Le buone notizie non vengono da sole. Per una volta. Soprattutto se poi riguardano la sanità, segmento della vita quotidiana assai delicato: perché se ne parla e se ne scrive soprattutto per ciò che non funziona (e resta tanto); perché nel privato se ne viene a contatto solo nelle situazioni di emergenza (diretta o indiretta, in ogni caso mai augurabile).
La buona notizia l’apprendo oggi, con una delle tante e-mail che imperversano nel mio Blackberry (faccio pubblicità gratuita perché vi assicuro che l’azienda non mi paga per questa citazione): l’associazione Eugubina per la Lotta contro il Cancro ha donato all’ospedale di Gubbio-Gualdo (la denominazione non è ancora ufficiale, ma pare gradita a molti politici di ambo i fronti del Chiascio, rispetto all’appellativo Branca) due cistoscopi flessibili a disposizione del reparto di urologia.
Che cosa sia esattamente il cistoscopio flessibile – anzi esattamente uretrocistoscopio digitale flessibile - oltre ad una specie di scioglilingua, ho potuto scoprirlo grazie ad un amico che non c’è più, ma che oggi sarebbe ancora più felice di me leggendo questa notizia.
Non è tanto e solo il valore materiale della donazione (circa 15 mila euro) quanto la storia che sta alle spalle di questa iniziativa, che mi riempie infatti di gioia e soddisfazione. Non senza qualche immancabile interrogativo (che poi aggiungerò in chiosa).
Per farla semplice – anzi, per spiegarla come l’ho capita io, che fortunatamente non ho dovuto mai utilizzarlo – il cistoscopio è lo strumento usato per la diagnosi delle neoplasie alla vescica, patologia tristemente diffusa soprattutto per gli over 50 (specie se accaniti fumatori): l’ospedale di Gubbio ne aveva in dotazione un paio, ma di quelli rigidi. Si tratta di apparecchiature sofisticate ma piuttosto “invasive” (considerando soprattutto “dove” il paziente deve essere invaso) e abbastanza anacronistiche rispetto alle soluzioni tecnologiche più moderne. Che si chiamano, appunto, cistoscopio flessibile digitale, lo stesso strumento, ma con una sonda leggerissima, flessibile e dunque – in fase di utilizzo e “inserimento” – decisamente meno dolorosa e invasiva.
Per ogni approfondimento, molto meglio di me potrebbe parlarne, ad esempio, l’amico urologo Federico Farneti, che dal palco del cinema Astra spiegò in modo esaudiente problematiche e terapie legate al tumore alla vescica.
Tecnicamente la terapia la chiamano follow up oncologico – una denominazione che definirei anglodeterrente, cioè fatta apposta per non far capire ai pazienti cosa li attende: di fatto, con il cistoscopio tradizionale solo gli sventurati diagnosticati osavano avvicinarsi allo strumento (costretti dal fato), ora con il modello più avanzato sarà possibile parlare finalmente anche di prevenzione (ovvero l’unica terapia finora più sicura per “prendere” in tempo il mostro e cavarsela). Ogni individuo con più di 50 anni, fumatore, potrebbe darsi un’occhiata periodica, senza temere alcun trauma, ma anzi avendo la serena certezza di un percorso lungimirante.
La storia che sta dietro a quella che oggi è diventata una cerimonia con (giuste) interviste e riconoscimenti, è quella di un signore, militare aeronautico in pensione, con la passione per le Frecce Tricolori (mi ha regalato un modellino che ancora conservo gelosamente a casa, lontano dalle "mani distruttive" dei figli) notizie e un “debole” per la redazione di Trg, che amava frequentare spesso, almeno finché la salute glielo concesse: un anno fa – avendo conosciuto suo malgrado le difficoltà operative dello strumento in questione – si inventò una raccolta fondi per dotare l’ospedale di Branca di un uretrocistoscopio flessibile a fibre ottiche: venne da me a parlarmi di questo progetto, non sapendo come poterlo divulgare, ma i suoi racconti sono bastati per convincermi che anche un sassolino nello stagno valeva la pena lanciarlo. Uno strumento che costava poco più di 5.000 euro ma che avrebbe lenito decisamente le sofferenze di tanti pazienti, oltre ad impedire che altri lo divenissero con una accurata e capillare opera di informazione e prevenzione.
