Era il 29 maggio 1985: doveva essere una finale di Coppa Campioni - ancora si chiamava così - tra le più attese. La Juventus dei "miracoli", allenata da Giovanni Trapattoni, con Platini, Boniek e 7 campioni del mondo, a sfidare il Liverpool campione d'Europa in carica.
Doveva essere la sfida delle sfide. Resterà nella memoria come la "strage dell'Heysel": uno stadio maledetto, inadeguato per un evento di così grande portata, un sistema d'ordine del tutto disorganizzato a prevenire prima e reprimere poi l'onda violenta degli hoolingans.
Moriranno 39 persone, schiacciate contro un muro di cemento: di queste 34 italiani, di cui un umbro (Franco Martelli, allora 22enne, di Todi, a cui oggi è intitolato lo stadio della sua città).
In queste poche righe il racconto e la testimonianza di un eugubino presente allo stadio Heysel quella sera e protagonista di un episodio fortunatamente a lieto fine. Le sue parole sono riprese dallo speciale "Ricordando l'Heysel" che ho realizzato 5 anni fa per TRG (andrà in onda anche in queste serate - in particolare lunedì prossimo 31 maggio alle 22.30).
Il mio ricordo personale è invece un televisore dai colori appannati - quello a casa dei miei - davanti al quale due ragazzini (io 14enne e mio fratello 11enne) sognavano di vincere la Coppa: e quel sogno stava offuscando anche il pensiero che in quello stadio ci fosse nostro padre. Non pensavamo lontanamente che potesse accadergli qualcosa (e per fortuna così è stato).
Ma l'immagine che mi resta impressa è mia madre, al telefono, freneticamente a comporre dei numeri, per avere notizie: allora non esistevano cellulari, fare chiamate internazionali era quasi impossibile. E quella sera provare a chiamare in Belgio era impresa titanica.
Solo dopo la partita, solo a dramma consumato e rivelato anche dalle telecamere, avremmo saputo che nostro padre non aveva corso rischi: aveva assistito alla partita dalla parte opposta dello stadio rispetto alla maledetta curva Z. Ma da quel giorno non sarebbe mai più andato a vedere la Juventus dal vivo...
DA "IL GIORNALE DELL'UMBRIA" - in edicola domani 29 maggio 2010 - speciale ricordo dell'Heysel
“E’ un brutto ricordo. Da quel giorno non sono andato più a vedere una partita in trasferta”. Sono parole che escono spontanee, prima ancora che la memoria riporti la mente allo stadio Heysel di Bruxelles. Testimone oculare e inconsapevole della tragedia della maledetta curva Z è Lucio Lombardini, eugubino, direttore di banca, oggi in pensione, che quel 29 maggio 1985 era ad assistere alla finale Juventus-Liverpool, insieme ai due figli più piccoli, allora di 14 e 12 anni.
Erano partiti da soli, per una promessa fatta un paio d’anni prima, senza viaggio organizzato; i biglietti li avevano trovati in un’agenzia di Città di Castello. Senza sapere che quei biglietti portavano alla curva Z: “Erano gli ultimi posti rimasti. E all’inizio – ricorda Lombardini – ero rincuorato dal fatto che trovammo in quel settore molte famiglie: ma purtroppo quel settore era diviso da una rete precaria, rispetto allo schieramento degli ultrà del Liverpool. Non c’erano forze dell’ordine, di quello ci accorgemmo subito. Noi eravamo vicinissimi a questa rete”.
Poi in pochi minuti il dramma: “Ricordo che mio figlio più piccolo mi disse “Andiamo giù in fondo”, indicando il bordo rete, ma gli dissi di no. Non c’erano posti numerati: le gradinate erano composte da cordoli di cemento che ricoprivano il terriccio. Dopo pochi minuti pezzi di questi cordoli ce li siamo visti tirare addosso. La quiete è durata poco: appena la rete è stata sfondata dai tifosi inglesi, ci siamo allontanati con i figli”.
E qui il momento di autentico panico: “Alla prima carica – ricorda Lombardini - ho perso il figlio più piccolo, Giampiero. Pochi secondi ma terribili: avevo un figlio per mano, da salvare. E un altro, perso nella calca. Mi sono detto: “ S.Ubaldo, pensaci tu!”. Saranno passati 20 secondi, ma sono stati interminabili. Il panico assoluto. Poi l’ho intravisto qualche gradone più in alto ed è stata una liberazione. L’ho ripreso per mano tra la folla e siamo subito usciti dallo stadio”.
Senza sapere di quello che si stava consumando: “Prima siamo andati nella curva degli italiani – prosegue - ero salito sopra un casotto, da dove si vedeva bene. Però avevamo un po’ paura perché si percepiva che stava accadendo qualcosa e continuava ad esserci pericolo. E così ho deciso di uscire dallo stadio e ho portato i figli in albergo. C’è voluto molto perfino per trovare un taxi, le strade erano deserte. Ho chiamato a casa per assicurare che eravamo salvi. Ho dovuto anche passare i figli alla cornetta per rassicurare che non era successo niente, dato che in tv già era trapelata la dimensione della tragedia. La partita? Non l’abbiamo neanche vista in albergo. Che c’erano stati i morti l’ho saputo solo in quel momento”.
E il giorno dopo ha riservato la paura più grande: la consapevolezza del pericolo corso: “La mattina dopo – ricorda ancora Lombardini - ho saputo che tra le vittime c’era un ragazzo di Todi e tante di quelle persone che stavano proprio addossate a quel muro in fondo dove all’inizio avrei voluto portare i miei figli per tenerli lontani dagli hoolingans. Mi tornò in mente l’immagine di una donna anziana colpita in volto da un pezzo di cemento lanciato dai tifosi: era una maschera di sangue.
Quando ho perso mio figlio la gente si è compressa in fondo al muro, e la fortuna è stata che si è liberata l’uscita che poi abbiamo imboccato. E’ stata la nostra salvezza. Sono attimi in cui devi decidere come salvarti: e fai cosa ti dice l’istinto. Di sicuro –conclude Lucio Lombardini – quei 20 secondi senza mio figlio non potrò cancellarli mai”.
GMA
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brividi, ricordi, dolore.......grazie giacomo per essere ogni volta così vicino ai miei sentimenti!!!1<3<3
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