“Le gambe non si sentono più, il cuore sembra morto nel petto, solo il ronzìo aumenta sempre, lento, implacabile, togliendo a mano a mano la percezione delle cose. Intorno le case arrotondano i loro profili, gli angoli si smussano, i tratti perdono la determinatezza assumendo una forma indefinibile: tutto in quel mare di luce tenue e bianca si annega in un gran scolorimento”.
E' il 1929 quando Arduino Colasanti, in “Italia Artistica – Gubbio”, descrive in modo mirabile l’attimo della “spallata”. Meglio di un ceraiolo consumato, riesce a dipingere, con tratti brevi ma intensi, gli istanti della corsa. Dell’omaggio che è proprio di ogni eugubino. La Festa dei Ceri.
Ogni anno si ripete, immutabile ma sempre diversa. E ripercorre quei valori profondi – di fratellanza, devozione, coraggio, partecipazione, solidarietà - che ne hanno sempre contraddistinto l’unicità.
Perché è così difficile “spiegare” la Festa dei Ceri? Perché non è una Festa da raccontare ma da vivere. Non si può altrimenti giustificare una corsa che non abbia vincitori, non preveda sorpassi, non erga sul piedistallo un protagonista che non sia il Patrono di Gubbio. Non si spiega – di fronte a tante rievocazioni di fresca data – l’inossidabile tramandarsi dei Ceri, fedele ma al tempo stesso capace di “adattarsi” alla mutevolezza dei tempi.
Per lo stesso motivo, è quasi impossibile descrivere come la Festa dei Ceri non abbia spettatori, ma partecipanti; non abbia un copione, ma un rituale lungo un’intera giornata e sempre denso di emozioni e partecipazione; non abbia un biglietto d’ingresso né cronometri o fotofinish. Una Festa che non ha bisogno di quelle “sovrastrutture” che scandiscono il nostro quotidiano: non ha bisogno di tempi né di spazi definiti. Di nomenclature o gerarchie. E neppure della nostra identità - tanto che la stragrande maggioranza dei ceraioli è conosciuta con il proprio soprannome prima ancora che con nome e cognome. Una giornata che esce dalla normalità, ma perché la supera e la sovrasta.
Molto, tanto, tutto”: così sintetizzava emblematicamente il 15 maggio il compianto avvocato Gini, uno dei più grandi moderni “cantori” della città di Gubbio, al microfono di Folco Quilici, nel 1973.
Il 15 maggio segna il calendario degli eugubini, dividendolo in prima e dopo i Ceri, con un ideale cerchietto rosso: che attraverso gli anni, misura anche la nostra esistenza. La prima “spallata” sul monte, quasi come un primo bacio; la prima “spallata” in città. E poi la “muta”, il gruppo di amici con i quali si “vive” la Festa e in particolare gli istanti infiniti della corsa: quel gioco di sguardi, l’abbraccio che incoraggia, la parola che aiuta a far scorrere i secondi, i consigli del ceraiolo anziano, che con le lacrime agli occhi, rivede per qualche secondo la propria giovinezza: e mette a disposizione i suoi anni, il ricordo, per dare ancora un contributo, una spinta, una presenza, intorno al cero. E perché no, anche le cadute: metafora di un destino che appare crudele nella contingenza della sventura – che per almeno un anno farà sentire il proprio “morso” – ma spesso “maestro” di comportamenti, saggezza ed esperienza. Sotto il Cero, come nella vita.
La Festa dei Ceri è la festa dell’appartenenza: non ad un rione, un quartiere o una contrada. Ma ad un popolo, ad una “civiltà”, ad un soggetto unico e indefinibile – Gubbio - che in questo giorno riconosce e reinterpreta sè stessa. Anche con i propri limiti. Ma sempre con la stessa grandezza: che viene dal passato, è vero, ma che non si guarda allo specchio. Non si rievoca, ma è vita. Ogni anno compie un passo in avanti: nella consapevolezza di essere una straordinaria e ossigenante tappa di una tradizione immortale.
“…e i Ceri corrono – conclude Colasanti - “sorretti da cento braccia, trascinati dall’impeto con l’accanimento di una santa, atroce e sana follia”.
Una follia che, una volta “provata”, per eugubini e non, diventa irrinunciabile.
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