbe arrivato un altro. Dove mi trovavo a punta davanti. Sono rimasto punta davanti. Lui è' finito steso fuori dalla scia della nostra muta.
Non so chi sia. Ma se mi legge, sappia che non gli chiedo scusa.
Resta la gioia incontenibile della taverna santantoniara. Dove fino a tarda ora si canta e ci si bea di una corsa irrefrenabile, incomparabile e forse anche impensabile fino a qualche giorno prima proprio in quell'orto.

È il 15 maggio del "W i ceri grandi", la frase che leggo sul labiale dell'amico Matteo. Giocosa e dispettosa perifrasi che usavamo dirci abbracciandoci nel chiostro ogni anno, con la leggerezza di chi gioisce dell'ebbrezza di una giornata unica, dell'animosità di uno sforzo senza pari, del nirvana appena raggiunto. Goliardia anestetica e ironica sufficienza che si fondono in un fanatico grido. Rinnovatosi stavolta da lontano. Lui sulle stanghe, io tra la folla risalente. Ma leggibile, almeno ai miei occhi, come se quell'abbraccio ci fosse ancora.
È il 15 maggio delle lacrime agli occhi dell'amico Mirko, che durante la mostra mi confida di aver preso anche quest'anno un frammento di brocca da portare sulla tomba di suo padre. "Perché lui la raccoglieva sempre, e voglio onorarlo così perché so che apprezzerà questo mio dono".
È il 15 maggio di Maria Grazia e Roberto, due amici veneti, conosciuti per caso il luglio scorso, catapultati a Gubbio per pura curiosità, che ho accompagnato nel racconto della Festa dal "doppio" del 14. E innamoratisi follemente di questa città. Tanto da arrivare a piedi fino in Basilica sotto l'acquazzone: vezzo comprensibile per un eugubino, ma certo meno prevedibile da chi a Gubbio aveva passato finora meno di 2 giorni.
E' il 15 maggio di Mattia che per la prima volta lontano dalla sua città e dalla sua Festa scrive da Milano parole sofferte per dire grazie alla diretta di TRG. Ho pensato per un attimo anche a lui, la mattina, alle girate, incrociando con un saluto fugace suo fratello Filippo prima che entrasse. 

E, dopo questo turbinio di ricordi, non mi restano che quei pantaloni stracciati. Divelti dalla calca della Statua, infangati dalla salita al monte, annaffiati dalla gioia dei canti di ritorno in taverna. Dopo una corsa semplicemente sensazionale. Il cui unico difetto, (in senso egoistico, lo so) e' di essere "meno mia" che in passato.
Ma io c'ero. Anche quest'anno.
Con le mie emozioni. I miei brividi. I miei calzoni strappati e infangati. La mia camicia ormai tendente al grigio, il fazzoletto non più rosso ma rosato, gli scarponi da trekking ingombranti ma rassicuranti.

E la mia voglia di viverla. La Festa. Perché anche se la spallata non è più quella di un tempo, la Festa c'è e resta li. Aspettando solo di dominarci (per dirla con Giacche').

La Festa resta anche mia. O forse sono ancora più suo. Ancor più dopo questo 15 maggio, sento di appartenerle.

mercoledì 23 marzo 2016

La cittadinanza a Zeffirelli? Scusate il ritardo...

Di tutto un blog...

MEGLIO TARDI CHE MAI... FORSE
La nostra città ha un nuovo cittadino onorario. Alla veneranda età di 93 anni, il maestro per eccellenza del cinema e del teatro italiano, Franco Zeffirelli, tiene in mano la pergamena che lo elegge cittadino onorario di Gubbio. Lui, fiorentino nel dna, nel carattere irascibile, nella sensibilità acuta per ciò che è bello e affascinante, ha almeno avuto miglior sorte di chi, fiorentino d'origine, da Gubbio era stato diversamente omaggiato (grazie a Cante Gabrielli) finendo ramingo in quel di Ravenna. E mentre a distanza di quasi 800 anni arrivano le scuse al Sommo Poeta, in extremis arriva un ideale grazie a Franco Zeffirelli, che per primo, tra il 1968 e il 1971 – decisamente in tempi non sospetti e con una Gubbio ben diversa da quella che i restauri e la ristrutturazione tra anni 70 e 80 hanno riconsegnato – fece della Città di Pietra il palcoscenico di se stessa, sorprendendo forestieri quanto gli eugubini stessi, scegliendola quale scenografia naturale di due capolavori della storia del cinema, l'uno celebrato con i premi (Romeo e Giulietta) l'altro con l'immaginario collettivo (se si parla di un film di San Francesco, ovunque nel mondo si pensa all'opera di Zeffirelli).
L'emozione di questa giornata è nell'opportunità felice di poter passeggiare con lo sguardo nei salotti del maestro fiorentino, nella sua splendida residenza romana: un carosello di volti, protagonisti, star internazionali che fanno riflettere un attimo su chi sia davvero quest'uomo. E anche su quanto tempo una città irascibile e a suo modo “ghibellina” come Gubbio abbia perso prima di coniugare il suo nome con questo grande artista: che 20 o 30 anni fa avrebbe, lui sì, potuto generare opportunità inimmaginabili di promozione e immagine per Gubbio. Come poi nei fatti ha indirettamente dimostrato uno dei suoi “discepoli” artistici, Paolo De Andreis. Spero che gli Eugubini sappiano la fortuna che hanno” le profetiche parole di Zeffirelli.

