|
Bignardi e Di Battista |
"Non si vergogna di essere figlio di un fascista?".
La settimana mediatica è stata squarciata da questo interrogativo di Daria Bignardi al parlamentare di Cinque Stelle, Di Battista. Che forse non avrebbe neanche avuto la notorietà che poi gli è piovuta addosso nei giorni seguenti - sotto forma di solidarietà più che di scherno - per ciò che ha detto o per quel che pensa.
Ci risiamo. L'Italia delle etichette, dei marchi (infamanti), dei luoghi comuni, è la grande "novità" propinataci dalla conduttrice più radical chic del panorama catodico. La dama leggera e sorridente dei salotti milanesi, capace di oscillare da una rubrica di libri alla conduzione del "Grande Fratello" con la stessa nonchalance con cui Cracco passa dal brodetto di pesce al tiramisù. Senza infilarci in mezzo neanche un sorbetto al limone.
|
Giampaolo Pansa |
Siamo nel 2014, abbiamo superato già il decennale dell'uscita del "
Sangue dei Vinti" di
Giampaolo Pansa - vera linea di confine culturale e bibliografica tra l'Era post-bellica e il Terzo millennio italico - e ancora la tv (per di più privata) vede rieccheggiare, sotto mentite spoglie, il solito slogan del "
fascista carogna ritorna nella fogna" (ne ho qualche vaghissimo ricordo da bambino, nel clou del delirio "settantantottino", rimasto in voga per qualche anno
ancora nelle mie sperdute lande).Il tutto per mettere con le spalle al muro televisivamente parlando, un deputato del movimento di Beppe Grillo, nei confronti del quale non sarebbero mancati altri e più aggiornati argomenti o quesiti su cui discutere e confrontarsi (dai modus operandi istituzionali del Movimento ai diktat del mentore ex comico).
Una domanda così anacronisticamente stupida e capziosamente inopportuna - sul piano storico prima ancora che giornalistico - da far fare una figura gigantesca all'ex "inquilino del Grande Fratello"
Rocco Casalino. Che da neo portavoce pentastellato, ha bacchettato la Bignardi (ironia della sorte, conduttrice proprio di quella edizione col Casalino nella gabbia di Cinecittà) rivolgendole la provocatoria controdomanda: "
E lei non si
vergogna di aver sposato il figlio di un assassino?" (per la cronaca Luca Sofri, figlio di Adriano,
attivista e ideologo di "Lotta Continua" condannato per l'omicidio del Commissario Calabresi nel
maggio 1972).
|
L'espressione simbolo di Giorgio Gaber |
Ecco, l'Italia immersa nella melma (per non dir altro) della sua crisi avviluppante e contorcente del XXI secolo, ha trascorso la settimana a discutere su questa colossale fesseria.
Che oltre a regalare un po' di insana audience alle "Invasioni barbariche", ha messo di nuovo il Paese allo specchio, davanti al suo passato e non al suo presente (men che meno il futuro) senza che questo potesse rivelare per altro nulla di nuovo su quello stesso passato.
"Destra o sinistra?" si chiedeva più di 15 anni fa
Giorgio Gaber, cercando di far capire, con una
canzone neanche troppo melodica, che i due
ambiti, le due categorie, i due pensieri non
avevano più nè piedi, nè gambe, nè cittadinanza. Perchè, fin dagli albori dell'era politica del
Cavaliere, Gaber rifletteva dicendosi: "
Non ho paura di Berlusconi in sè, ma di Berlusconi in me...".
Non ha quasi più senso parlare di comunisti - con il vero Pci scomparso poco dopo il crollo del muro berlinese - figuriamoci se ha più senso parlare di fascisti. Per di più di "padri fascisti", cioè di generazioni che sono lontane anni luce dalla pochezza odierna. Che potranno pure aver sbagliato ideologia, riferimento politico, principi ma che almeno un'idea del mondo, della vita, del proprio credo e magari anche di un futuro, ce l'avevano. Sbagliata, ma c'era.
Personalmente non sono figlio di un "fascista". Mio nonno, semmai, poteva essere definito un aderente, nel pensiero più che nell'azione, come lo potevano essere migliaia di uomini della sua generazione, i ragazzi della classe del '97 che si erano fatti due guerre mondiali, la prima appena maggiorenni, e la seconda in età più tristemente matura; perchè credevano in un pezzo di stoffa tricolore, che non si usava solo per Olimpiadi o partite di calcio; in una parola chiamata "Patria", di cui non si vergognavano; in un insieme di ideali che facevano della famiglia (una sola, con moglie e marito), del lavoro (onesto, senza ricattucci, Irap o evasioni fiscali) e del semplice vivere quotidiano, il proprio motivo di esistenza.
Credo che la vita al fronte sia bastata a fargli capire che neanche i più nobili ideali potessero legittimare quella follia chiamata "guerra" - tanto che mio nonno non ebbe mai a raccontare nulla di Piave o Montenegro neppure a mio padre.
La Storia, prima ancora che la Bignardi, ha detto che il Fascismo si rivelò il male, e fortunatamente - seppur a caro prezzo - è rimasto confinato nei libri di storia.
Non ho idea cosa penserebbe mio nonno, o un qualsiasi altro uomo vissuto in quell'epoca, invecchatosi vedendo crescere e prosperare quella loro Italia, costruira faticosamente, per ritrovarla oggi appiattita nella sua ingloriosa implosione. Di risorse e soprattutto di ideali.
So che l'onestà e la laboriosità di quella generazione, al di là del proprio credo, dei propri sogni irrealizzabili di gioventù dannunziana, di quelle "esigenze storiche" - così le definiva una "maestra di vita" non certo di destra, come Maria Letizia Cassata - non può essere strumentalizzata in modo piccolo e meschino da uno sgabello di un salottino televisivo milanese, davanti ad uno spritz e magari con sottofondo jazz.
Credo piuttosto che sia chi utilizza la Storia a mo' di cotton fioc, a doversi sciacquare la bocca.
Prima di sentenziare su una generazione che, anche se dalla parte sbagliata, ha dato tanto, ha dato tutto, in molti casi anche la vita, a questo Paese.
Ecco cos'avrei risposto, alla Bignardi, l'altra sera...