Sarà che gli anni passano. E, alla soglia degli anta, spesso finisci per misurarli con quei due – tre eventi che ti cambiano la vita. Perdendo di fatto cognizione dello sfogliare del calendario. E con esso, della “conta dei Natali”.
Sarà anche che il Natale per eccellenza è quello vissuto da bambino, tra i riflessi dell’Albero, gli sguardi incantati di statuine intorno al presepe, a letto presto la sera del 24, in attesa dei pacchi e pacchetti infiocchettati, e di parenti sparsi intorno ad un tavolo a spassarsela a “sette e mezzo” o “sorchietta” e alla fine una salutare tombola. E un’atmosfera di magia, che ricorda un po’ la famiglia e i sorrisi da Mulino Bianco (o, visto il periodo, da pandoro Bauli) ma con un pizzico di autenticità in più.
Sarà tutto questo che, ogni anno di più, l’arrivo del Natale mi porta a ripensare alle feste di una volta. E al tempo stesso, a rivivere quelle emozioni dallo sguardo, dalla frenesia, dall’impazienza che accompagna lo scartare dei regali da parte dei miei figli.
“Quando i bambini fanno ohhh!” cantava Povia – nell’unica canzone che avrebbe potuto tranquillamente vincere Sanremo ed essere al contempo la sigla dello Zecchino d’oro.
La letterina (quest’anno faticosamente scritta per la prima volta di suo pugno, da Giovanni), lo stupore denso di innocenza, l’istintiva aggressione in ordine sparso dei doni disposti meticolosamente ai piedi dell’Albero. E poi la congestione di carte arrotolate che si ammucchiano – fino a pochi istanti prima splendide confezioni cariche di suspence, poi, solo materiale buono per la differenziata del martedì sera. E una stanza dei giochi sempre più satura.
Chissà se Leopardi, scrivendo il “Sabato del villaggio”, non abbia pensato anche al Natale. Al suo di Natale.
Il dubbio non mi macera. Piuttosto è l’album dei ricordi che scorre come una pellicola cinematografica di quelle di una volta, con i bordi a quadretti e le immagini un filo affumicate, qualche “ruga” ballonzolante sullo schermo, che scandisce il susseguirsi di flash: ognuno prezioso, ognuno custode di emozioni, ognuno ricco di significati.
Il mio Natale da bambino era in realtà la festa per i miei nonni. Quelli paterni, a casa. E quelli materni nella vicina San Martino. Avevano un gran da fare con pranzi e cene cariche di nuore, cognati e nipoti, primi, secondi, parmigiane (di gobbi a pranzo, di carne a cena). Un caotico avvicendarsi di piatti e stoviglie che avrebbe fiaccato anche uno scerpa. Ma avevo l’impressione che in realtà fosse il giorno per cui attendevano un anno intero.
In fondo lo era anche per noi. La loro gioia era anche la nostra. Il ritrovarsi intorno ad un tavolo, davanti ai classici cappelletti – preparati giorni prima dalle “donne” di casa, la Graziella, la Mita, figure quasi mitologiche per noi bambini, alle quali facevamo ricondurre sorrisi e sgridate, sempre bonarie, dal senso materno.
E poi a tavola: ascoltare i discorsi dei “grandi”, con la tv rigorosamente spenta, navigare tra la politica (ricordo mio nonno che ce l’aveva sempre con i comunisti), qualche pettegolezzo e sicuramente un po’ di sport, era un dolce spendere quel giorno di comunità tutta familiare. Che si concludeva con quello che oggi – nei menù dei ristoranti dei vip – definirebbero “carosello di dolci”, tutto il bendiDio che ogni bimbo di neanche 10 anni potesse immaginare.
Il pomeriggio, o la sera, si stiravano poi a maneggiare quelle carte che erano in realtà il passatempo immancabile di ogni Natale: fin da piccolo quella scatola rossa con la scritta “Modiano da Piacenza” aveva un che di familiare. Piacenza non l’ho mai vista ma è come se ci fossi finito ogni anno, e quel Modiano – un nome da celebrità anonima che sarebbe potuto suonare indifferentemente come uno studio notarile o un arbitro di calcio – aveva le fattezze e la familiarità di un altro invitato alla nostra tavola.
Mancava solo di apparecchiargli.
Cento lire quando avevi un mezzo punto o una "barella" (li chiamava così mio padre i quattro, quelle carte vie di mezzo con cui non sapevi mai se stare o andare a giù), centocinquanta per una figura (poteva scapparci un bel punto), mentre quando azzardavo ad estrarre addirittura 200 lire dal mio salvadanaio (un brucomela che usciva fuori, premendo un bottone e si mangiava la moneta, per poi restituirla dal "di dietro" - chissà che significato volesse dare a questo iter l'ideatore del giocattolo...), voleva dire che avevo un 6 o addirittura una "matta". Con il 7 potevo addirittura sbilanciarmi fino a 1.000 lire, quelle banconote con lo sguardo saggio e la barba rassicurante di Giuseppe Verdi poi sostituite negli anni dal sorriso materno di Maria Montessori.
Ecco Natale mi fa pensare anche a tutto questo. I dolci, i panettoni, i torroni, erano di contorno. Come le trasmissioni vintage (già allora) che scorrevano in tv (ancora nei primi anni Ottanta non solo non c'era internet e telefonini, ma neppure videoregistratori per guardarsi qualche cartoon o film natalizio).
Ma tutto quello che accadeva e che arrivava (soprattutto impacchettato) non avrebbe avuto comunque lo stesso sapore, senza questo calore: fatto di un tavolo intorno al quale sedersi, di pomeriggi magari trascinati tra le chiacchiere su una poltrona e qualche scatola di gioco da tavolo (ricordo l'anno del "Risiko" assolutamente "fotonico"). Ma sempre e comunque con quell'atmosfera inconfondibile.
Da Natale in famiglia.
Un giorno mi piacerebbe che anche i miei figli potessero ricordare qualcosa di simile.
Di caldo, di affettuoso, di intenso. E magari, qualche anno dopo, di così nostalgico...
giovedì 30 dicembre 2010
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