EDUCAZIONE... DIFFERENZIATA
Entro il 2016 la nostra città, come le altre in Umbria, dovrà raggiungere quota 60% nella raccolta differenziata. E' lodevole lo sforzo con cui l'amministrazione comunale (e l'assessore Tasso in primis) si prodiga per incentivare questo che dovrebbe essere semplice “Senso Civico". A distanza però di quasi 15 anni dall'introduzione del nuovo sistema ancora troppi eugubini non sanno che pesci pigliare. O meglio, non sanno neanche che i pesci vanno nell'organico. 
La foto a fianco è emblematica, di pochi giorni fa: in un solo gesto, due errori madornali. Il primo è deporre in strada due diversi “raccolti” differenziati (considerando che solo uno, almeno quel giorno, sarebbe stato ritirato). L'altro errore, è mettere l'organico in una qualsiasi busta nera di plastica – rendendolo di fatto inutilizzabile. Ecco, scene di questo tipo ancora sono fin troppo diffuse nei vari punti della città che ospitano il poco gradevole spettacolo della raccolta differenziata. Ci saranno pure state carenze informative, ma i primi a fare mea culpa, stavolta, devono essere quei cittadini che non la fanno differenziata o che la fanno “tanto per tenere pulita la coscienza”. Quella almeno, siamo sicuri, non deve finire nell'organico...

E MALEDUCAZIONE INDIFFERENZIATA
Altra questione, è quanto è capitato, loro malgrado, ai cassonetti di S.Vittorino: per gli autori geniali di questo gesto – ribaltarli e gettarli in un dirupo - non servono incontri, informazione mirata e incentivi. Come per chi imbratta ogni fine settimana vicoli e piazze del centro storico. Per loro la bellezza, decantata da Zeffirelli, fa rima con “monnezza”.


Da editoriale "Gubbio oggi" - marzo 2016

giovedì 17 marzo 2016

Quelle sconfitte che ti fanno sentire più forte di prima...

Credo la grandezza di una persona la si veda soprattutto nelle sue sconfitte. E nel modo in cui reagisce.
Lo sport, e il calcio in primis, è una metafora plastica di questo assunto. Che dovrebbe farci compagnia ogni giorno, soprattutto in quei momenti in cui tutto sembra girarti contro. O in cui magari, ad un passo dalla meta, dal traguardo, dal raggiungimento di un obiettivo, qualcosa o qualcuno si mettono di mezzo. E vanificano tutto.
Ecco, quello è il momento di non abbattersi, di rispondere alle avversità. Di sentirsi ancor di più orgoglioso di chi sei, di quello che fai e soprattutto di quello che ancora puoi realizzare. A dispetto delle avversità.

Per qualcuno sembrerà una comoda consolazione. Ma è pur sempre meglio che piangersi addosso, cadere nella facile teoria dei complotti o del vittimismo (quel che va male, è sempre colpa di qualcun'altro) o peggio ancora, considerare irraggiungibile quella meta che è sfuggita di un niente.

Penso a tutto questo con la mente a ieri sera, alla partita della Juve a Monaco. Un 4-2 che ricorderemo per un pezzo. E caso mai ce lo scordassimo, ci penseranno i tifosi delle altre squadre italiane a rinfrescare la memoria: se non altro per lenire la propria carenza ormai cronica di successi negli stadi di casa.

In Germania, come allo Stadium, la Juventus ha dimostrato di essere ancora più grande dello scorso anno. Lo ha fatto contro un avversario che, a questo punto, potrebbe vincere la Champions. Giocando alla pari almeno il 70% dei 210 minuti delle due gare, pareggiando 2-2 i due confronti al 90' e dimostrando di essere competitiva in Europa per il secondo anno di fila, nonostante una squadra largamente rinnovata, in estate, e largamente rimaneggiata nelle ultime 48 ore. Lascio stare poi i due gol viziati all'andata e il gol annullato al ritorno da due terne dimostratesi forse non all'altezza degli altri 22 in campo. Altrimenti ricadrei nel vittimismo tipico di quei tifosi festeggiano solo per le disgrazie bianconere.

La sensazione di questa forza, infine, me l'ha data un dettaglio finale: la capacità di costruire altre due palle gol dal 115' in poi, proprio dopo lo tsunami che aveva travolto i bianconeri tra l'ultimo minuto di gara e i primi 10 del secondo tempo supplementare. Chiunque sarebbe crollato, giocando d'inerzia con il solo obiettivo di finirla prima possibile. Invece, da terra, dopo il doppio ko propiziato dall'ex di turno che non ti aspetti (Coman), la Juve si è rialzata ed è andata vicina a riaprire la contesa.

Quella forza che ha prodotto l'ennesima occasione da gol sfumata ha detto due cose: che la Juventus non arriverà in fondo per un pizzico di fortuna in meno (quella che forse tra sorteggi ed episodi c'era stata lo scorso anno), ma che è pronta a ripresentarsi da settembre ancor più temibile di prima.
Del resto - e questa è la seconda - sul tap in di Mandzukic e la ciabattata di Sturaro c'era scritto tutto: la dea Eupalla - per dirla alla Brera - aveva già deciso.
E non avrebbe lasciato riaprire, neppure per 5', un'ipotetica speranza.

venerdì 11 marzo 2016

Perchè intervistare Sollecito? Io la penso così...

