Il 2011 non è iniziato granchè. A parte qualche mazzata a burraco, non me n’è andata una giusta. Per fortuna non sono di quelli che si affidano ciecamente ai proverbi (“se il buongiorno si vede dal mattino…”).
In questi giorni di ferie (più virtuali che reali), in attesa che almeno per qualche ora reali lo siano davvero, ogni tanto mi soffermo a riflettere su quello che ci accade e che spesso ci condiziona la giornata. Il suo colore, il suo umore. Se non il suo senso, certamente la sua andatura. Piccole sciocchezze, troppo spesso, finiscono per trascinarci in labirinti mentali dai quali si fatica a venir fuori.
Come quando ti si impiglia il cavetto dell’auricolare del telefono, sei in mezzo al traffico, ovviamente ti squilla, e tu per sbrogliare la matassa, di fretta e furia, finisci per aggrovigliare ancora di più fino all’ultimo lembo, quel passante sottile quanto diabolico. E alla fine cedi, stacchi tutto, e rispondi mettendoti nevroticamente e beatamente (condizioni molto meno distanti di quanto non si pensi) il telefono all’orecchio.
Nella fattispecie – come ci dicevano all’Università (una delle poche cose che mi ha lasciato Giurisprudenza, concedetemela) - l’intreccio nel quale mi sono auto-disorientato in queste settimane è legato a pochi oggetti che non sono riuscito a ritrovare nei meandri di casa: poche cose, roba d’abbigliamento stagionale, di quelle che tiri fuori 4-5 giorni all’anno. Ma in quella breve forbice temporale non puoi decisamente farne a meno: occhiali da sole da sci, un paio di cappelli, un paio di guanti. Valore complessivo, forse, poco sopra i 100 euro. Ricomprarli è il tempo di scendere di casa, andare al più vicino negozio sportivo e scegliere.
Ma il semplice fatto di non averli ritrovati e di non sapere dove siano (in attesa che rispuntino fuori magari la prossima estate quando saranno diventati del tutto inutili) è al limite dell’insopportabilità.
Ho rovistato casa, messo a soqquadro – più di quanto non siano già riusciti Giovanni e Vittoria (il che è molto difficile) – gli angoli più nascosti di un appartamento che spesso nei suoi metri quadri – non so neanche quanti, ma non siamo tanto sopra i 150 – riesce a celare l’oggettistica più inusitata nei luoghi più improbabili.
In questa ricerca quasi febbrile – roba da “caccia al tesoro” ai tempi di Jocelyn – sono tornati a galla maglioni e camicie dimenticate, tavole da scacchi, videocassette VHS primi anni ’90, scarpe che pensavo già al macero, giochi da tavolo che meritavano di finirci prima ancora di essere acquistati, borse, suppellettili, vettovaglie, residui della lontana esperienza scout. Insomma una congerie di materiali che pur nell’ansiosa operazione da Bertolaso domestico ha innescato inevitabilmente il tasto-ricordo.
Come una vecchia pianola, ragalatami a Natale quando avevo, sì e no, 10 anni: oltre alla tastiera, che dovevi saper maneggiare da solo (non come quelle di oggi, che premi e hai la canzone da cima a piedi), trovavi qualche bottone supplementare, in genere di colore sgargiante, che ti dava “la base”: o un motivo di sottofondo, o semplicemente una ritmica.
Ecco, ripescare questi oggetti, spuntati fuori alla rinfusa, è stato un po’ come solleticare la memoria e i ricordi, premendo un tasto.
Chissà se anche Foscolo non avesse perso qualcosa di prezioso prima di scrivere i Sepolcri. Di sicuro, quel tasto, per quanto abbia ispirato un piacevole viaggio nel tempo, alla fine non ha sortito l’effetto sperato: niente cappelli, occhiali e guanti da sci.
“Ma che t’importa. Ormai non li hai ritrovati, punto e basta”, mi sono detto.
Un modo come un altro per “darmi pace”.
E invece no, continuava a ripetere il Giacomo più intimo. Lo capisco. In fondo, la verità è che il valore che attribuiamo alle cose non sta nelle cose in sé. Ma in quello che ci rappresentano, ci raffigurano. E spesso, molto spesso, ci ricordano. Quante volte una canzone, un profumo, un luogo, ci restano addosso per quello che il nostro vissuto ci ha portato a sentire, a provare, a vivere insieme ad essi.
E così anche gli oggetti, più banali e insospettabili, spesso diventano i nostri complici più intimi, di emozioni ed esperienze che non vorremmo cancellare.
I guanti? Mi ricordo che li presi in Austria, nel 2007, in una settimana bianca (l’ultima) tra amici, giornate (e serate) intense, dove il cugino del Calda ci aveva mostrato la “sciabolata” – gesto secco e implacabile, con cui tagliava il collo di bottiglia allo spumante, senza che neppure una minima scheggia finisse nella pregiata riserva – esibita anche in pieno giorno in un rifugio alpino tra gli sguardi attoniti e divertiti dei presenti.
Gli occhiali? Un ricordo di Canazei, la prima Canazei, conosciuta in età matura – un po’ come lo sci – e poi diventata una “seconda patria” sportiva. Per 20 anni non ho saputo cosa fosse uno skilift – se non per vederci aggrappato un Alberto Tomba sorridente che risaliva la china in attesa di gabbare gli avversari di turno.
Ora non c’è anno che passi che riesca a fare a meno di una discesa in Val di Fassa. E scendendo placidamente per le "rosse" (e qualche "nera" fatta spensieratamente facendo finta di non saperlo) scorro nella mente canzoni come "Feel" (Robbie Williams) che mi accompagnano a ritmo di sciata, fino ai piedi della pista. Dove l'unico suono che ti sta accanto è il rumore degli sci, qualche folata di uno sciatore (o snowbordista) che ti passa vicino. E il silenzio di quella quiete che sembra il set di un film. In attesa del colpo di scena.
Magari mi ci vorrà proprio tutto questo per dimenticare ciò che ho perso.
In fondo sono solo un paio di occhiali, un cappello e dei guanti…
Ma forse non è quelli che cercavo… E il solo fatto di cercarli e di averne bisogno, mi ha restituito qualcosa in più…
lunedì 3 gennaio 2011
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