“L’estate non è una stagione. E’ uno stato d’animo”.
Detta così sembrerebbe di un filosofo. Ma è solo la frase di commiato di Jerry Calà da uno dei suoi tanti spettacoli con musica vintage e aria nostalgica di chi ha saputo bersi davvero gli anni Ottanta – come recitava lo spot del Ramazzotti. Ed oggi riesce ancora a capitalizzare, tra un “Maracaibo” e un “Tarzan boy”, l’atmosfera di quell’era, tutta spot, ballerine e pailletes.
L’estate è entrata da qualche giorno. Ma se non fosse l’almanacco (radiofonico o televisivo, per chi non sta in vacanza e non riesce a staccare dalle abitudini davanti al tubo catodico) non ce ne saremmo accorti. Il caldo c’era già.
Pure per chi, come me, in vacanza ci sta davvero – anche se di staccare la spina (specie quella telefonica) neanche a pensarci.
E allora tra qualche ritocco al palinsesto venturo, qualche articolo a distanza, qualche contratto pubblicitario in fieri, l’aria quieta e sonnolenta di Alba Adriatica suggerisce lievi reminescenze. Che purtroppo di quieto hanno ben poco.
Intanto mentre scrivo si è smarrito il piccolo Alan: lo dice l’altoparlante della spiaggia, a due passi dal terrazzo da dove posso assaporare una vista sul mare straordinaria (la foto non è di quest’anno, ma vi assicuro che non è cambiato nulla: dal balcone il tramonto è proprio così…).
Le vacanze da queste parti valgono la pena per questa terrazza naturale sull’Adriatico (vedi foto in alto) e per la pista ciclabile sottostante (la passeggiata Alba-Giulianova è nella top ten delle cose che preferisco, l'ho fatta anche stamattina, rigenerante)… E anche perché non rischi di incontrare qualcuno che ti chieda di elezioni comunali, Ceri o serie B. Per un paio di settimane, almeno.
Finchè non squilla il telefono e allora…
L’idillio visivo cozza ben presto con questo messaggio, nudo e crudo, gracidante ansia: si è smarrito il piccolo Alan, indossa un costumino bianco con scritta blu. Non vorrei mai trovarmi nei panni dei suoi genitori. Ho perso per mezz’ora il mio Giovanni il giorno dei ceri piccoli, ed è stato panico puro (non che temessi che non ritrovasse la strada di casa, ma in piazza Grande in vista dell’alzata uno teme che può sempre succedere di tutto, e almeno per qualche altro anno sto più tranquillo ad averlo con me).
Giugno, poi, è stato sempre un mese un po' grigio. Non so perché. O forse lo so, ma preferisco non pensarci. Ciclicamente ho dovuto fare i conti con qualche problema. Ci sono anche stati giorni felici, carichi di emozioni. Ma di solito la memoria ragiona un po’ come le pagine di cronaca: prima la nera, poi la rosa, infine lo sport.
Anche qui è arrivata, inevitabile, l’eco della tragedia di Gubbio: di un sabato sera squarciato dall’assurdità di un dramma, reso ancora più pesante dalla giovane età della vittima. “Fortuna che non c’eri” m’ha bisbigliato qualcuno per telefono, nell’ennesima ricostruzione di quanto accaduto.
E invece mi accorgo che a distanza di 200 km il non essere spettatore di qualcosa (pur dovendo in qualche modo verificare cosa ne fosse scritto di quel qualcosa) – soprattutto se poi questo qualcosa ti angoscia e ti avvilisce – è forse peggio: nel senso di impotenza comune, che avvolge vicende come questa, pesa ulteriormente il senso di inutilità dello “stare in vacanza” (come se stando a Gubbio, si potesse essere utili a qualcosa purtroppo di ineluttabile).
Lontano non è meglio.
Forse perché la distanza – almeno in apparenza – attutisce in parte i colpi. Se non vedi un manifesto, non leggi un giornale o vedi un tg, se non ne parli con nessuno… Finisci quasi per illuderti che non sia successo… Anche se sai che non è così…
Senti il rumore di quanto è avvenuto, ma non hai l’esatta percezione della sua enormità.
Un po’ come quando, nell’84, sfollati dopo il terremoto nella casetta di campagna, sulla Madonna della Cima (un trilocale ad un solo piano in cemento armato, praticamente un bunker, nel quale eravamo appollaiati in una decina) non arrivava neppure una scossa dello sciame sismico che ogni terremoto si porta dietro (tutt’al più ci informava la radio): ma sentivamo a distanza una specie di ululato della terra. Era l’eco delle scosse, un tuono che seguiva il lampo della faglia che altrove si muoveva. Sapevamo cos’era, anche se in casa tutto era immobile. E sapevamo cosa provava chi si trovava ancora a Gubbio…
Di Riccardo ho un ricordo limpido. Pur non conoscendolo bene, ci salutavamo. E mi colpiva – otre che un po’ farmi imbarazzare – il fatto che mi salutasse dandomi del “lei”. Rivelando un’educazione e un garbo non sempre materia prima quando hai l’esuberanza dei 19 anni. Ci eravamo conosciuti ad una cena – credo del Basket Gubbio o forse degli sbandieratori (lui era tamburino), ma credo più la prima visto che c’era il padre – da cui si era dovuto assentare prima del dolce, perché doveva andare a studiare per la maturità. Mi è sempre parso un ragazzo di quelli per i quali non servono aggettivi: a posto. Tranquillo, sereno e affabile come il sorriso che spesso gli vedevo impresso.
Non so perché, ma ho pensato spesso che avrebbe fatto il giornalista: in questi giorni ho saputo che studiava giurisprudenza. E che a dargli l’ultimo saluto erano in oltre un migliaio di persone. Amici, coetanei, conoscenti. E un milione di perchè.
Ogni estate porta con sé un lutto. Non è un modo dire – anche se lo si sente dire più o meno ogni estate. Ognuno di noi lo sa. Sarà che con questo “refrain” ci sono cresciuto, per un lutto familiare di quando ancora ero sul passeggino (agosto 1972), una storia triste e dolorosa che ovviamente non ricordo, ma di cui ho sentito parlare migliaia di volte come se l’avessi vista con i miei occhi.
E ciclicamente l’estate porta con sé qualcosa di pesante, qualche storia, qualche vita, da rimpiangere: ferite vistose, patite più o meno direttamente, che lasciano sempre e comunque cicatrici profonde. E tante lacrime. Tanti, troppi perché…
Da qualche giorno è estate. Ma l’estate non è una stagione, è uno stato d’animo.
Già, è proprio così…
giovedì 23 giugno 2011
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