"Vorrei esternare la mia indignazione per lo scempio andato in onda giovedì sera... dove siamo arrivati...Adesso facciamo parlare anche Sollecito?
La trasmissione di questa sera è lo specchio di una nazione che si merita tutto ciò che ha.
Spero che questa mail di protesta non sia l'unica...
"

Di solito chi fa il mio mestiere - e chi va in video a fare informazione, più di ogni altro (compresi i colleghi che non fanno tv) ci mette la faccia - tende a crogiolarsi nei complimenti, nelle congratulazioni, nei "like" e nelle faccine col sorriso che arrivano, per strada, al telefono come dalla rete o sui social.
Fa piacere, è gratificante, inutile nasconderlo. Non ne sono affatto indifferente.

Per una volta, però, comincio questa mia riflessione con una e-mail di protesta che mi è arrivata, insieme ad altri commenti che invece, ancor prima che andasse in onda la trasmissione di "Link" con ospite in studio Raffaele Sollecito, esternavano la propria indignazione.

Rispetto pienamente queste opinioni. Ma visto che ho un blog, vorrei dire la mia su questa scelta che certamente non è stata superficiale o senza riflessioni a priori, perchè nessuno di noi vive su Marte. E sapevo bene che un'intervista di 90' con Raffaele Sollecito - per altro la prima in uno studio televisivo nella regione in cui è avvenuto quanto avvenuto il 1 novembre 2007 - non sarebbe passata inosservata.

Innanzitutto partiamo da un assunto: se da Montesqieu in poi esiste un sistema giudiziario - separato da legislativo ed esecutivo - in cui dobbiamo riconoscerci (criticabile o meno, è un altro discorso), secondo questo sistema l'ospite della trasmissione invitato come autore di un libro autobiografico, è innocente.
Ognuno di noi può avere la sua verità, le sue convinzioni e la trasmissione non aveva la pretesa (l'ho pure detto in presenza dell'ospite) di orientare nessuno. Ne' tra i colpevolisti nè tra gli innocentisti. Sarebbero rimasti tali anche dopo la trasmissione, ci mancherebbe.
Nè è compito di chi fa informazione, giornalismo e televisione, trasformare il mezzo di cui dispone in un'aula giudiziaria di quarto grado (visto che i gradi di giudizio sono tre) anche se esistono format che prendono proprio questo nome e chissà, magari hanno pure questa ambizione: ci sono Tribunali, Corti d'Appello e Cassazioni chiamate a decidere (magari un po' più in fretta di quanto attualmente gli riesce). E' loro compito.
Mi è bastato laurearmi in Giurisprudenza per capire che non era quella la mia strada...
Il giudizio morale invece resta qualcosa di personale: che chi fa informazione dovrebbe cercare di separare da quello che è il proprio ruolo. Come è doveroso separare la notizia dall'opinione.

Ho intervistato migliaia di persone in questi 28 anni di mestiere (la scrivo con orgoglio, la parola mestiere, anche se oggi il termine assurge sempre più ad un'accezione negativa... peccato).
Migliaia di persone sui più svariati argomenti.
E non è che sempre fossi d'accordo con tutti loro su quanto facevano o dicevano, o anche su quel che rappresentavano; nè avevo la medesima valutazione morale su ognuno di essi.
Il mio mestiere però non è giudicare: ma nell'informare, è anche fornire gli strumenti più completi - per quanto possibile - a chi ci segue, per potersi fare un'opinione su una vicenda o un personaggio.

E allora - quando tramite la casa editrice Longanesi, che ha pubblicato il libro, contattata attraverso l'amica Anna Maria Romano (che ringrazio) si è creata la possibilità di realizzare questa trasmissione, mi sono detto: se ho l'opportunità di informare, approfondire e conoscere più da vicino una storia o un personaggio al centro di un clamoroso fatto di cronaca nella nostra regione - certamente il più grave e anche il più mediatico di questi 16 anni di nuovo secolo - dovrei esimermi dal farlo, magari per obbedire ad una mia ipotetica riserva morale?
Forse è proprio non facendo la trasmissione, per una mia personale convinzione, che tradirei quel ruolo che deve essere invece proprio di chi opera "al servizio di tutti": di quelli che la pensano in un modo e di quelli che la pensano al contrario.

Sempre con un principio di base: su vicende come questa, il presupposto è il rispetto per le vittime. E i fatti accertati (con sentenze).
Tradotto: rifuggire dal gossip giudiziario che ha invece condito per 8 anni tutta la vicenda, con plastici, fiction animate, ricostruzioni spesso folcloristiche, contorni improbabili, retroscena "sparati" ed esclusive fini a se stesse.
Che piaccia o no, la storia oggi è cristallizzata da una sentenza passata in giudicato.
E solo dopo il verdetto conclusivo (e inappellabile), ci siamo occupati di questa storia.

