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venerdì 16 novembre 2012

Sallusti in carcere: non è una buona notizia per i giornalisti. E neanche per i lettori...

La tipica espressione di Alessandro Sallusti
Ho sentito dire questa: "Sallusti va in galera? Bene, non mi stava proprio simpatico...".
Fin qui il commento da bar. Poi, anzi prima, però, c'è la legge, il buon senso, la giurisprudenza e il rispetto di un mestiere - nel senso più nobile del termine - che avrà un milione di difetti e un miliardo di cattivi interpreti. Ma che non può portarti dietro le sbarre per un'opinione espressa. Foss'anche la meno apprezzabile e condivisibile.

Guareschi con il suo baffo inconfondibile
Alessandro Sallusti - direttore de "Il Giornale" - sarà il terzo giornalista nella storia del dopoguerra a finire dietro le sbarre per diffamazione. Prima di lui l'"onore" è toccato a Giovanni Guareschi (l'inventore di "Don Camillo e Peppone", ma ci finì per un articolo su De Gasperi) e Lino Jannuzzi (che ebbe l'ardire di criticare i giudici che avevano incarcerato Enzo Tortora). Personaggi diversi, distinti e distanti anni luce tra loro. Rei di aver diffamato a mezzo stampa personaggi - guarda caso, politici o magistrati - e di aver rinunciato, convinti della propria innocenza, ai benefìci che la legge pure concedeva (es: i domiciliari).
Sallusti farà lo stesso. Condannato nei tre gradi di giudizio per diffamazione, a causa di un articolo per altro da lui non scritto (è uscito firmato con uno pseudonimo di cui però di conosce l'identità) si è scatenato contro la Magistratura: "Andrò in carcere - ha detto - lì troverò sicuramente gente migliore di chi mi ci ha mandato".

Una vicenda paradossale che ha assunto poi i toni grotteschi quando è finita in Parlamento con il cosiddetto "ddl Sallusti", il disegno di legge che le Camere hanno cercato di approvare per modificare, in fretta e furia (come avviene spesso in Italia, quando "ci scappa il morto") una norma a dir poco anacronistica, quella che appunto prevede ancora oggi il carcere come misura coercitiva verso un giornalista che venga condannato per diffamazione. Cosa che non è avvenuta.
Dopo settimane di incessante (e infruttuoso) dibattito, il Senato ha infatti partorito quella che più che una legge, somiglia ad una "sentenza": Sì al carcere per i giornalisti che diffamano. L'aula di Palazzo Madama infatti ha approvato, con voto segreto, l'emendamento della Lega che prevedeva il carcere fino a un anno per chi diffama a mezzo stampa con l'attribuzione di un fatto preciso, cioè "il caso più grave", precisa il leghista Sandro Mazzatorta firmatario della norma. Voto segreto, avete letto bene. Voto dietro al quale si sono nascosti in molti, in una maggioranza trasversale (con esponenti di tutti i colori delle diaspore politiche esistenti) e probabilmente unita solo dal filo comune di una "antipatia" epidermica per Sallusti - che intanto però è stato innalzato all'altare dell'eroismo giornalistico - e in generale di una idiosincrasia per la libertà di stampa, principio difeso a parole ma poi calpestato nei fatti.


Di questa storia avevo parlato una decina di giorni fa in una piacevole conferenza all'Università della Terza Età di Gubbio - sodalizio ricco di iniziative, una delle quali dedicata proprio al caso Sallusti e alla deontologia professionale (a cui per altro non sarei potuto sottrarmi anche per l'insistente pressing di mia suocera, che ne è presidente...). Ebbene, il pomeriggio alla Sperelliana mi aveva consentito, indirettamente, anche di approfondire una vicenda che conoscevo ma sulla quale ho trovato ulteriori spunti di riflessione.
A cominciare dall'articolo famigerato che Sallusti - oggi direttore del "Giornale", ma allora direttore di "Libero" - pubblicò firmandolo con lo pseudonimo Dreyfus (dietro al quale tutti sanno, anche per ammissione del diretto interessato, celarsi l'ex giornalista e oggi parlamentare Renato Farina).
http://www.liberoquotidiano.it/news/italia/1085698/Ecco-l-articolo-di-Dreyfus--che-ha-fatto-condannare-Sallusti.html

L'articolo incriminato - che potete leggere nel link qui sopra - non lo ha scritto Sallusti (e questo comporterebbe una pena minore per il solo "omesso controllo", che non è il carcere) ma per la Magistratura non fa nulla. Non è bastato neppure che lo stesso Farina, in Parlamento, abbia chiesto pubblicamente scusa al giudice Cocilovo (che è il querelante) e che abbia ammesso davanti a tutti di essere lui l'autore dell'articolo concludendo il suo discorso: "Se c'è qualcuno che deve andare in carcere, allora, quello sono io!".




E così la norma più obsoleta di una legge che risale al 1948 (legge sulla stampa) - varata sull'onda emotiva dei 20 anni di fascismo e del dopoguerra - di fatto resta tale, andando a combinarsi con l'art.595 del Codice Penale (sempre del Ventennio) per il quale "Chiunque comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1032 (entità ovviamente aggiornata). Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2065. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad euro 516".
La diffamazione, lo ricordiamo per chi è meno avvezzo a frequentare i codici, è "l'offesa che si reca ad una persona non presente, in presenza di altre persone. Assume una gravità maggiore se l'offesa è esercitata con un mezzo di stampa". Offesa contro la quale si può sporgere querela entro 90 giorni e che il giornalista potrebbe subito evitare attraverso l'esercizio della "rettifica" o "smentita" - che spesso viene relegata in modo ipocrita in un box defilato a fondo pagina.

Il problema ora non è (solo) che fine farà Sallusti ma che sorte avrà un quesito basilare del vivere comune sul quale è bene che tutti si interroghino: come conciliare un diritto irrinunciabile (il rispetto della persona) con un diritto altrettanto forte e fondante (la libertà di pensiero ed espressione a mezzo stampa)?
Due diritti costituzionali (art.3 e art. 21) che non possono escludersi ma che dovrebbero trovare "coesistenza" nel sistema di un ordinamento minimamente civile, nel quale non dovrebbe esserci spazio per il carcere come strumento coercitivo verso chi vìola le norme che disciplinano la diffamazione.


Chi sbaglia deve pagare - anche se per la verità, non per tutte le categorie professionali è così (ad es: i Giudici che sbagliano non rispondono di questo). Ma il carcere per chi esercita un'attività come quella giornalistica appartiene a epoche e sensibilità che oggi dovrebbero essere morte e sepolte.
A rischiare - dopo questa debacle del Parlamento che non ha di fatto cambiato una norma vecchia e inapplicabile - non sono solo e soltanto i giornalisti. Ma sono soprattutto i lettori, telespettatori, radioascoltatori, in pratica i destinatari (e beneficiari) di quel principio (la libertà di stampa) che ora è stato evidentemente ridimensionato dal Legislatore.
Perchè una stampa che ha in testa la "spada di Damocle" della querela - addirittura con il rischio del carcere - è una stampa ancora meno "libera" di quanto debba essere (e forse non sempre è). A scapito di poteri - quello politico ma anche quello giudiziario - che evidentemente hanno interesse che l'informazioni sia funzionale. A quali interessi però non sempre è così limpido capire...

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