La prima cosa che ho
pensato e' stata: "Fortuna che non c'e il nonno". Di quel
giorno di febbraio di 10 anni fa ricordo soprattutto questo. Marco
Pantani era stato ritrovato in una camera d'albergo senza vita.
Il piu grande ciclista
italiano che ho potuto apprezzare in questi 40 anni di vita era morto
per un'overdose, nella solitudine, nell'oblio, nella disperazione piu
totale. Dentro una camera anonima di un motel diseredato quasi quanto
la sua fama.
Pensai a mio nonno Pompeo,
ad un amante del ciclismo puro, autentico, dell'epopea dei Coppi e
dei Bartali, ma anche dei Merx o dei Gimondi, e piu di recente dei
Saronni e dei Moser.
Pensai al dolore che
avrebbe provato nel vedere quel ragazzo di Cesenatico, celebrato come
un campionissimo appena 6 anni prima, spirare tristemente, da solo,
in quel motel della riviera, in uno stato di depressione lontano anni
luce dai titoli, dalle fanfare, dai riflettori che fino al giugno
1999, con un altro Giro d'Italia già in pugno, ne avevano accompagnato l'ascesa.
Non mi hanno mai convinto
le teorie dei complotti, le congetture di una longa manus che governa
tutto. Ma e' pur vero che nella storia di Pantani di ombre ne restino
tante.
Il campione di Cesenatico,
capace di solcare le salite dolomitiche e dei Pirenei con la
leggerezza di una danzatrice, non e' mai stato trovato positivo
all'antidoping. Una mattina di giugno del 1999 il suo tasso di
ematocrito nel sangue e' stato trovato superiore di 2 punti rispetto
al consentito (50). Da li e' iniziato il suo calvario, i tanti amici
si sono diradati improvvisamente. Il successo e' tornato ad essere un
semplice participio passato. Il mito del Pirata si e' sgonfiato fino
ad implodere in modo angosciante nel baratro della droga.
Quanto c'abbia messo del
suo, nel precipitare inesorabilmente, e quanto abbia contribuito il
sistema mediatico perverso, che ti esalta e ti spreme con la stessa
disinvoltura, a seconda che tu sia eroe positivo (forte di risultati)
o anti-eroe negativo (a prescindere dalle reali responsabilità), e'
difficile a dirsi. E forse tra 100 anni i (pochi) amanti del ciclismo
rimasti continueranno a dividersi su questo.
Continuo ad amare Marco
Pantani per quello che ha dipinto nella mia galleria delle emozioni
sportive. Le sue vittorie non sono mai sembrate frutto di un
meccanismo automotive - come nei mostri "indistruttibili" e
inespressivi che pure in quegli anni macinavano successi (penso ad Armstrong o a Ullrich). Il sudore di Pantani era vero. Sincero.
Trascinante.
Capace di contagiare anche
l'animo di chi la passione per la bicicletta non l'aveva mai avuta,
sebbene avesse un nonno innamorato come pochi altri del ciclismo. Di
quel ciclismo che ancora era poesia, memoria, leggenda.
Coppi, Bartali, Gimondi, Moser.
Pantani sta di diritto con
quei signori li. Qualunque cosa sia accaduta dopo la sua esclusione.
A prescindere dal destino che lo ha poi portato via con se'.
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