Come sono solito fare anche su altri versanti - per fortuna meno cruenti - senza lasciarmi incantare magari da frenetici botta e risposta di comunicati, prese di posizione, campagne di propaganda, "crociate morali" o presunte tali: tutte materie buone per ingolfare la rete, ma che prima o poi, ad un bivio si ritrovano.
Quello dei fatti.
Ecco, è a quel bivio (e non un metro prima) che chi fa informazione, deve farsi trovare pronto. Possibilmente con le domande giuste.


giovedì 25 febbraio 2016

Il sorriso di Teresa... e un pomeriggio speciale al Residence Chianelli

C'è un momento nel quale l'emozione, interiore e contenuta per quanto possibile, può avere il sopravvento.
Giovedì scorso ero a Perugia, nella prima delle tante sortite di questi ultimi 10 giorni (c'è chi dice che dovrò abituarmici... Vedremo). 
Di sicuro è stata la più intensa e coinvolgente.
Un intero pomeriggio al Residence Chianelli, a due passi dall'ospedale del capoluogo. Dove Franco e Luciana da 25 anni accolgono e sostengono le famiglie costrette a combattere una propria guerra: quella contro la malattia peggiore.
Una guerra in cui la paura maggiore non è nel nemico - che purtroppo si conosce - ma nel rischio della solitudine, nel timore di non essere abbastanza forti, nell'angoscia di non sapere cosa di aspetta. Insomma una di quelle condizioni che se non ci passi, non serve neanche provare a descriverle.
E allora via con interviste e testimonianze, dall'appassionata narrazione di Franco Chianelli, artefice di un cammino di solidarietà che per un quarto di secolo ha reso possibile quel che forse neanche le istituzioni preposte avrebbero fatto; agli straordinari protagonisti del mondo scientifico, il prof. Brunangelo Falini, un premio Nobel in pectore per le storiche conquiste nella ricerca sulle leucemie, e il dr. Maurizio Caniglia, del reparto di oncoematologia pediatrica (uno di quei posti che ti fanno piombare addosso diversi punti interrogativi parecchie sul perchè un bambino debba subìre destini così truci). E poi le assistenti, psicologhe, psicoterapeute dello staff interdisciplinare, affiatate ed entusiaste di lavorare "in un luogo unico, per umanità e calore". 
Se ci sono però delle parole che mi hanno lasciato scolpito qualcosa di unico, quelle sono di Teresa.


Non so quanti anni abbia. Non l'ho potuto neppure capire, nascosta com'era dietro una mascherina che è la sua corazza antibatterica dopo che ha subito il trapianto del midollo, donato da sua madre Belinda. Viene dal Lazio, credo Ciociaria. Ma in fondo che importa da dove viene?
E' magra, il colore della pelle dice tutto della battaglia che sta combattendo, i capelli corti e in fase di ricrescita sono la cifra estetica del delicato iter di decorso della terapia che sta attraversando.
Quando Luciana, infaticabile animatrice di tante iniziative di volontariato legate al Comitato, mi ha accompagnato nella sua stanza, un mini appartamento di una trentina di metri quadri, diviso in due piccoli vani, non sapevo francamente come muovermi. E neanche da dove cominciare.

In queste situazioni il timore è di usare le parole sbagliate. E perfino i silenzi sbagliati.
Come spesso mi accade, ho lasciato fare a loro: all'istinto - che dopo quasi 30 anni di interviste comincia ad incresparsi lungo il versante dell'esperienza - e la sensibilità - o quel che interpreto come tale, che è quell'insieme di sensazioni che ti fanno procedere in punta di piedi, tra migliaia di uova disseminate per terra, con l'abilità di chi riesce a schivarle senza incrinare neppure un guscio.

Poi ha fatto tutto lei, Teresa. Con le sue parole, il suo spirito, la sua energia, la sua voglia.
Già, la voglia di farcela, di reagire, di giocarsela fino in fondo. Fino ai supplementari, e se dovessero servire, anche ai rigori. Lei sì che ce l'ha questa forza. 
Qualche sua frase mi è rimasta tatuata nell'anima: perchè spesso sono le persone che attraversano il guado della lotta per l'esistenza, quelle che ti fanno capire quanta energia puoi avere e puoi dare (e 
magari sottovaluti per primo).

"Lottare sempre, tutti i giorni - mi ha confidato all'inizio dell'intervista - Ho vissuto bene la mia malattia, e per la verità' non mi sono mai sentita una persona malata. Mi sono sempre definita una paziente non malata, sempre consapevole del mio stato.
Quando sono arrivata qui ho potuto capire che stavo reagendo bene e questo mi ha dato sempre più forza per affrontare la fase del percorso più dura. Non è stata una passeggiata, lo so, ma grazie al supporto di mia mamma ho riscoperto ad esempio la voglia di colorare, dipingere, l'avevo sotterrata da quando avevo 11 anni. Quando ero ricoverata, invece, non vedevo neppure l'arteterapista ma guardavo i colori. Non vedevo l'ora di colorare. E ho cercato di dipingere la mia storia. E mi piace. Mi piace stare qui, ormai questa è la mia casa. 
E' fondamentale una persona che ti stia vicino. Quando si vive una situazione del genere, ti scatta qualcosa dentro che ti cambia tutto, una rivoluzione. 
Si apprezza la semplicità delle piccole cose, anche vivere in un piccolo appartamento. Ma a me va bene così, non abbiamo bisogno di avere tante cose. Ci sono io, c'è la mamma, ci sono gli amici del Chianelli. C'è la mia nuova vita".

Teresa ce la può fare. Sa che dipende dalle persone che la circondano, prima di tutto i medici. Sa che 
ci vorrà anche fortuna, e per chi la sente, anche fede. Ma sa che dipende anche da lei. 
Un viso sottile ma tenace, due occhi che raccontano il suo volto. E un sorriso che non potuto vedere, per quella mascherina, ma che Teresa mi ha trasmesso. Il sorriso di chi ama la vita. E riesce a dirtelo, sorprendendoti.
È' stato un pomeriggio speciale. Dove le tante litanie quotidiane per le quali dedichiamo fin troppi pensieri, hanno lasciato spazio alle cose semplici. Alle cose belle. Alle cose vere.



sabato 20 febbraio 2016

Dalla "sanità tellurica" alla lezione di papà. Passando per un tapis roulant...

