Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

venerdì 18 febbraio 2011

Il 17 marzo sarà festa: ma la cerimonia più autentica è quella andata in scena a Sanremo... con un superbo Benigni...

Emozionante. Semplice come definizione, ma essenziale. Emozionante è fissare tre colori, adagiati su una splendida facciata rinascimentale. Come nell'istantanea qui a fianco, dedicata alla splendida scenografia che in questa serata ha salutato i 150 anni dell'Unità d'Italia. Bella, unica.
Come pensare a tutto quello che c'è dietro: quei colori, quel simbolo, quella storia.

E' strano parlare di emozione quando l'argomento è un anniversario nazionale, una celebrazione di cui si è spesso parlato - senza per altro capirne a fondo i reali significati.
I 150 anni dell'Unità d'Italia. Una data di quelle a cui non dai molto peso, sfogliando i libri di storia. Quasi che in fondo il Risorgimento sia capitato lì, a metà tra la Rivoluzione francese e le guerre mondiali, per caso. Giusto per riempire quel cinquantennio di passaggio tra la Rivoluzione industriale e la Bella epoque. Giusto per condire il primo quadrimestre di un ultimo anno di superiori.
Non è stato ovviamente così, ma mai come in questa ricorrenza - forse - si riuscirà a colmare un gap culturale che da sempre attanaglia la nostra società.
Perché ci si accapiglia e ancora scorre sangue bollente, quando si parla di dopoguerra, di resistenza da una parte, Salò dall'altra. E dovranno passare ancora diverse generazioni e un paio di altri Pansa per conoscere fino in fondo la verità.

Ma del Risorgimento, diciamo la verità, si è sempre parlato poco. Tanto da temere che in fondo anche questa ricorrenza nel 2011 potesse passare, come dire, in "cavalleria".
Invece probabilmente non sarà un colpo "sparato a salve".
Intanto perché il 17 marzo sarà festa per davvero. Anzi, "festa vera" - come titolava stamattina "La Nazione". Scuole, fabbriche e uffici chiusi per i 150 anni dall'Unità d'Italia.
La Lega non ha digerito la decisione. Pazienza. Credo che - per quanto molte battaglie del movimento di Bossi meritino riflessione, al di là del folclore verbale e della portata populistica - su questo crinale il partito che oggi costituisce il più solido alleato del premier rischi di "prendere un granchio" colossale. Se non la condivisione, almeno il silenzio sarebbe consigliabile.

E' singolare però che un contributo tra i più essenziali alla consapevolezza dell'importanza di questo evento non sia arrivato da un personaggio del mondo della cultura, della storia, della ricerca.
Ma da un attore. Roberto Benigni.
Il rischio che la celebrazione si trasformi in "liturgia" è sempre in agguato: qualche commemorazione, i discorsi di rito, il protocollo istituzionale, e magari una fanfara per ricordarci qualche motivo dell'epoca.
Niente di tutto questo. La "lezione di storia" che Benigni ha messo in scena sul palco dell'Ariston, a Sanremo, è qualcosa che sfugge dai binari della scaletta. Proprio come quella bandiera riflessa sulla facciata di Palazzo Ducale a Gubbio: semplice, immediata, bella.
Come, anche, nell'indole del personaggio in questione, che non ama seguire un copione. E spesso si affida a quell'istinto naturale che suggerisce battute, uscite impulsive, qualche parolaccia (ma sempre a fin di bene...).

Non mi reputo un fan di Benigni. Dove fan sta per sostenitore cieco e accanito di tutto ciò che esce dalla sua bocca. Ma penso che sia umanamente impossibile non ridere guardando un film come "Johnny Stecchino"; o non commuoversi nella seconda parte de "La vita è bella". Capolavori, a loro modo. Diversi, ma forse irripetibili.
Proprio come il monologo di oltre mezz'ora che dal palcoscenico più nazional-popolare del Belpaese, ha lanciato qualche messaggio. E soprattutto un'incredibile iniezione di energia. Scorrendo via tra qualche inevitabile battuta sul premier e sul caso Ruby (ma come non parlarne), sull'esilarante consiglio dato a Silvio di cambiare canale (ma non Raidue, che c'è Santoro...). Arrivando finalmente a parlare di Inno di Mameli e  patriottismo - che fa da contraltare al nazionalismo; di felicità (ma che non dev'essere cara); e di come il Risorgimento sia nato dal popolo, e soprattutto dai giovani. Che hanno creduto in un ideale. Forte, grande, e finalmente, oggi, non più distante. La patria.

Poi l'eccellente esegesi dell'inno di Mameli, punteggiata comunque da battute sull'attualità: "L'italia s'è desta. Svegliamoci. Svegliatevi. Dov'e' la Vittoria? Le porga la chioma, ché schiava di Roma, Iddio la creò. Umberto -dice Benigni rivolto idealmente a Bossi - schiava di Roma non è l'Italia, è la vittoria. Umberto, hai capito? Che c'è lì pure tuo figlio Renzo?". Benigni prosegue con la sua analisi storico-filologica dell'Inno: "Stringiamci a coorte/Siam pronti alla morte/L'Italia chiamò", declama e poi sottolinea: "Coorte non è la corte, è la decima parte della legione romana, 600 fanti. Come dire l'unione fa la forza. Stiamo uniti".
E infine quell'inno intonato "a cappella" e con il cuore... Indimenticabile.



Ma ciò che colpisce, è l'autenticità, la spontaneità, la schiettezza - al di fuori di ogni ortodossia di circostanza - che scandiscono le parole di Benigni. Che se un Oscar dovesse meritare, sarebbe proprio per questa "lezione di storia". Che meriterebbe, per leggerezza di forme e profondità di contenuti, di essere divulgata anche a scuola. Se non altro per far capire che il Risorgimento è qualcosa di molto più vicino di quanto non sia sembrato finora. Di molto più nostro. Di vero.
"Amo la mia patria. Non solo perché è bella. Ma soprattutto perchè è la mia".



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