Mi ripeteva: “Per quel poco che mi resta da campare, almeno vorrei fare qualcosa per gli altri”, e gli rispondevo che non doveva dire così, che lui avrebbe reagito, ne sarebbe uscito, saremmo andati a festeggiare insieme e altre frasi di circostanza che si dicono, poco utilmente, in questi casi per farsi e farci coraggio.
Il sasso è stato lanciato: un’intervista al primario dell’ospedale eugubino, il coinvolgimento di un’associazione (la Crisalide) che ha sposato fin dalla prim’ora la causa (non poteva farlo in prima e unica persona la nostra emittente, essendo azienda privata), l’avvio di un tam tam mediatico che sensibilizzasse un pochino l’opinione pubblica. Non è stato facile – neanche il nome dello strumento, tanto meno la patologia aiutavano – ma qualcosa si è mosso.
Ad esempio, il Comitato territoriale n.1 – allora guidato dall’attuale assessore alla cultura, Bellucci – ha abbracciato l’iniziativa e ha promosso una serata musicale per - raccogliere fondi. L’AELC – che da quasi 20 anni opera sul territorio in modo altamente encomiabile - a sua volta ha raccolto, per così dire, il testimone e l’ha portato felicemente al traguardo.
Un po’ come la fiaccola olimpica: un passaggio di consegne, magari alla fine l’ultimo tedoforo è quello che si becca qualche foto in più, ma la gratificazione, per aver sorretto quel simbolo universale, è di tutti.
Credo che oggi Giancarlo Nardelli – il signore che lanciò il sasso nello stagno – stia sorridendo, con quell’espressione divertita e un po’ ironica che lo ritrae anche nella foto che ho visto al cimitero.
A dimostrazione che anche un piccolo sasso, se c’è spirito, volontà e dedizione, può contribuire a fare tanto. Perfino in quel ginepraio burocratico-amministrativo che è la sanità, la nostra sanità.
Che come noto, pesa per il 70% sul bilancio dell’intera Regione, ma per la quale è necessario come il pane che esistano associazioni di volontari – e personaggi intraprendenti come Giancarlo, pronti a lanciare sassi nello stagno – per poter dotare un nosocomio definito da tutti all’avanguardia, di un’apparecchiatura, giudicata da tutti indispensabile, che costa meno di 10.000 euro.
Meno di qualche stipendio mensile elargito a top manager o qualche primario (perdonatemi, sono caduto nel qualunquismo, ma quando ce vo… ce vo…).
Prendiamola così. L’unione fa la forza. E facciamoci forza anche a resistere al facile istinto qualunquista, confidando nella stretta sinergia di pubblico e volontariato (magari con le risorse anche di qualche indispendabile fondazione bancaria) perché i nostri ospedali, votati ormai al principio assoluto della razionalizzazione (sembra che anche al giuramento di Ippocrate verranno tagliate un paio di righe…) possano avere oltre che solide mura, anche solidissime professionalità e strumenti adeguati.
A proposito, l’altra bella notizia – che non viene appunto da sola – è che dal 1 luglio sarà operativa un’ambulanza (anche se non medicalizzata, anche se solo H12) per il centro storico di Gubbio, di stanza all’ex ospedale: un’altra battaglia popolare, vinta sulla spinta di 11 mila firme, su iniziativa del solito attivo Comitato territoriale, per schiodare quella che veniva spiegata da vertici Asl e Assessorato alla Sanità come un’impossibile opzione per oggettiva carenza di fondi.
Peccato che a supportare la tesi non vi fosse la realtà, fatta di tre ospedali nel raggio di appena 50 km (Gubbio-Gualdo, C.Castello e la fatidica Umbertide, guarda caso città nativa dell’assessore portatore della tesi) e di risorse probabilmente ridotte ma sicuramente mal distribuite (un po’ come avviene nella sanità, quasi dappertutto).
E’ cambiato il Direttore generale Asl, l’assessore alla Sanità si è polverizzato (l’umbertidese dal quadro politico, il successore folignate per oggettive esigenze di indagine, causa Sanitopoli) e guarda caso il problema è stato risolto: quando si dice, un passo indietro della politica… Uno avanti, della sanità…
mercoledì 29 giugno 2011
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