Di tutto un blog...

SANITA' TELLURICA
Il mese di febbraio è appena a metà strada che rischia già di lasciare il segno per il quinquennio del Marini bis. Le dimissioni dell'assessore alla Sanità, Luca Barberini è il prezzo pagato dalla Governatrice nel braccio di ferro sulle nomine dei direttori sanitari. Con buona pace di chi pensa che dietro queste scelte – al di là della competenza ed esperienza indubitabili dei diretti interessati – non si consumino anche battaglie politiche aspre.
Questa è una disfida tutta interna al Pd, con Marini e fedelissimi da un lato, Barberini (o meglio, Bocci) e fedelissimi dall'altro. La scossa dei giorni scorsi avrà conseguenze anche sulla tenuta di maggioranza? 
Dei 13 consiglieri regionali del Pd (compresa la Presidente), 5 sono gli “aventiniani” (con Barberini, l'eugubino Smacchi, Brega, Guasticchi e la Porzi). Che la maggioranza esca più forte e solida di prima è difficile dimostrarlo. Perchè la politica è l'arte del possibile, ma anche la matematica non è un'opinione.
Cosa debbano pensare poi gli elettori, i cittadini, che poi sono anche i pazienti di Asl e ospedali umbri, dopo tutto questo bailamme, è ancora altra cosa.

UN GIORNO A SPOLETO
Dici Spoleto e pensi a “Don Matteo”. 
Se si fa un giro per la città dei Due Mondi in realtà ci si accorge di come, senza fare centinaia di chilometri, si possa cogliere qualche buona idea in fatto di mobilità alternativa. 
Ad esempio, arrivando nella zona dell'ospedale nel parcheggio Posterna, si può imboccare la scala mobile (tapis roulant) – una delle tre strutture di mobilità pedonale – che conduce fino in cima al centro storico, a poche decine di metri dal Duomo. 
Non è una scoperta straordinaria, ma la consapevolezza di come troppo spesso la politica e l'opinione pubblica di una città come Gubbio finisca per incupirsi e fossilizzarsi su “crociate” tutte cittadine, senza alzare la testa e dare uno sguardo al futuro. 
Ad esempio, a come immaginare la mobilità nella Gubbio del 2020 o del 2030. Se vi si potrà passeggiare, o fare zig zag tra le auto parcheggiate e ambulanti, con una residenzialità ancora viva e un tessuto commerciale e artigiano ancora esistente. 
O se sarà destinata ad un mero presepe che di naturale avrà solo la dimensione, che si accende a intermittenza, a Natale e a maggio, per poi spegnersi negli altri 10 mesi.

LA LEZIONE DI PAPA'
Pensierino finale a babbi e mamme che domenicalmente danno il “meglio di sè” dagli spalti di una tribuna (di calcio e non): non per incoraggiare il proprio pargolo, ma per insultare avversari, genitori degli avversari, arbitri, allenatore e quanto di deambulante gravita attorno (ultimo caso, nel Ternano, un paio di domeniche fa). 
Non sanno, costoro, quanti danni possa causare tutto questo, principalmente a loro figlio. Negandogli la gioia di giocare ma anche il valore educativo che lo sport (anche con le sue sconfitte) sa offrire. 
Un consiglio? Leggersi la storia di Giuseppe Abbagnale, ex olimpionico di canottaggio e oggi presidente della Federazione. A pochi mesi dalle Olimpiadi, da presidente prima ancora che da padre, ha sospeso il figlio, Vincenzo, che aveva saltato tre controlli antidoping. Ora rischia di saltare anche Rio 2016. Una possibile medaglia in meno, per gli Azzurri e per casa Abbagnale. 
Ma una lezione straordinaria che resta impressa per tutta la vita.
GMA


editoriale da "Gubbio oggi" - febbraio 2016


sabato 13 febbraio 2016

Quando sembra solo un mozzicone per terra... e invece è pura inciviltà

Ne ho contate 287 stamattina. Sono le cicche schiacciate per terra dalla pioggia e dall'incuria di chi le ha aspirate fino a poco prima. 287 sigarette che compongono, come un sentiero sacro della nicotina, il breve tragitto che va da casa mia alla redazione.
Più o meno 800 passi (così mi dà il telefono) che corrispondono a poco più di 500 metri.
E ho contato solo quelle che giacevano lungo il metro, metro e mezzo di perimetro che attraverso scendendo da via Aquilante a San Pietro, giu' per la Piaggiola.
Se mi fossi spostato dall'altra parte della strada, stesso identico percorso, probabilmente ne avrei contate altrettante.
Considerando che la multa è di 300 euro, al Comune sarebbe bastato tenere un addetto lungo questi 500 metri di strada, neanche troppo complicata da vigilare, per incassare in un paio di giorni, più o meno 86.000 euro di multe. Che non risolverebbe certo il problema, anche se come deterrente, 3 banconote verdognole con il portale in stile barocco stampato sopra, secondo me, funzionano.

