L’ho ribattezzate “ferie simulate”. Sono quei giorni – spicchi di settimana, di solito a cavallo con i ponti festivi – che si ritagliano nel corso dell’anno per esaurire il monte ferie previsto dal contratto.
Per la verità, nessun contratto parla di “ferie simulate”, tutt’al più distingue le ferie dai ROL (recupero ore lavorative): ma non chiedetemi la differenza, ancora non l’ho capita.
Conosco bene invece la differenza tra le ferie e le ferie simulate. Con le prime te ne vai, lontano abbastanza da non dover rientrare (in genere 2 settimane, ma può scapparci anche il ponte, o mini-ponte infrasettimanale, magari abbinato ad una partita di calcio… che ci volete fare, ci sono malattie anche più gravi…).
Per le ferie vere – è un pensiero personale – l’ideale è un luogo salubre, aria buona, un po’ di sport, mangiare giusto ma comunque sano. Letture di ogni tipo e ad ogni ora della giornata. E possibilmente, un posto dove nessuno ti conosca (detta così sembra snob, ma quest’anno si correva il serio rischio di ritrovarsi a parlare a giugno di ceri – serie B – elezioni amministrative, e allora addio vacanza…).
Con le seconde, le “ferie simulate”, formalmente sei fuori ufficio, ti riposi, ti rilassi, ricarichi le pile. Ma è una dimensione virtuale, un po’ come molte delle amicizie di facebook.
In realtà sono simulate perché poi ti capita – ogni giorno – di tornare in ufficio, di essere ricontattato per sbrogliare una “bega”, di registrare una trasmissione (perché già che ci sei…), di fissare un appuntamento di lavoro (giusto quella mezz’ora che passo in ufficio)… E ovviamente, facendola in città, di ritrovarti a parlare delle stesse cose, tutti i giorni.
Insomma le ferie sono tali solo perché sono segnate sul libro presenze.
Ci pensavo questi giorni, perché proprio questa era la mia settimana di “ferie simulate”. La differenza sostanziale con quella precedente e con la prossima è che non faccio rassegna stampa (sveglia ore 6,25, lettura giornali e in onda in diretta alle 7,30), indosso un paio di bermuda per dare (e darmi) una parvenza di ferie (appunto, simulate), e ricavo una mezz’ora/tre quarti per una corsetta in più o una passeggiata sul monte. Cosa, quest’ultima, che riesco a fare anche nelle altre settimane, ma un po’ più a fatica: qualche volta penso che si consumino più calorie a pensare come organizzarsi per trovare il tempo di bruciarle, che non nell’atto stesso della corsa.
Un po’ come quando devo fare un regalo: il problema è trovare quello giusto, più che spendere la cifra giusta. In tempi di crisi, vedrei bene come lavoro part time (è un suggerimento agli amici del blog) il present trainer, una sorta di consulente per i regali. Uno che ti offre un pacchetto completo, idea – confezionamento - sbrigo faccende – e magari anche la frase ad effetto per il bigliettino (altra mansione per la quale ho sempre subìto l’incombenza, visto il lavoro che faccio, e ho dovuto sbrigarla senza fronzoli, né gloria postuma).
Sto deragliando paurosamente, lo so. Il problema restano le ferie simulate: ti disorientano. Perché non sono giorni di lavoro vero ma neanche di relax. Che parola insulsa, relax.
I latini – molto pragmatici e concreti - lo chiamavano otium, e non avevano tutti i torti. L’otium poi, a quei tempi, non aveva l’accezione negativa della sua traduzione moderna (ozio). Era considerata un’attività, essa stessa. Non a caso i romani hanno inventato le terme, scoprendo la cosa più naturale (e banale) del mondo: l’acqua calda.
Anzi, si riteneva che la pratica dell’otium fosse l’altra faccia della medaglia del lavoro, dell’operare, del “darsi da fare”, industriarsi, commerciare. In una parola, il complemento del “negotium”.
Ma nessun negotium funzionava davvero se non aveva anche un po’ di otium accanto a sé. Va detto, che ai tempi nostri in molti hanno interpretato l’antico precetto latino con perfida esagerazione: ti fanno credere di dedicarsi al negotium, ma praticano solo e solamente un insopportabile otium. Spesso anche a spese nostre…
E in fondo questa, più che una lezione semantica, rischia di essere una lezione di vita. Attuale, anche in un periodo di crisi nera come quella del 2011, che i nostri figli o nipoti ritroveranno nelle enciclopedie (forse multimediali) sotto la parola default. I latini, sempre concreti e pragmatici, l’avrebbero definita semplicemente tragedia collettiva.
Insomma le ferie simulate sono una fregatura. Non sono né otium, né negotium. Ne esce fuori una settimana ibrida nella quale perfino un blog finisce per risentirne. Non ci sono stimoli, emozioni, sollecitazioni che ti portino a scrivere. E a condividere, come fai sempre più spesso, qualche pensiero con altri 25 lettori (forse un po’ di più, ma anche il Manzoni si teneva basso...).
E comunque se questo ibrido fa effetto a me – arrivato a scrivere queste stupide righe – non ha lasciato indifferenti neanche voi (se siete riusciti ad arrivare a leggerle fino a questo punto…).
Tanto meglio abolirle queste settimane spurie, né carne né pesce. Vogliamo recuperare produttività e potere d’acquisto? Vogliamo sotterrare inutili privilegi e prebende che minano i conti e il futuro della nostra società?
Oltre alle auto blu e ai vitalizi – che se non saranno davvero toccati, credo che tra non molto diversi parlamentari dovranno raddoppiare le scorte a proprie spese… - pensiamo anche un po’ nel nostro piccolo.
Diamo a noi stessi il buon esempio. Aboliamo le ferie simulate: se si va in ferie, si parte e basta. Si chiude il cellulare, non si accende il pc, si coltiva il sano e immortale otium.
Che sarà pure il padre dei vizi. Ma ogni tanto, anche la carezza di un buon padre, a qualsiasi età, ti restituisce il sorriso…
giovedì 11 agosto 2011
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L'otium ovviamente non va confuso con la noia, condizione tediosa da esorcizzare in ogni modo. Se l'otium deve trasformarsi in noia, molto meglio lavorare.
RispondiEliminaSu questo, condivido pienamente la riflessione di oggi nel fondo in prima pagina del "Giornale dell'Umbria" a firma di Leonardo Varasano: "Meglio lavorare se il riposo porta alla noia". Come dargli torto...