Sarà un’estate di intensa lettura. E’ la prima considerazione che mi sono fatto, quando Anna Maria Romano – organizzatrice di eventi letterari e animatrice del nuovo premio “Onor d’Agobio” – mi ha comunicato che ero stato inserito nella giuria che avrebbe deciso il nome del vincitore. Una nuova rassegna letteraria di scena a Gubbio il prossimo autunno, aperta alle più importanti firme della poesia, della saggistica e della narrativa nazionale. Un appuntamento e un evento ambiziosi e prestigiosi al tempo stesso, del quale mi ritrovo parte integrante con la stessa malcelata incertezza che coglie chi si presenta in bermuda ad una cena del Rotary.
Non che mi senta a disagio – leggere è stata sempre una mia passione quasi ancestrale – ma diciamo che non me l’aspettavo.
Il compito però mi lusinga e mi accattiva al tempo stesso: e con la stessa rapidità con cui ci si può infilare in un camerino, togliersi di dosso i bermuda ed indossare un gessato – tanto per restare coerente con la skyline della metafora – ho accettato entusiasticamente la proposta.
Ogni libro è un viaggio, si dice, e ho sempre pensato che i goldoni meglio spesi siano sempre e comunque quelli che ti accostano ad un aeroporto o tutt’al più ad un casello autostradale. Ovunque tu sia diretto. Anche e soprattutto con un volume in mano.
Se poi tempo o pecunia non ti consentono di imbarcarti con frequenza, è proprio quel volume il metadone più efficace per evitare l’astinenza.
Non avrei magari preventivato che i libri in rassegna – dei più disparati per genere, tematica, tipologia e anche dimensione – sarebbero stati quasi una ventina.
Ritmi oggettivamente poco consoni non solo alle mie abitudini, ma anche a quelle di un accanito esploratore di emozioni letterarie.
E allora – ho concluso - l’unico modo per “sfangarla” è mettersi sotto, nei ritagli buoni di giornata, senza rinunciare agli spicchi di movimento fisico (ormai diventati inseparabili) e alle piacevoli stucchevolezze che ancora a 41 anni ci si può licenziosamente permettere (un paio di esempi? Fantacalcio d’inverno, tour serale lungo le mura urbiche cittadine d’estate).
Tutto il prologo ridondante, solo per introdurre qualche prima considerazione su uno dei libri che mi hanno colpito nel rush iniziale che mi ha visto già divorare 5 volumi (alcuni particolarmente ricchi di proteine e grassi, altri vitamina pura).
L’autore è il milanese Marco Missiroli, già premio Campiello con “Senza coda” ed ora a firmare “Il senso dell’elefante”: un’intricata vicenda ambientata nella capitale milanese con reminescenze riminesi. Un alternarsi di storie a cavallo tra presente e passato, che si intrecciano in un’unica trama facile a decifrarsi, nell’origine come nel possibile epilogo, solo alla fine.
Sullo sfondo, ma in realtà come principio trainante, il rapporto tra padri e figli. Sintetizzato efficacemente nella metafora dell’elefante, nel caso dell'immagine di un peluche: il suo toccare con la zampa la mano di un bambino, riflette in realtà la natura di un rapporto che spesso si dà per scontato ma di cui forse raramente si parla, si scrive (e si riflette) – lo fece mirabilmente Muccino ne “La ricerca della felicità” al cinema alcuni anni fa, con un eccellente Willy Smith.
Il senso del legame tra padre e figlio è enfatizzato nel caso di Missiroli da due storie incastrate ma volutamente agli antipodi l’una dall’altra: di un padre che non si rivela al figlio, che a sua volta è consapevole di non essere padre della figlia che chiama come tale. Un legame di straordinaria profondità che prescinde da dna e autenticità biologica, ma ancor di più da luoghi comuni e convenzioni da salotto.
Essere padre significa essere disposti a rinunciare a qualcosa pur di difendere il proprio rapporto. Un vincolo che non si nutre dell’incommensurabile coesistenza di una gestazione, del contatto fisico, dell’appartenenza ad un unico mondo nel quale il liquido amniotico è non solo menù, ma soprattutto un sentirsi insieme.
Padre e figlio è un prendersi per mano. E a suo modo, è uno scegliersi ben oltre quel che il fato, la natura o come preferite chiamarlo,. ha scelto per te. Nel caso dell’elefante, appunto, l'accostarsi di una zampa.
Leggere questa storia, senza essere padre, non lascia le stesse sensazioni. Farlo, una volta padri, non può lasciare indifferenti. Perché in fondo si comprende come una volta che il destino ci ha affidato questo compito – meritevoli o meno di esserne destinatari – ogni nostro gesto, ogni nostra azione, ogni nostro fare quotidiano, finiscano silenziosamente orientati verso una direzione, un cammino diverso. Magari più irto di difficoltà (e qualche rinuncia) ma in realtà guidato da una bussola nuova. Dove il nord e il su, probabilmente, neanche esistono più. Dove il cammino non è più tracciato dall’io. Né può prescindere da quel rapporto.
Nella vita di tutti i giorni come nelle scelte che ti cambiano la vita stessa.
Chi sei, ciò che fai (e come lo fai) diventa qualcosa di diverso. Di più intenso, di più grande.
Leggendo Missiroli mi è venuto in mente, che sarebbe interessante appuntarsi, ogni giorno, una frase, un’espressione, una battuta che tuo figlio ti fa su un qualsiasi argomento. Ognuna di esse, è un continuo richiamo, è un continuo invito. Una richiesta e un approccio, a vivere insieme quel momento, ad attraversarlo con la curiosità di chi ha voglia di crescere, ma con le cinture allacciate. Con la sicurezza di chi si affida alla tua esperienza, al tuo essere padre. Pur ignorando quanto questo ti possa far sentire, a volte, inadeguato. Quelle cinture, quella ricerca di certezze, sei proprio tu.
Non esiste un dizionario dove imparare ad esserlo per bene.
Ma almeno, con “Il senso dell’elefante”, ce n’è uno che ci ricorda quanto sia importante viverlo…
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