Ho fatto questo piccolo calcolo dopo che è entrata in vigore la legge che punisce chi getta sigarette (o anche rifiuti generici) per strada.
"Con tutti i problemi che abbiamo..." dirà qualcuno, c'era bisogno di questa legge?
Purtroppo sì anche se non sarà facile scardinare l'incivile usanza.
In fondo anche quando entrò in azione la legge Sirchia - l'unico ministro della Salute che abbia davvero inciso nella qualità della Salute più tangibile - ci volle un po' per non vedere più le sigarette accese in un locale chiuso. Ma la goccia scava la pietra, ripetevano già i latini. E questo vale anche per chi fuma (sostanzialmente buggerandosi della salute propria così come di quella di chi gli sta vicino).

Comunque se fumare resta esercizio discutibile - almeno in fatto di salute - adesso buttare la cicca per terra non è più soltanto sintomo di apatia e menefreghismo civico (basterebbero pochi passi per schiacciare una sigaretta in un portacenere o spegnerla e quindi gettarla in un cestino) ma è anche un atto punibile per legge.
Quel che purtroppo non è punibile è la stupidità: che fa dell'uomo, con sigaretta o senza, un essere incapace di custodire il suolo pubblico con la cura che riserverebbe, che ne so, alle proprie mutande (già saremmo molto avanti). E allora quel che è Pubblico è semplicemente "di nessuno", traduzione molto impropria di ciò che invece significherebbe "di tutti". E quindi anche mio.

Ho un senso di ripulsione per la sciatteria con cui la maggior parte delle persone "tratta" il suolo e in generale l'ornato pubblico. Mi innervosisce vedere le cartacce per terra, mi indispettisce assistere al variopinto spettacolo circense dei cassonetti dell'immondizia ricolmi di tutto, compreso quello che dovrebbe finire nel cassonetto accanto.
Non riusciamo proprio a differenziare. Perchè non riusciamo a differenziarci.

Chi butta la cicca per terra non fa eccezione. Probabilmente, dopo il varo di questa legge, continuerà a farlo. Anche perchè ci vorrà del tempo prima che un vigile urbano ti venga a multare (rischiando di passare lui per un irremovibile figlio di buona donna).
Ma gutta cavat lapidem, la goccia scava la pietra. Anche quella dell'inciviltà diffusa. E' già un bene che la pietra abbia iniziato a inumidirsi...

giovedì 28 gennaio 2016

Ci mancherà Enzino. Anche il fatto che non voleva lo chiamassimo Enzino, ci mancherà...

Era un po' come uno zio. Perchè in fondo, per mio padre, era un fratello.
Enzo Menichelli se ne è andato. In silenzio. Come forse avrebbe voluto.
Come sempre mi chiedeva facessi per le tante iniziative o suggerimenti che era solito fare per un servizio o un'iniziativa a favore della sua Gubbio.
E non perchè non volesse assumersi responsabilità, ma perchè era volutamente schivo e restìo ad apparire.
Credo che perfino i manifesti funebri, se avesse potuto, li avrebbe coperti. Come le statue dei Musei Capitolini al passaggio di Rouhani.
Era anche un ceraiolo di grande fermezza: anche quella silenziosa ma inesauribile.
Faceva parte di quella generazione che con mio padre ha "rianimato" il cero di Sant'Antonio dagli anni Sessanta in poi. E a metà degli anni Ottanta il naturale passaggio generazionale mi ha visto sfiorarli sulla terza girata della sera, loro alle ultime spallate e io ancora acerbo braccere 15enne. E nell'89, quando toccai la spalla per la prima volta sul monte (tra l'altro, era l'anno del diluvio) catechizzò mio padre, con eleganza ma senza remore: "Devo farti un appunto", gli disse. Ritenendo, forse a ragione, che quel ragazzotto di 18 anni (ero io) avrebbe potuto aspettare per il  battesimo del cero.
Per una volta però voglio ricordare una persona con le parole di mio padre: quelle lette in chiesa, il giorno del suo funerale. Un affresco di quel personaggio davvero speciale, che era Enzo.


"Enzo Menichelli ci mancherà. 
L'abbiamo già avvertita in questi giorni la sua mancanza, dopo che se ne è andato in silenzio, in disparte. Forse proprio come desiderava succedesse. 
Ci mancherà vederlo spuntare in fondo al corso, dentro al suo loden, all'inizio di una delle tante passeggiate che prediligeva sempre con le stesse tappe. Gli stessi amici. 
All'apparenza Enzo poteva sembrare burbero e scostante, ma noi amici fraterni da una vita sapevamo che non era così. Era un signore, di un'educazione antica, integerrima, mai volgare. Un signore tutto d'un pezzo, fatto a modo suo. Sono gli altri che non lo capivano.


La terza girata del 1986: Enzo ceppo interno,
io acerbo braccere 15enne a Gianni Casoli
Perché  Enzo era un Eugubino verace e amante della propria città, un appassionato ceraiolo santantoniaro. Semplicemente non amava che si parlasse di lui. E qualche volta neppure che gli si parlasse.
Ecco perché sono certo che anche queste poche parole, oggi, per salutarlo, forse non le avrebbe volute. Ma gliele dobbiamo. Da amici e da eugubini.

Amava la sua città in modo forte, viscerale ma anche discreto. Non voleva mai apparire. Ma c'era.Osservava, criticava ma proponeva. 
Soprattutto quando si faceva interprete di un sentore diffuso o di un volere personale e promuoveva iniziative a favore di un monumento o del recupero di una memoria storica.


Nella sua abitazione - dove gelosamente evitava intrusioni non volute - è stato ritrovato il bozzetto della statua di San Francesco e il Lupo realizzata a fianco della chiesa - di cui era stato tra i promotori. Aveva contribuito al restauro e al recupero di alcuni elementi architettonici del centro storico, che "vigilava" quotidianamente con passeggiate cadenzate da tappe consuete presso amici e conoscenti. 
E grande era anche la passione ceraiola per Sant'Antonio: siamo cresciuti insieme sotto la stanga, sulle mute di Mijarini e poi sulle girate. 
C'era sotto lui, insieme a
E in questi ultimi anni continuavamo a intestardirci anche sulla mostra, risalendo per i Ferranti dove tra tanta gente ci ritrovavamo ogni anno, lui immancabilmente a ceppo. 

Enzo poi non faceva mancare la sua presenza negli appuntamenti più importanti, anche pochi giorni fa non aveva voluto mancare al voto per il capodieci e poi alle celebrazioni del 17 gennaio.
L'iscrizione fatta apporre da Enzo
nel campanile dell'antico convento
di S.Antonio (sopra la piazzetta)
Ora lo vogliamo immaginare insieme agli amici di un tempo, a Nando, Ino, Gioacchino, magari seduto in una tavola imbandita e festante, tra qualche canto, molte risate, gli scherzi che eravamo soliti fare e che lui amabilmente mal sopportava. 
Enzino ci mancherà. Perfino il fatto che non voleva che lo chiamassimo Enzino, ci mancherà. 
Non possiamo farci niente. Enzo, un abbraccio da tutti noi".

lunedì 25 gennaio 2016

IL 2016 a Gubbio? Serve il cambio di passo...

Il 2016? Serve il classico cambio di passo. Non per un ballo e neanche per una prova sportiva.
Parliamo di politica, parliamo di Giunta, della Giunta Stirati. Che dopo 18 mesi si è ritrovata senza due pezzi importanti della propria formazione ed è dovuta correre ai ripari.
Come nel calcio, le sostituzioni ci possono stare, purchè lo schema di gioca sia chiaro e alla fine l'obiettivo si raggiunga. Qui non c'è da vincere una partita e neanche un campionato. L'avversario invece è ben chiaro: si chiama crisi.
Sicuramente una sfida molto più complicata: risollevare una città e un territorio che stanno attraversando certamente l'empasse economico più grave dal dopoguerra, con incertezze sul fronte degli investimenti imprenditoriali, con allarme rosso sul piano dell'occupazione e con un clima di ottimismo legato a nuove progettualità che ancora non riesce ad attecchire. Tutti carichi pesanti ereditati ma con i quali bisogna fare i conti.
I numeri del 2015 parlano di oltre 2.600 iscritti al Centro per l'impiego (oltre il 50% sono donne), quasi 150 domande di Cassa integrazione in deroga nel comprensorio, di cui oltre la metà da Gubbio e quasi 350 lavoratori interessati dalla formula dei 5 mesi di Cassa in deroga autorizzata da Regione Inps.
Non che altrove si stia meglio, ma il problema nel comprensorio eugubino come in quello gualdese, è che alla mannaia del tramonto dell'impero Merloni, si è sommata la crisi dell'edilizia e del cementiero – colonne imprenditoriali da oltre 40 anni – in una zona già emarginata sul piano delle infrastrutture, poco reattiva dal punto di vista della cultura di auto-imprenditorialità e già tornata ad essere di nuovo terra di partenza da parte di numerosi giovani, come qualche decennio fa, per lidi più appetibili sul piano professionale.
Accanto a questo quadro oggettivamente fosco, ci sono anche luci e segnali che qualcosa si muove: il trend turistico è in crescita, nuovi eventi del 2015 hanno lasciato il segno e fanno presagire anche ad un 2016 altrettanto interessante. Laboratori progettuali come Joint Gubbio cominciano a funzionare, e forse il nuovo anno potrebbe perfino portare all'apertura della Perugia-Ancona, vera araba fenice della viabilità regionale.
In questo contesto l'azione di una Giunta comunale può sembrare relativa, ma la capacità di essere concreti, risoluti ed efficaci non solo è necessario ma è anche un segnale forte di distanza rispetto alle lentezze o agli errori del passato.
L'impressione è che la città, la comunità e anche la politica di maggioranza come di opposizione, debbano cambiare passo.

Lasciando stare le piccole beghe di bottega, mettendo alle spalle battaglie ideologiche e muri pregiudiziali che hanno contraddistinto veleni e confronti quando era tempo di vacche grasse. E cercando di focalizzare pochi ma importanti interventi che diano respiro e futuro alle vocazioni proprie di questa città e del suo territorio.

venerdì 8 gennaio 2016

Niente bus da Assisi, niente tratte per il Giubileo: a Gubbio rischia di restare un'altra occasione persa...

Ad oggi è impossibile arrivare direttamente a Gubbio partendo da Assisi, nessun autobus copre questa tratta; quindi si parte dalla città Serafica, si arriva a piazza Partigiani a Perugia, da lì si riparte con un nuovo autobus per arrivare a Gubbio.
Viceversa per il ritorno.
Dunque 47 km sofferti (considerata anche la tortuosa amenità del tragitto) per quei pellegrini e turisti che volessero visitare le due città umbre simbolo del Francescanesimo.
Ed anche per il Giubileo della Misericordia che vede Assisi seconda tappa giubilare dopo ovviamente la Capitale, i servizi non saranno implementati a favore né dei pellegrini né del rilancio turistico di questa parte di Umbria.
Nulla è previsto in tal senso in chiave “viabilità per il Giubileo”, da Palazzo Donini come conferma l'accordo tra Regione, Busitalia e Trenitalia, che attivano “collegamenti più rapidi e frequenti sui principali assi della mobilità regionale, con maggiore integrazione fra treni e bus, per rispondere al meglio alle esigenze connesse al Giubileo col potenziamento dei servizi per pendolari e turisti che li renda competitivi rispetto all’uso dell’auto privata”.
Già da questa settimana ci saranno più bus e treni sul corridoio Magione-Perugia-Assisi-Foligno, con 4 corse autobus in più al giorno tra Foligno e Spoleto e 2 tra Terni, Orte ed Orvieto, maggiori collegamenti anche sulla Terni-Todi-Perugia, e potenziati i servizi bus di collegamento e distribuzione urbana ed extraurbana nelle stazioni di Assisi, Perugia, Foligno e Magione.
Il servizio ferroviario dal 13 dicembre offrirà 6 nuovi treni (4 collegamenti Foligno – Assisi – Perugia e 2 collegamenti Foligno – Assisi – Perugia – Magione).

Completamente dimenticata invece la zona dell'Alto Chiascio, come anche dell'Alto Tevere, del tutto ignorata l'ipotetica e non proprio peregrina ipotesi di un asse diretto Assisi-Gubbio. Se non altro per dare seguito ad un accordo istituzionale (di cui la Regione non può non sapere) e per rispondere concretamente a chi da tempo (nel mio caso, da anni) si attende una reale valorizzazione del Sentiero Francescano coperto dal Poverello forse unico in Italia potenzialmente capace di competere, per simbologia, a quello di Santiago de Compostela.
Gubbio abbraccia la chiesetta nella quale Francesco ha realizzato concretamente la conversione abbandonando i beni materiali per la povertà.
Niente, tutto sembra dimenticato o sconosciuto a chi decide da Perugia come veicolare e far transitare il pellegrino-turista.
Occasione persa per Gubbio dunque per agganciare la sfida del Giubileo. Non è infatti facile arrivare a Gubbio se non si è muniti di autovettura.
Per chi da Roma vuole giungere a Gubbio con l'autobus della linea Sulga: unico bus giornaliero quello che parte dalla stazione Tiburtina alle 16 con arrivo alle 19, 18 euro il costo e cambio a Ponte San Giovanni.
La partenza alle 5.50 da piazza 40 martiri con arrivo nella capotale alle 9.
Per chi sceglie il treno per lasciare Assisi o Roma ed arrivare a Gubbio, sulla direttrice Roma- Ancona, ci sono alcuni autobus di linea ad aspettarli fuori dalla stazione: ma in alcuni casi l'attesa è anche di due ore.
Magra consolazione constatare che Gubbio sia una della città scelte per l'installazione di una colonnina per la ricarica delle autovetture elettriche, città inserita nel percorso voluta dalla Regione negli ultimi mesi in tutto il territorio.

Il problema resta quello di portarci i pellegrini e far in modo che si fermino almeno per due giorni. E il Giubileo rischia di rivelarsi da queste parti un'altra occasione persa...

sabato 2 gennaio 2016

Iniziamo l'anno con una risata: sperando che la Perugia-Ancona diventi una cosa seria...

Se il buongiorno si vede dal mattino, la topica nella segnaletica stradale a Pianello dei giorni a cavallo di Capodanno, non lascia presagire nulla di buono per la viabilità umbra nel 2016.
Soprattutto se si pensa che da quelle parti dovrebbe transitare la fatidica Perugia-Ancona il cui completamento nel tratto umbro è stato trionfalmente annunciato proprio per il 2016 dalla Presidente della Regione, Marini, nella conferenza di fine anno.
Fatto sta che da un paio di giorni fa bella mostra di sè, all'incrocio tra la variante che conduce a Pontevalleceppi-Collestrada e la statale 318 che proviene da Casacastalda, una scritta enorme sull'asfalto: quello che dovrebbe essere un comunissimo "stop" è diventato STPO, con un'inversione di lettere che ha dell'incredibile – anche per le dimensioni della scritta - e farebbe pensare ad uno scherzo di photoshop o più goliardicamente ad una bizzarria da Amici miei. Se non fosse tutto vero.
E allora nel 2016 che si è aperto con mamma Rai in anticipo di 40 secondi e con bestemmia in video, anche la nostra cara Umbria vuole fare la sua parte nell'antologia delle topiche di inizio anno.

Di segnaletiche balorde ogni tanto se ne vedono in giro: limiti di velocità contraddittori a distanza di pochi metri, indicazioni turistiche o geografiche contrastanti, autovelox finti o presunti tali. Ma lo Stop invertito ci mancava. Inevitabilmente la foto dello stop – pardon, STPO – di Pianello ha cominciato a fare il giro del web, in particolare dei social network a cominciare da facebook, diventando un'occasione virale di ilarità contro Anas, Regione e istituzioni pubbliche in genere. Riderci sopra è inevitabile.

Ma finita la risata, almeno qualcuno vada a correggere la scritta. Noi, intanto, incrociamo le dita: non tanto per la scritta, quanto per la strada che dovrà passarci sopra e che l'Umbria aspetta da almeno 30 anni...